Cosa fare se una persona anziana non vuole mangiare? Cinzia Siviero di Agape AVO ci offre alcuni suggerimenti semplici e quotidiani, con un focus sul nostro modo di entrare in relazione e restituire comprensione alla persona affetta da demenza.
La persona anziana non vuole mangiare: una difficoltà diffusa
Negli incontri che conduco insieme ai familiari di persone affette da demenza, emerge spesso questo tema delle difficoltà legate all’alimentazione. Ricordo che una volta, alla mia domanda su che cosa fossero soliti fare in queste situazioni, un giovane caregiver prese la parola e rispose:
“Io non perdo la pazienza, mi metto lì e con calma cerco di fargli capire che non può andare avanti così, perché sta dimagrendo. Lo ha detto anche il medico.
Gli propongo più possibilità in modo che qualcosa lo attiri e faccio di tutto perché riesca a mandare giù qualcosa”.
Ammirevole il comportamento di questo giovane.
In quell’incontro siamo proprio partiti da queste parole, riflettendo insieme sul binomio insistenza/accoglienza, sul difficile equilibrio da trovare, sapendo che l’insistenza è una forma d’amore, da non giudicare come errata.
Cercherò quindi di elencare a grandi linee i contenuti che sono emersi dal gruppo in quell’occasione.
Accogliere le emozioni della persona
Se qualcuno dei nostri cari un giorno è agitato, dire “stai tranquillo” purtroppo non lo aiuta molto.
Se vediamo che un nostro familiare è particolarmente confuso e dice qualcosa che non corrisponde alla realtà, correggerlo non lo sostiene, piuttosto sottolinea il suo errore.
Allo stesso modo, insistere nei confronti della persona anziana che non vuole mangiare, pur con tutta la delicatezza di cui siamo capaci, non alleggerisce.
Il metodo Validation ci insegna piuttosto a validare le emozioni dell’individuo, cioè a dare loro valore.
Fare proprio un atteggiamento di tipo validante consiste nell’accogliere sul piano emozionale ciò che la persona prova.
“Ti vedo preoccupato”: sarà un buon modo per iniziare la nostra comunicazione con la persona agitata, per esempio.
Chiedere di spiegarci meglio, sarà un approfondimento adatto con un anziano confuso.
E dire al nostro caro che comprendiamo, che deve essere difficile mangiare se non si ha affatto fame, lo farà sentire più accolto.
Pensare come se fossimo noi
I nostri famigliari disorientati convivono tutto il giorno con la negazione di ciò che loro sentono, con i nostri:
“no”, “non è andata così”, “non fare”, “non andare”;
e con i nostri:
“devi”, “torna qui”, “stai attento”, “siediti”.
Sottolineo che non siamo colpevoli di nulla, ma fare un primo passo verso un cambiamento, anche se difficile, credo sia la nostra vera responsabilità.
Per metterci nei panni dei nostri anziani affetti da demenza, una buona idea è pensare a ciò che accade anche a noi.
Pensiamo a quando non abbiamo fame e qualcuno ci spinge insistentemente a mangiare. In genere quello che ci arriva innanzitutto è ansia, e così non riusciamo a mandare giù neanche un boccone. Riconoscere la situazione per quello che è, legittimandola, rasserena il clima e tra l’altro ci permetterà di avere qualche chance in più poi per ottenere un piccolo sforzo da parte della persona.
Avremo più probabilità di far mangiare qualcosa se ascoltiamo quel “non ne ho voglia”.
Fare la guerra non porta mai vantaggi.
Chiarire con pazienza la nostra comprensione emotiva
Pensare a cosa aiuta veramente noi, ci fa trovare la strada per aiutare gli altri.
Tuffarsi con coraggio nell’emozione però non è facile, fa paura.
Spesso dentro di noi una voce misteriosa dice che è pericoloso, che poi non si sa dove si va a finire; mentre nella realtà non accade nulla di grave, anzi.
