Tante persone si chiedono se gli anziani sentono la morte. Elisa Mencacci, psicologa e tanatologa, prova a rispondere a questa domanda aiutandoci ad andare ancor più in profondità, là dove risiede il bisogno della persona di potersi esprimere e di sentirsi accolta con autenticità.
Gli anziani sentono la morte?
«Dottoressa, secondo lei mia madre sa che sta morendo?»
È una delle domande che mi sento rivolgere più spesso nel mio lavoro di psicologa tanatologa.
Dietro queste parole si nasconde spesso un mix di angoscia, senso di colpa e il desiderio profondo di proteggere la persona cara, ma anche di comprenderla fino in fondo.
La risposta non è semplice né univoca, ma possiamo dire che sì: nella maggior parte dei casi, gli anziani percepiscono l’avvicinarsi della morte.
Sì, dunque, nella maggioranza dei casi gli anziani sentono la morte.
Non sempre lo fanno in modo consapevole e razionale, ma attraverso segnali sottili che il corpo e la mente inviano loro.
È un processo naturale, antico quanto l’umanità stessa.
Quello che spesso sorprende i familiari è scoprire come questa consapevolezza non sia necessariamente fonte di terrore.
Al contrario, molte persone anziane sviluppano una forma di accettazione serena, una saggezza istintiva che li aiuta ad affrontare questo passaggio.
Il vero dolore nasce spesso dal non poterne parlare, dal sentire che chi li circonda evita l’argomento per proteggerli.
In questo articolo esploreremo insieme i modi – spesso indiretti – con cui i nostri cari ci comunicano le loro percezioni e scopriremo come accompagnarli con presenza e autenticità in questo delicato momento della vita.
È un processo complesso quanto naturale, che non ha mai una risposta o un’azione giusta o sbagliata a priori.
Non esistono soluzioni preconfezionate, ma persone con storie e vite differenti, uniche.
Decifrare i messaggi nel passaggio finale
L’esperienza clinica ci insegna che questa consapevolezza si manifesta soprattutto attraverso un linguaggio simbolico, denso di significati che richiedono un orecchio allenato per essere compresi.
«Voglio andare a casa» / «È ora di partire» / «Devo preparare i bagagli».
Frasi come queste sono spesso interpretate dai familiari come confusione o disorientamento, ma in realtà si tratta di messaggi precisi.
La “Casa” di cui parlano non è necessariamente quella fisica: è spesso un luogo dell’anima, un ritorno alle origini che precede il distacco.
Quando una persona anziana in fase di vita avanzata dice «devo andare dalla mamma», anche se sua madre è morta da decenni, non sta delirando: sta comunicando una preparazione interiore al ricongiungimento.
Non è un caso che le persone da raggiungere siano coloro che sono state, nella nostra esistenza, i riferimenti affettivi, quella sicurezza, quel senso di pace.
Prima di andarsene, come tanti anziani mi hanno confidato nei loro ultimi giorni, prima di separarsi dalla vita, c’è bisogno di sapere che si è protetti: non posso lasciarmi andare, se non sento che ho una mano solida che mi tiene.
Visioni sul letto di morte e sogni ricorrenti
Le ricerche sulle “deathbed visions” (tr. visioni sul letto di morte) – End-of-Life Dreams and Visions (ELDVs) – documentano un fenomeno universale che si verifica in circa il 50-60% delle persone in fase finale quando sono coscienti (Kerr et al., 2014).
Una caratteristica peculiare di questi fenomeni è che alla persona morente appaiono i propri cari già morti e mai chi è ancora in vita.
L’88,1% dei pazienti studiati ha riportato almeno un sogno o visione di un parente o amico defunto, e quasi tutti hanno riferito che questi sogni o visioni sembravano reali e fornivano rassicurazione o guida.
Studi recenti suggeriscono che queste visioni non sono allucinazioni patologiche, ma potrebbero rappresentare un meccanismo neurobiologico che facilita il processo del morire, creando un ponte simbolico verso l’ignoto.
Non dobbiamo quindi spaventarci, ma accogliere e permettere al nostro caro di vivere questa esperienza senza paura.
Altrettanto significativi sono i sogni ricorrenti: possono iniziare giorni, anche settimane prima della morte.
Più significativo ancora è che, quando le persone si avvicinano alla fine della loro vita, la frequenza delle visioni aumenta, concentrandosi ulteriormente su persone o animali domestici deceduti.
