Quali sentimenti vi sono nella persona che deve lasciare la propria casa per entrare in RSA? Come possiamo accoglierli e averne cura? L’antropologia può venirci in auto per un’analisi profonda. Ce ne parla Barbara Di Clemente, scrittrice e promotrice culturale della Residenza Richelmy di Torino, in quest’intervista al noto antropologo Alberto Salza.

L’incontro con Alberto Salza

Da cosa nasce cosa, un proverbio che, in questo caso, sembra davvero calzante.

Infatti, scrivendo l’articolo in cui davamo voce ai familiari della nostra struttura, esce fuori che l’amico che ha dato alcuni suggerimenti a una parente per migliorare il rapporto tra famiglie e RSA, è un noto scrittore, antropologo e ricercatore italiano.

Potevamo farcelo scappare?

Si tratta di Alberto Salza: da oltre cinquant’anni studia l’Africa, la sua ecologia e le sue popolazioni, con spedizioni attraverso tutto il continente e missioni sul campo in altre aree del mondo.

Alberto Salza

Non nascondo la mia emozione nell’incontrarlo. Per fortuna è una persona alla mano, dai modi spicci e le idee chiare.

Considerare tutti i punti di vista

«In Africa ho partecipato a diverse battute di caccia con i Boscimani del Kalahari, tra cui sono vissuto per mesi.

La prima volta mi fu insegnato che non era importante solo come io vedevo l’animale ucciso, ma anche come l’animale da uccidere vedeva me.

Una riflessione profonda che ha ribaltato per sempre la mia prospettiva.

Insomma, per migliorare qualsiasi relazione c’è bisogno che ci si domandi quali siano i punti di vista dell’una e dell’altra parte.

A mio avviso, in una RSA tutto dovrebbe ruotare intorno al residente e sarebbe basilare chiedersi: quanto davvero si investe nel comprendere appieno le necessità di chi viene messo in un luogo come questo?»

La domanda mi lascia con la penna alzata a mezz’aria e uno sguardo di smarrimento che difficilmente sfuggirà a un antropologo del suo spessore.

Entrare in RSA: la solastalgia

«Ritengo che per capire nel profondo queste persone e lo stress postraumatico prodotto dal loro mondo perduto, sia importante conoscere la parola solastalgia.

L’ha coniata nel 2005 un filosofo australiano, Glenn Albrecht.

Come sempre, le lingue antiche ci vengono in soccorso: unite il latino solacium (conforto) alla radice greca algia (dolore).

Si tratta di un malessere portato dalla mancanza di un conforto prospettico che prima avevamo e all’improvviso ci viene tolto. Si manifesta quando il proprio ambiente viene alterato da mutamenti veloci che non possiamo né controllare né contrastare.

Albrecht lo ha riscontrato negli abitanti della Upper Hunter Valley quando, dopo un’assenza di qualche anno, aprendo le finestre di casa non si sono più trovati davanti le montagne. Portate via, pezzo dopo pezzo, per l’estrazione del carbone.

Ecco, a chi entra in una RSA succede più o meno questo: di colpo gli cambia tutto il panorama. E non è cosa da poco.

Lo sconvolgimento va valutato alla svelta, così da poter accompagnare il residente nel suo nuovo affaccio.»

Un’opera di rammendo

Una riflessione nel profondo che non può che spingermi a fargli una domanda: ma come si può attenuare uno shock di questa portata?

«Ritengo che ci sia bisogno di un luogo di decompressione, come per i subacquei.

Mi spiego meglio.

Una persona non può, da casa sua, entrare direttamente qui dentro come se nulla fosse. È uno smottamento emotivo che disorienta, impaurisce.

Secondo me ci sarebbe bisogno di creare fisicamente un vero e proprio ambiente che funga da intermediario tra la vita del passato (ieri mattina, peraltro) e quella del futuro prossimo.

In quello spazio sospeso nel presente, sarebbe necessario collocare una figura professionale di alto livello, che si intenda di socialità, ma anche di neuroscienze e di tutto ciò che ruota intorno alla psiche.

In questa ipotetica costola della RSA bisognerebbe fare una vera e propria opera di “rammendo”.

So che è un verbo duro da decifrare in un’epoca in cui tutto si butta. Ma per accogliere persone avanti con gli anni, dobbiamo ritornare alle vecchie e sane abitudini di aggiustare ciò che, un po’ o molto, si è lacerato.

