La narratrice di Cura Barbara Picchio ci racconta la storia di Giulia, giovane caregiver di un papà affetto da demenza, trasportandoci con delicatezza in un percorso fatto di molti sentimenti e scelte difficili. Un racconto che si spera possa aiutare altri giovani caregiver a sentirsi meno soli.
Giovane caregiver: una sfida emotiva e pratica
Il prendersi cura di una persona cara affetta da demenza rappresenta una sfida emotiva e pratica che può trasformare profondamente la vita quotidiana di chi se ne occupa.
Quando questo ruolo ricade su spalle giovani, come nel caso di Giulia, l’impatto può essere ancora più significativo, modificando aspettative, progetti e relazioni.
Attraverso la sua storia, possiamo esplorare le molteplici dimensioni dell’esperienza di una giovane caregiver.
I primi segnali e il senso di solitudine
Il percorso di Giulia inizia con la percezione sottile ma persistente di cambiamenti nel comportamento del padre: una persona un tempo brillante, socievole e dinamica.
Dove prima esisteva uno scambio quotidiano di messaggi e frequenti momenti di condivisione, iniziano ad apparire comportamenti scostanti, lunghi silenzi, frequenti scontri su questioni apparentemente banali.
Questi primi segnali (le dimenticanze, i momenti di smarrimento e confusione, gli stati paranoici, una gestione poco oculata del denaro) generano in Giulia ansia e preoccupazione.
Particolarmente doloroso è il senso di isolamento che prova quando, condividendo i suoi timori con altre persone, viene ripetutamente rassicurata al punto da sentirsi “una pazza, una persona che si fa dei film nella testa”.
La solitudine nell’osservazione dei cambiamenti rappresenta spesso una delle prime prove che i caregiver si trovano ad affrontare: notare trasformazioni che altri non vedono – o che minimizzano – può portare a dubitare delle proprie percezioni, aggiungendo un ulteriore strato di difficoltà emotiva a una situazione già complessa.
Il percorso verso la diagnosi
La situazione peggiora quando il padre di Giulia inizia a “perdere la macchina” (scambiando la dimenticanza dell’area di parcheggio per un furto) e a diventare sempre più taciturno.
Questi episodi convincono definitivamente Giulia che le sue non sono semplici sensazioni ma questioni da approfondire con urgenza, specialmente quando arrivano le minacce di suicidio da parte del padre.
Il cammino verso una diagnosi si rivela tortuoso. Servono mesi prima che il padre accetti di sottoporsi a delle visite.
Si parla di un percorso che inizia con una TAC e prosegue con visite neurologiche durante le quali il papà di Giulia mantiene un’apparenza di normalità, presentandosi sempre elegantemente vestito e sostenendo di essere lì esclusivamente per placare le preoccupazioni della figlia. Solo con l’esecuzione di una PET emerge finalmente la verità: una diagnosi di demenza frontotemporale.
Questo momento rappresenta un paradosso emotivo comune tra i familiari: da un lato il sollievo di avere finalmente una spiegazione, dall’altro la paura per il futuro che si prospetta.
La diagnosi segna anche l’inizio di un nuovo capitolo nella vita di Giulia, quando la compagna del padre decide di lasciarlo e lei si ritrova ad essere l’unica persona che può prendersi cura di lui.
La riorganizzazione della vita quotidiana
Giulia, con il sostegno della sua compagna Valentina, matura la decisione di vivere tutti e tre insieme, mettendo temporaneamente in pausa la propria vita lavorativa e relazionale per occuparsi di suo padre.
La quotidianità diventa complessa: Giulia deve insistere affinché il padre si occupi della propria igiene personale, deve monitorarlo costantemente per evitare che si allontani senza meta e deve prestare attenzione alla gestione del denaro.
In questa fase, Valentina diventa per Giulia un supporto fondamentale: accoglie i momenti di sfogo, rabbia e frustrazione della compagna e cerca di garantirle “spazi e momenti di respiro“.
A queste difficoltà emotive e pratiche si aggiungono problemi economici, quando Giulia scopre che il padre ha contratto numerosi debiti che, inevitabilmente, lei si ritrova a dover gestire.