Lo studio pionieristico di Osis e Haraldsson (1977), condotto tra il 1959 e il 1973, ha documentato che il 50% delle decine di migliaia di persone studiate negli Stati Uniti e in India aveva sperimentato visioni sul letto di morte.
Comunicare al di là delle parole
L’importanza di ascoltare oltre le parole diventa cruciale.
Le ricerche sulla comunicazione nelle cure palliative evidenziano come le persone che ricevono cure palliative e di fine vita possano avere bisogni comunicativi complessi.
I disturbi della comunicazione sono una sfida che molti pazienti in cure palliative possono incontrare, ma spesso è nel silenzio che si nascondono i messaggi più profondi: lo sguardo che indugia un momento in più, la mano che trattiene quella del figlio, il sorriso che appare quando si nomina una persona cara scomparsa.
Recenti studi sulla comunicazione terapeutica nel fine vita sottolineano come le informazioni oneste e aperte tra anziani e familiari contribuiscano alla comunicazione efficace.
Le persone spesso si sentono a disagio quando si trovano di fronte all’opportunità di comunicare alla fine della vita, ma non si tratta di interpretare ogni parola come profetica, bensì di sviluppare una sensibilità che ci permetta di cogliere quando dietro una frase apparentemente banale si nasconde un bisogno di condivisione profonda.
Per questo diventa utile imparare ad andare oltre alle parole, al linguaggio ordinario: il percorso del fine vita appare come un tempo straordinario, dove incontrare l’altro nella maniera più autentica e profonda possibile, senza filtri, spesso attraverso canali inconsueti.
L’anziano morente può sentire ancora più forte il bisogno di esprimere emozioni e pensieri, accorgendosi dei piccoli o grandi cambiamenti del corpo e della mente: come curanti possiamo aiutarli a riconoscere questi passaggi, rassicurando sulla loro normalità in questa fase speciale di vita.
Il linguaggio del morire è antico e universale, fatto di metafore che attraversano culture e generazioni.
Riconoscerlo significa offrire alla persona cara la possibilità di essere compresa nella sua interezza, anche quando le parole sembrano non avere più senso logico ma conservano tutta la loro potenza emotiva.
Infine, occorre stare assieme all’anziano morente in quel terreno di confine, uno spazio di passaggio tra il qui e l’altrove, in cui non sempre la razionalità o le spiegazioni mediche offrono comprensione totale: è un allenarsi, insieme, ad alloggiare nel Mistero.
Cosa devo dire al mio caro?
Quando mi chiedono «Dottoressa, cosa devo dire a mio padre?», la mia prima risposta è sempre: «Dipende da lui, da voi, da quello che sentite».
Non esistono frasi magiche o protocolli universali per affrontare il tema della morte con una persona cara.
Ogni storia è unica, ogni famiglia ha i suoi codici comunicativi, ogni anziano porta con sé una vita intera di esperienze che hanno formato il suo modo di guardare alla fine.
Il momento giusto per affrontare il discorso spesso si presenta da solo.
È raramente una conversazione programmata a tavolino, quanto piuttosto un’occasione che nasce spontaneamente: una frase detta dal vostro caro, una domanda sussurrata, uno sguardo che indugia più del solito.
Rina, figlia di un anziano con tumore in fase avanzata, mi raccontava:
«Papà ha iniziato a parlare del giardino che non avrebbe più potato in primavera. Era la sua apertura, il suo modo di dirmi che sapeva».
A volte sono proprio loro a guidarci verso questi territori delicati, usando il loro linguaggio simbolico di cui abbiamo parlato.
Quando decidi di accogliere o di aprire questo dialogo, ricorda che non devi avere tutte le risposte.
«Non lo so, papà» è una risposta perfettamente legittima.
«Ho paura anch’io, sono insieme a te a vivere tutto questo» è un’ammissione di umanità che spesso avvicina più di qualsiasi tentativo di rassicurazione forzata.
La persona anziana che sente l’avvicinarsi della morte ha bisogno di autenticità, non di performance ottimistiche che suonano false alle sue orecchie sempre più sensibili.
Il potere della presenza
La presenza fisica diventa un linguaggio a sé.
Stare seduti accanto al letto, tenere una mano, accarezzare una fronte: questi gesti comunicano più di mille parole.
Giovanni, che ha accompagnato la moglie negli ultimi mesi, mi diceva:
«Ho smesso di preoccuparmi di cosa dire. Stavo semplicemente lì, e lei lo sapeva».