Ricordiamoci che non arrivano “tabulae rasae.

Approdano uomini e donne con un loro passato, esperienze varie, una storia pregressa, fattori che non vanno cestinati, ma rielaborati attraverso un’accurata opera di ripristino. Filo dopo filo, si prova ad entrare in sintonia con adulti fragili a cui si deve dare la possibilità di gustarsi ancora frammenti di quotidiano.

Questo può accadere se li si comprende a fondo e se una figura designata li accoglie con i guanti di velluto come fossero reduci da un terremoto emotivo (quello fisico qui non si curerebbe). Solo così potrà aiutarli a riprendere in mano, in forma diversa, la loro esistenza

Paura di un mondo sconosciuto

Ammetto che i suggerimenti di Salza sono di una validità disarmante. L’attenzione alla persona diventa il focus di tutto il discorso. Il finale invita nuovamente a riflettere.

«Voglio terminare dicendo una cosa che potrà suonare strampalata, ma ha un suo perché.

Per fare l’antropologo ho imparato a usare i burattini così da entrare in contatto più profondo con l’altro. Lo facevo soprattutto coi bambini, un mondo ancora poco condizionato dall’esterno.

Cosa c’entra con questo discorso? Semplice, quando si ha a che fare con gli altri, non c’è niente di meglio di un gioco a tre in cui si innesti un punto di vista neutro, una sorta di negoziatore per intenderci, capace di mediare tra le parti nella ricerca di un equilibrio nuovo.

Apro una parentesi: non credo nell’empatia. Sono convinto che sia impossibile e presuntuoso fare nostro il dolore altrui.

Ma sono anche dell’idea che chi gravita intorno alle persone che devono entrare in RSA, debba essere pro-empatico: ossia spendere le sue capacità, le sue competenze e la sua sensibilità per migliorare la qualità della vita di chi si trova improvvisamente catapultato in un mondo sconosciuto.

Chiunque ne avrebbe paura. Io ne ho.»

About the Author: Barbara Di Clemente

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Scrittrice, narratrice sociale e promotrice culturale della Residenza Richelmy.

Grazie di cuore

 

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rivista CURA settembre23

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Quali sentimenti vi sono nella persona che deve lasciare la propria casa per entrare in RSA? Come possiamo accoglierli e averne cura? L’antropologia può venirci in auto per un’analisi profonda. Ce ne parla Barbara Di Clemente, scrittrice e promotrice culturale della Residenza Richelmy di Torino, in quest’intervista al noto antropologo Alberto Salza.

L’incontro con Alberto Salza

Da cosa nasce cosa, un proverbio che, in questo caso, sembra davvero calzante.

Infatti, scrivendo l’articolo in cui davamo voce ai familiari della nostra struttura, esce fuori che l’amico che ha dato alcuni suggerimenti a una parente per migliorare il rapporto tra famiglie e RSA, è un noto scrittore, antropologo e ricercatore italiano.

Potevamo farcelo scappare?

Si tratta di Alberto Salza: da oltre cinquant’anni studia l’Africa, la sua ecologia e le sue popolazioni, con spedizioni attraverso tutto il continente e missioni sul campo in altre aree del mondo.

Alberto Salza

Non nascondo la mia emozione nell’incontrarlo. Per fortuna è una persona alla mano, dai modi spicci e le idee chiare.

Considerare tutti i punti di vista

«In Africa ho partecipato a diverse battute di caccia con i Boscimani del Kalahari, tra cui sono vissuto per mesi.

La prima volta mi fu insegnato che non era importante solo come io vedevo l’animale ucciso, ma anche come l’animale da uccidere vedeva me.

Una riflessione profonda che ha ribaltato per sempre la mia prospettiva.

Insomma, per migliorare qualsiasi relazione c’è bisogno che ci si domandi quali siano i punti di vista dell’una e dell’altra parte.

A mio avviso, in una RSA tutto dovrebbe ruotare intorno al residente e sarebbe basilare chiedersi: quanto davvero si investe nel comprendere appieno le necessità di chi viene messo in un luogo come questo?»

La domanda mi lascia con la penna alzata a mezz’aria e uno sguardo di smarrimento che difficilmente sfuggirà a un antropologo del suo spessore.