D’altra parte, il familiare non fa fatica in genere a sentire l’emozione del proprio caro. Trova con naturalezza dentro di sé la capacità empatica, spinto dall’affetto, dall’amore e dalla conoscenza della persona.
Fa però altre fatiche, come quella di convivere con sentimenti contrastanti, con le vecchie dinamiche famigliari che si fanno vive, con la stanchezza, con l’essere travolto.Questi fattori possono bloccare il flusso energetico e non permettere il contatto emotivo.
Il mio percorso personale oltre che professionale mi ha fatto scoprire anche un altro aspetto da considerare, per nulla semplice: esprimere all’altro la propria comprensione emotiva nel modo giusto non è facile.
L’anziano affetto da demenza non riesce sempre a leggere la nostra comprensione profonda, a decodificare i segnali che il nostro corpo manda, per cui è necessario non solo mettersi lì al posto suo, leggere, vedere e sentire cosa prova lui o lei, ma anche imparare a dargli un rimando chiaro di ciò che sentiamo.
Darsi tempo per accettare ciò che è
Tutto questo però parte dall’accettazione di quanto è accaduto.
Se non riusciamo a convivere dentro di noi in maniera pacifica con la nostra nuova mamma o papà o fratello, ovvero se non riusciamo a vivere in maniera creativa la nuova situazione mettendo in campo le nostre capacità di adattamento, non ci sarà possibile essere empatici.
Questo dell’accettazione è sempre il passaggio più difficile per un famigliare. Non è una cosa che si fa in un attimo, è un processo.
Non è solo l’accettazione della malattia, ma è anche qualcosa che si può provare a mettere in atto in riferimento a una situazione specifica, diversa da quella del giorno precedente e dal giorno che verrà, diceva una volontaria dell’Associazione Al Confine di Milano.
È l’accettazione di quello che succede in uno specifico momento, nella quotidianità, di ciò che la persona fa; “e soprattutto”, aggiungeva un familiare, “della nostra impotenza”.
Quando riusciamo a fare questo grande passo amorevole verso noi stessi, allora siamo in grado di tentare la relazione empatica e finalmente di scoprire che c’è ancora molto da fare.
Quest’articolo è un estratto dal libro “Ma lei dove dorme? 24 ore accanto all’anziano affetto da demenza”.

Per conoscere di più sul lavoro di Cinzia Siviero in favore di caregiver e familiari, trovi ulteriori informazioni a questa pagina.
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“Io non perdo la pazienza, mi metto lì e con calma cerco di fargli capire che non può andare avanti così, perché sta dimagrendo. Lo ha detto anche il medico.
Gli propongo più possibilità in modo che qualcosa lo attiri e faccio di tutto perché riesca a mandare giù qualcosa”.
Ammirevole il comportamento di questo giovane.
In quell’incontro siamo proprio partiti da queste parole, riflettendo insieme sul binomio insistenza/accoglienza, sul difficile equilibrio da trovare, sapendo che l’insistenza è una forma d’amore, da non giudicare come errata.
Cercherò quindi di elencare a grandi linee i contenuti che sono emersi dal gruppo in quell’occasione.
Accogliere le emozioni della persona
Se qualcuno dei nostri cari un giorno è agitato, dire “stai tranquillo” purtroppo non lo aiuta molto.
Se vediamo che un nostro familiare è particolarmente confuso e dice qualcosa che non corrisponde alla realtà, correggerlo non lo sostiene, piuttosto sottolinea il suo errore.
Allo stesso modo, insistere nei confronti della persona anziana che non vuole mangiare, pur con tutta la delicatezza di cui siamo capaci, non alleggerisce.
Il metodo Validation ci insegna piuttosto a validare le emozioni dell’individuo, cioè a dare loro valore.
Fare proprio un atteggiamento di tipo validante consiste nell’accogliere sul piano emozionale ciò che la persona prova.
“Ti vedo preoccupato”: sarà un buon modo per iniziare la nostra comunicazione con la persona agitata, per esempio.
Chiedere di spiegarci meglio, sarà un approfondimento adatto con un anziano confuso.