La ricerca di supporto esterno
Quando la situazione domestica diventa ingestibile, grazie al suggerimento di un’amica (terapista occupazionale in un nucleo Alzheimer di una RSA), Giulia riesce a far accogliere il padre presso la FERB di Cassano d’Adda (MI).
Per due mesi, il papà vive in questo ambiente protetto che offre sostegno non solo alla persona con demenza, ma anche ai familiari.
La malattia del padre contribuisce a un importante avvicinamento con la sorella di Giulia che, pur vivendo in un’altra regione, l’aiuta nelle numerose pratiche burocratiche che spesso rappresentano un peso aggiuntivo per i caregiver.
Tuttavia, poiché la permanenza nella struttura è temporanea, diventa necessario trovare una soluzione a lungo termine.
Qui emerge un’ulteriore difficoltà: essendo il padre di Giulia più giovane di 65 anni, molte strutture non sono disposte ad accoglierlo.
Con grande fatica, al termine del periodo in FERB, Giulia accompagna il padre in una struttura distante oltre due ore da casa.
Il peso emotivo e i sensi di colpa
Una delle esperienze più dolorose per Giulia è quando, nella nuova struttura, le viene comunicato che per due settimane non le sarà permesso vedere e sentire il padre perché “la sua presenza non permetterebbe un corretto inserimento“.
Questa separazione forzata, dopo essere stata abituata a vederlo quotidianamente, genera in lei un profondo senso di colpa.
I sensi di colpa sono molto comuni tra i caregiver, un peso emotivo che richiede tempo per essere elaborato.Io stessa li ho vissuti in prima persona e solo dopo anni ho maturato la convinzione che non esiste un modo “giusto” o “sbagliato” di prendersi cura: ciascuno fa del proprio meglio con gli strumenti, le informazioni e i mezzi che ha a disposizione.
La sospensione del giudizio e il supporto da parte dei familiari, dei professionisti della cura e della comunità sono fondamentali per evitare inutili colpevolizzazioni.
Una nuova prospettiva: Il Paese Ritrovato
Quando la situazione sembra diventare insostenibile, arriva finalmente la chiamata da “Il Paese Ritrovato” di Monza, dove mesi prima Giulia aveva presentato la domanda per l’accoglienza del padre.
Questa realtà rappresenta una svolta positiva in quanto è un ambiente che considera la persona nella sua interezza, coinvolge i familiari nel percorso di cura e permette a Giulia di vedere il padre con regolarità, trascorrendo con lui un tempo di qualità.
Nonostante questo miglioramento, permane in Giulia la paura dell’evoluzione della malattia, in particolare il timore di non essere più riconosciuta dal padre e di perdere la possibilità di comunicare con lui.
Di fronte a questa preoccupazione, viene rassicurata sul fatto che, quando il linguaggio verbale si esaurisce, esistono altre forme di comunicazione: lo sguardo, i piccoli gesti e i sorrisi possono diventare strumenti di connessione estremamente potenti.
Sebbene non sia facile, entrare in sintonia con il linguaggio delle emozioni può rendere ogni incontro significativo e appagante.
Trasformazione personale e nuove consapevolezze
L’esperienza di Giulia come giovane caregiver ha profondamente trasformato il suo modo di vedere la vita, portandola a “tagliare molti rami secchi”, come del resto è successo a me dopo aver ricevuto la diagnosi di Alzheimer di mia madre quando avevo 27 anni.
Come altre persone che si trovano ad affrontare precocemente responsabilità di cura, entrambe ci siamo sentite “giovani vecchie“, poco interessate alle grandi compagnie e più orientate alla costruzione di relazioni autentiche e profonde.
Nonostante i momenti di solitudine (specialmente in contesti in cui gli altri caregiver sono più anziani), Giulia è riuscita a scoprire in sé risorse interiori che non sapeva di possedere.
Il suo percorso evidenzia l’importanza di reti di supporto adeguate, sia familiari che professionali, e la necessità di strutture che possano rispondere ai bisogni specifici di persone con demenza relativamente giovani.
La condivisione di queste esperienze è un contributo prezioso per altri giovani caregiver che possono riconoscersi nelle difficoltà vissute da Giulia e sentirsi meno soli.