Il silenzio condiviso può essere più eloquente di qualsiasi conversazione, soprattutto quando i giorni si fanno più difficili e le parole iniziano a mancare.
È naturale sentirsi fragili
Gestire le proprie emozioni mentre si accompagna qualcuno verso la morte è forse la sfida più complessa.
È naturale sentirsi sopraffatti dalla tristezza, dalla rabbia, dalla paura.
È normale avere giornate in cui sentite di non farcela, momenti in cui vorreste fuggire da quella realtà troppo pesante.
Anna, che ha assistito la madre per mesi, mi confessava:
«Alcune mattine mi svegliavo e pensavo ‘oggi non ce la faccio‘.
Poi la vedevo e capivo che dovevo esserci».
Concediti questi momenti di fragilità: sono umani e comprensibili.
L’importante è non lasciare che diventino pervasivi.
Creare piccoli rituali può aiutare sia te che la persona a te cara.
Leggere insieme, guardare vecchie foto, ascoltare la sua musica preferita: queste attività creano ponti di intimità che trascendono la malattia.
È una modalità efficace di stare con l’altro, assieme e nel morire, senza la necessità di entrare a capofitto nella razionalità di discorsi o ragionamenti specifici.
Luigi ogni sera leggeva a sua madre i necrologi del giornale locale, perché lei voleva sapere “chi era partito prima di lei“.
Quello che a molti potrebbe sembrare morboso era in realtà il loro modo di parlare della morte normalizzandola, rendendola parte della conversazione quotidiana.
Non dobbiamo aver paura di chiedere aiuto professionale.
Non è un fallimento, è una risorsa.
Partendo dal porre anche queste apparentemente semplici domande (“il papà sente che sta morendo?”), possiamo aprire uno spazio di riflessione prezioso.
Quando ci si accorge che la situazione ci supera emotivamente, quando non riusciamo più a comunicare efficacemente, quando i conflitti familiari si moltiplicano sotto la pressione, dobbiamo ricordare che questi sono tutti segnali che indicano la necessità di un supporto esterno.
Psicologi, medici palliativisti, assistenti spirituali: ognuno può offrire prospettive e strumenti preziosi per navigare questo periodo così delicato.
Ricordiamoci sempre: non esiste un modo giusto di accompagnare qualcuno verso la morte. Esiste solo il nostro modo, quello che nasce dalla relazione unica che abbiamo costruito insieme nel corso degli anni.
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Tante persone si chiedono se gli anziani sentono la morte. Elisa Mencacci, psicologa e tanatologa, prova a rispondere a questa domanda aiutandoci ad andare ancor più in profondità, là dove risiede il bisogno della persona di potersi esprimere e di sentirsi accolta con autenticità.
Gli anziani sentono la morte?
«Dottoressa, secondo lei mia madre sa che sta morendo?»
È una delle domande che mi sento rivolgere più spesso nel mio lavoro di psicologa tanatologa.
Dietro queste parole si nasconde spesso un mix di angoscia, senso di colpa e il desiderio profondo di proteggere la persona cara, ma anche di comprenderla fino in fondo.
La risposta non è semplice né univoca, ma possiamo dire che sì: nella maggior parte dei casi, gli anziani percepiscono l’avvicinarsi della morte.
Sì, dunque, nella maggioranza dei casi gli anziani sentono la morte.
Non sempre lo fanno in modo consapevole e razionale, ma attraverso segnali sottili che il corpo e la mente inviano loro.
È un processo naturale, antico quanto l’umanità stessa.
Quello che spesso sorprende i familiari è scoprire come questa consapevolezza non sia necessariamente fonte di terrore.
Al contrario, molte persone anziane sviluppano una forma di accettazione serena, una saggezza istintiva che li aiuta ad affrontare questo passaggio.
Il vero dolore nasce spesso dal non poterne parlare, dal sentire che chi li circonda evita l’argomento per proteggerli.
In questo articolo esploreremo insieme i modi – spesso indiretti – con cui i nostri cari ci comunicano le loro percezioni e scopriremo come accompagnarli con presenza e autenticità in questo delicato momento della vita.
È un processo complesso quanto naturale, che non ha mai una risposta o un’azione giusta o sbagliata a priori.
Non esistono soluzioni preconfezionate, ma persone con storie e vite differenti, uniche.
Decifrare i messaggi nel passaggio finale
L’esperienza clinica ci insegna che questa consapevolezza si manifesta soprattutto attraverso un linguaggio simbolico, denso di significati che richiedono un orecchio allenato per essere compresi.