E dire al nostro caro che comprendiamo, che deve essere difficile mangiare se non si ha affatto fame, lo farà sentire più accolto.
Pensare come se fossimo noi
I nostri famigliari disorientati convivono tutto il giorno con la negazione di ciò che loro sentono, con i nostri:
“no”, “non è andata così”, “non fare”, “non andare”;
e con i nostri:
“devi”, “torna qui”, “stai attento”, “siediti”.
Sottolineo che non siamo colpevoli di nulla, ma fare un primo passo verso un cambiamento, anche se difficile, credo sia la nostra vera responsabilità.
Per metterci nei panni dei nostri anziani affetti da demenza, una buona idea è pensare a ciò che accade anche a noi.
Pensiamo a quando non abbiamo fame e qualcuno ci spinge insistentemente a mangiare. In genere quello che ci arriva innanzitutto è ansia, e così non riusciamo a mandare giù neanche un boccone. Riconoscere la situazione per quello che è, legittimandola, rasserena il clima e tra l’altro ci permetterà di avere qualche chance in più poi per ottenere un piccolo sforzo da parte della persona.
Avremo più probabilità di far mangiare qualcosa se ascoltiamo quel “non ne ho voglia”.
Fare la guerra non porta mai vantaggi.
Chiarire con pazienza la nostra comprensione emotiva
Pensare a cosa aiuta veramente noi, ci fa trovare la strada per aiutare gli altri.
Tuffarsi con coraggio nell’emozione però non è facile, fa paura.
Spesso dentro di noi una voce misteriosa dice che è pericoloso, che poi non si sa dove si va a finire; mentre nella realtà non accade nulla di grave, anzi.
D’altra parte, il familiare non fa fatica in genere a sentire l’emozione del proprio caro. Trova con naturalezza dentro di sé la capacità empatica, spinto dall’affetto, dall’amore e dalla conoscenza della persona.
Fa però altre fatiche, come quella di convivere con sentimenti contrastanti, con le vecchie dinamiche famigliari che si fanno vive, con la stanchezza, con l’essere travolto.Questi fattori possono bloccare il flusso energetico e non permettere il contatto emotivo.
Il mio percorso personale oltre che professionale mi ha fatto scoprire anche un altro aspetto da considerare, per nulla semplice: esprimere all’altro la propria comprensione emotiva nel modo giusto non è facile.
L’anziano affetto da demenza non riesce sempre a leggere la nostra comprensione profonda, a decodificare i segnali che il nostro corpo manda, per cui è necessario non solo mettersi lì al posto suo, leggere, vedere e sentire cosa prova lui o lei, ma anche imparare a dargli un rimando chiaro di ciò che sentiamo.
Darsi tempo per accettare ciò che è
Tutto questo però parte dall’accettazione di quanto è accaduto.
Se non riusciamo a convivere dentro di noi in maniera pacifica con la nostra nuova mamma o papà o fratello, ovvero se non riusciamo a vivere in maniera creativa la nuova situazione mettendo in campo le nostre capacità di adattamento, non ci sarà possibile essere empatici.
Questo dell’accettazione è sempre il passaggio più difficile per un famigliare. Non è una cosa che si fa in un attimo, è un processo.
Non è solo l’accettazione della malattia, ma è anche qualcosa che si può provare a mettere in atto in riferimento a una situazione specifica, diversa da quella del giorno precedente e dal giorno che verrà, diceva una volontaria dell’Associazione Al Confine di Milano.
È l’accettazione di quello che succede in uno specifico momento, nella quotidianità, di ciò che la persona fa; “e soprattutto”, aggiungeva un familiare, “della nostra impotenza”.
Quando riusciamo a fare questo grande passo amorevole verso noi stessi, allora siamo in grado di tentare la relazione empatica e finalmente di scoprire che c’è ancora molto da fare.
Quest’articolo è un estratto dal libro “Ma lei dove dorme? 24 ore accanto all’anziano affetto da demenza”.

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