Comprendere che le emozioni contrastanti, i dubbi e le paure fanno parte di un’esperienza comune può offrire prospettive nuove per affrontare un cammino così complesso e trasformativo.
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Giovane caregiver: una sfida emotiva e pratica
Il prendersi cura di una persona cara affetta da demenza rappresenta una sfida emotiva e pratica che può trasformare profondamente la vita quotidiana di chi se ne occupa.
Quando questo ruolo ricade su spalle giovani, come nel caso di Giulia, l’impatto può essere ancora più significativo, modificando aspettative, progetti e relazioni.
Attraverso la sua storia, possiamo esplorare le molteplici dimensioni dell’esperienza di una giovane caregiver.
I primi segnali e il senso di solitudine
Il percorso di Giulia inizia con la percezione sottile ma persistente di cambiamenti nel comportamento del padre: una persona un tempo brillante, socievole e dinamica.
Dove prima esisteva uno scambio quotidiano di messaggi e frequenti momenti di condivisione, iniziano ad apparire comportamenti scostanti, lunghi silenzi, frequenti scontri su questioni apparentemente banali.
Questi primi segnali (le dimenticanze, i momenti di smarrimento e confusione, gli stati paranoici, una gestione poco oculata del denaro) generano in Giulia ansia e preoccupazione.
Particolarmente doloroso è il senso di isolamento che prova quando, condividendo i suoi timori con altre persone, viene ripetutamente rassicurata al punto da sentirsi “una pazza, una persona che si fa dei film nella testa”.
La solitudine nell’osservazione dei cambiamenti rappresenta spesso una delle prime prove che i caregiver si trovano ad affrontare: notare trasformazioni che altri non vedono – o che minimizzano – può portare a dubitare delle proprie percezioni, aggiungendo un ulteriore strato di difficoltà emotiva a una situazione già complessa.
Il percorso verso la diagnosi
La situazione peggiora quando il padre di Giulia inizia a “perdere la macchina” (scambiando la dimenticanza dell’area di parcheggio per un furto) e a diventare sempre più taciturno.
Questi episodi convincono definitivamente Giulia che le sue non sono semplici sensazioni ma questioni da approfondire con urgenza, specialmente quando arrivano le minacce di suicidio da parte del padre.
Il cammino verso una diagnosi si rivela tortuoso. Servono mesi prima che il padre accetti di sottoporsi a delle visite.
Si parla di un percorso che inizia con una TAC e prosegue con visite neurologiche durante le quali il papà di Giulia mantiene un’apparenza di normalità, presentandosi sempre elegantemente vestito e sostenendo di essere lì esclusivamente per placare le preoccupazioni della figlia. Solo con l’esecuzione di una PET emerge finalmente la verità: una diagnosi di demenza frontotemporale.
Questo momento rappresenta un paradosso emotivo comune tra i familiari: da un lato il sollievo di avere finalmente una spiegazione, dall’altro la paura per il futuro che si prospetta.
La diagnosi segna anche l’inizio di un nuovo capitolo nella vita di Giulia, quando la compagna del padre decide di lasciarlo e lei si ritrova ad essere l’unica persona che può prendersi cura di lui.
La riorganizzazione della vita quotidiana
Giulia, con il sostegno della sua compagna Valentina, matura la decisione di vivere tutti e tre insieme, mettendo temporaneamente in pausa la propria vita lavorativa e relazionale per occuparsi di suo padre.
La quotidianità diventa complessa: Giulia deve insistere affinché il padre si occupi della propria igiene personale, deve monitorarlo costantemente per evitare che si allontani senza meta e deve prestare attenzione alla gestione del denaro.
In questa fase, Valentina diventa per Giulia un supporto fondamentale: accoglie i momenti di sfogo, rabbia e frustrazione della compagna e cerca di garantirle “spazi e momenti di respiro“.
A queste difficoltà emotive e pratiche si aggiungono problemi economici, quando Giulia scopre che il padre ha contratto numerosi debiti che, inevitabilmente, lei si ritrova a dover gestire.
La ricerca di supporto esterno
Quando la situazione domestica diventa ingestibile, grazie al suggerimento di un’amica (terapista occupazionale in un nucleo Alzheimer di una RSA), Giulia riesce a far accogliere il padre presso la FERB di Cassano d’Adda (MI).