Entrare in RSA: la solastalgia

«Ritengo che per capire nel profondo queste persone e lo stress postraumatico prodotto dal loro mondo perduto, sia importante conoscere la parola solastalgia.

L’ha coniata nel 2005 un filosofo australiano, Glenn Albrecht.

Come sempre, le lingue antiche ci vengono in soccorso: unite il latino solacium (conforto) alla radice greca algia (dolore).

Si tratta di un malessere portato dalla mancanza di un conforto prospettico che prima avevamo e all’improvviso ci viene tolto. Si manifesta quando il proprio ambiente viene alterato da mutamenti veloci che non possiamo né controllare né contrastare.

Albrecht lo ha riscontrato negli abitanti della Upper Hunter Valley quando, dopo un’assenza di qualche anno, aprendo le finestre di casa non si sono più trovati davanti le montagne. Portate via, pezzo dopo pezzo, per l’estrazione del carbone.

Ecco, a chi entra in una RSA succede più o meno questo: di colpo gli cambia tutto il panorama. E non è cosa da poco.

Lo sconvolgimento va valutato alla svelta, così da poter accompagnare il residente nel suo nuovo affaccio.»

Un’opera di rammendo

Una riflessione nel profondo che non può che spingermi a fargli una domanda: ma come si può attenuare uno shock di questa portata?

«Ritengo che ci sia bisogno di un luogo di decompressione, come per i subacquei.

Mi spiego meglio.

Una persona non può, da casa sua, entrare direttamente qui dentro come se nulla fosse. È uno smottamento emotivo che disorienta, impaurisce.

Secondo me ci sarebbe bisogno di creare fisicamente un vero e proprio ambiente che funga da intermediario tra la vita del passato (ieri mattina, peraltro) e quella del futuro prossimo.

In quello spazio sospeso nel presente, sarebbe necessario collocare una figura professionale di alto livello, che si intenda di socialità, ma anche di neuroscienze e di tutto ciò che ruota intorno alla psiche.

In questa ipotetica costola della RSA bisognerebbe fare una vera e propria opera di “rammendo”.

So che è un verbo duro da decifrare in un’epoca in cui tutto si butta. Ma per accogliere persone avanti con gli anni, dobbiamo ritornare alle vecchie e sane abitudini di aggiustare ciò che, un po’ o molto, si è lacerato.

Ricordiamoci che non arrivano “tabulae rasae.

Approdano uomini e donne con un loro passato, esperienze varie, una storia pregressa, fattori che non vanno cestinati, ma rielaborati attraverso un’accurata opera di ripristino. Filo dopo filo, si prova ad entrare in sintonia con adulti fragili a cui si deve dare la possibilità di gustarsi ancora frammenti di quotidiano.

Questo può accadere se li si comprende a fondo e se una figura designata li accoglie con i guanti di velluto come fossero reduci da un terremoto emotivo (quello fisico qui non si curerebbe). Solo così potrà aiutarli a riprendere in mano, in forma diversa, la loro esistenza

Paura di un mondo sconosciuto

Ammetto che i suggerimenti di Salza sono di una validità disarmante. L’attenzione alla persona diventa il focus di tutto il discorso. Il finale invita nuovamente a riflettere.

«Voglio terminare dicendo una cosa che potrà suonare strampalata, ma ha un suo perché.

Per fare l’antropologo ho imparato a usare i burattini così da entrare in contatto più profondo con l’altro. Lo facevo soprattutto coi bambini, un mondo ancora poco condizionato dall’esterno.

Cosa c’entra con questo discorso? Semplice, quando si ha a che fare con gli altri, non c’è niente di meglio di un gioco a tre in cui si innesti un punto di vista neutro, una sorta di negoziatore per intenderci, capace di mediare tra le parti nella ricerca di un equilibrio nuovo.

Apro una parentesi: non credo nell’empatia. Sono convinto che sia impossibile e presuntuoso fare nostro il dolore altrui.

Ma sono anche dell’idea che chi gravita intorno alle persone che devono entrare in RSA, debba essere pro-empatico: ossia spendere le sue capacità, le sue competenze e la sua sensibilità per migliorare la qualità della vita di chi si trova improvvisamente catapultato in un mondo sconosciuto.

Chiunque ne avrebbe paura. Io ne ho.»

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Scrittrice, narratrice sociale e promotrice culturale della Residenza Richelmy.

Grazie di cuore

 

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