Per due mesi, il papà vive in questo ambiente protetto che offre sostegno non solo alla persona con demenza, ma anche ai familiari.
La malattia del padre contribuisce a un importante avvicinamento con la sorella di Giulia che, pur vivendo in un’altra regione, l’aiuta nelle numerose pratiche burocratiche che spesso rappresentano un peso aggiuntivo per i caregiver.
Tuttavia, poiché la permanenza nella struttura è temporanea, diventa necessario trovare una soluzione a lungo termine.
Qui emerge un’ulteriore difficoltà: essendo il padre di Giulia più giovane di 65 anni, molte strutture non sono disposte ad accoglierlo.
Con grande fatica, al termine del periodo in FERB, Giulia accompagna il padre in una struttura distante oltre due ore da casa.
Il peso emotivo e i sensi di colpa
Una delle esperienze più dolorose per Giulia è quando, nella nuova struttura, le viene comunicato che per due settimane non le sarà permesso vedere e sentire il padre perché “la sua presenza non permetterebbe un corretto inserimento“.
Questa separazione forzata, dopo essere stata abituata a vederlo quotidianamente, genera in lei un profondo senso di colpa.
I sensi di colpa sono molto comuni tra i caregiver, un peso emotivo che richiede tempo per essere elaborato.Io stessa li ho vissuti in prima persona e solo dopo anni ho maturato la convinzione che non esiste un modo “giusto” o “sbagliato” di prendersi cura: ciascuno fa del proprio meglio con gli strumenti, le informazioni e i mezzi che ha a disposizione.
La sospensione del giudizio e il supporto da parte dei familiari, dei professionisti della cura e della comunità sono fondamentali per evitare inutili colpevolizzazioni.
Una nuova prospettiva: Il Paese Ritrovato
Quando la situazione sembra diventare insostenibile, arriva finalmente la chiamata da “Il Paese Ritrovato” di Monza, dove mesi prima Giulia aveva presentato la domanda per l’accoglienza del padre.
Questa realtà rappresenta una svolta positiva in quanto è un ambiente che considera la persona nella sua interezza, coinvolge i familiari nel percorso di cura e permette a Giulia di vedere il padre con regolarità, trascorrendo con lui un tempo di qualità.
Nonostante questo miglioramento, permane in Giulia la paura dell’evoluzione della malattia, in particolare il timore di non essere più riconosciuta dal padre e di perdere la possibilità di comunicare con lui.
Di fronte a questa preoccupazione, viene rassicurata sul fatto che, quando il linguaggio verbale si esaurisce, esistono altre forme di comunicazione: lo sguardo, i piccoli gesti e i sorrisi possono diventare strumenti di connessione estremamente potenti.
Sebbene non sia facile, entrare in sintonia con il linguaggio delle emozioni può rendere ogni incontro significativo e appagante.
Trasformazione personale e nuove consapevolezze
L’esperienza di Giulia come giovane caregiver ha profondamente trasformato il suo modo di vedere la vita, portandola a “tagliare molti rami secchi”, come del resto è successo a me dopo aver ricevuto la diagnosi di Alzheimer di mia madre quando avevo 27 anni.
Come altre persone che si trovano ad affrontare precocemente responsabilità di cura, entrambe ci siamo sentite “giovani vecchie“, poco interessate alle grandi compagnie e più orientate alla costruzione di relazioni autentiche e profonde.
Nonostante i momenti di solitudine (specialmente in contesti in cui gli altri caregiver sono più anziani), Giulia è riuscita a scoprire in sé risorse interiori che non sapeva di possedere.
Il suo percorso evidenzia l’importanza di reti di supporto adeguate, sia familiari che professionali, e la necessità di strutture che possano rispondere ai bisogni specifici di persone con demenza relativamente giovani.
La condivisione di queste esperienze è un contributo prezioso per altri giovani caregiver che possono riconoscersi nelle difficoltà vissute da Giulia e sentirsi meno soli.
Comprendere che le emozioni contrastanti, i dubbi e le paure fanno parte di un’esperienza comune può offrire prospettive nuove per affrontare un cammino così complesso e trasformativo.
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