«Voglio andare a casa» / «È ora di partire» / «Devo preparare i bagagli».
Frasi come queste sono spesso interpretate dai familiari come confusione o disorientamento, ma in realtà si tratta di messaggi precisi.
La “Casa” di cui parlano non è necessariamente quella fisica: è spesso un luogo dell’anima, un ritorno alle origini che precede il distacco.
Quando una persona anziana in fase di vita avanzata dice «devo andare dalla mamma», anche se sua madre è morta da decenni, non sta delirando: sta comunicando una preparazione interiore al ricongiungimento.
Non è un caso che le persone da raggiungere siano coloro che sono state, nella nostra esistenza, i riferimenti affettivi, quella sicurezza, quel senso di pace.
Prima di andarsene, come tanti anziani mi hanno confidato nei loro ultimi giorni, prima di separarsi dalla vita, c’è bisogno di sapere che si è protetti: non posso lasciarmi andare, se non sento che ho una mano solida che mi tiene.
Visioni sul letto di morte e sogni ricorrenti
Le ricerche sulle “deathbed visions” (tr. visioni sul letto di morte) – End-of-Life Dreams and Visions (ELDVs) – documentano un fenomeno universale che si verifica in circa il 50-60% delle persone in fase finale quando sono coscienti (Kerr et al., 2014).
Una caratteristica peculiare di questi fenomeni è che alla persona morente appaiono i propri cari già morti e mai chi è ancora in vita.
L’88,1% dei pazienti studiati ha riportato almeno un sogno o visione di un parente o amico defunto, e quasi tutti hanno riferito che questi sogni o visioni sembravano reali e fornivano rassicurazione o guida.
Studi recenti suggeriscono che queste visioni non sono allucinazioni patologiche, ma potrebbero rappresentare un meccanismo neurobiologico che facilita il processo del morire, creando un ponte simbolico verso l’ignoto.
Non dobbiamo quindi spaventarci, ma accogliere e permettere al nostro caro di vivere questa esperienza senza paura.
Altrettanto significativi sono i sogni ricorrenti: possono iniziare giorni, anche settimane prima della morte.
Più significativo ancora è che, quando le persone si avvicinano alla fine della loro vita, la frequenza delle visioni aumenta, concentrandosi ulteriormente su persone o animali domestici deceduti.
Lo studio pionieristico di Osis e Haraldsson (1977), condotto tra il 1959 e il 1973, ha documentato che il 50% delle decine di migliaia di persone studiate negli Stati Uniti e in India aveva sperimentato visioni sul letto di morte.
Comunicare al di là delle parole
L’importanza di ascoltare oltre le parole diventa cruciale.
Le ricerche sulla comunicazione nelle cure palliative evidenziano come le persone che ricevono cure palliative e di fine vita possano avere bisogni comunicativi complessi.
I disturbi della comunicazione sono una sfida che molti pazienti in cure palliative possono incontrare, ma spesso è nel silenzio che si nascondono i messaggi più profondi: lo sguardo che indugia un momento in più, la mano che trattiene quella del figlio, il sorriso che appare quando si nomina una persona cara scomparsa.
Recenti studi sulla comunicazione terapeutica nel fine vita sottolineano come le informazioni oneste e aperte tra anziani e familiari contribuiscano alla comunicazione efficace.
Le persone spesso si sentono a disagio quando si trovano di fronte all’opportunità di comunicare alla fine della vita, ma non si tratta di interpretare ogni parola come profetica, bensì di sviluppare una sensibilità che ci permetta di cogliere quando dietro una frase apparentemente banale si nasconde un bisogno di condivisione profonda.
Per questo diventa utile imparare ad andare oltre alle parole, al linguaggio ordinario: il percorso del fine vita appare come un tempo straordinario, dove incontrare l’altro nella maniera più autentica e profonda possibile, senza filtri, spesso attraverso canali inconsueti.
L’anziano morente può sentire ancora più forte il bisogno di esprimere emozioni e pensieri, accorgendosi dei piccoli o grandi cambiamenti del corpo e della mente: come curanti possiamo aiutarli a riconoscere questi passaggi, rassicurando sulla loro normalità in questa fase speciale di vita.
Il linguaggio del morire è antico e universale, fatto di metafore che attraversano culture e generazioni.
Riconoscerlo significa offrire alla persona cara la possibilità di essere compresa nella sua interezza, anche quando le parole sembrano non avere più senso logico ma conservano tutta la loro potenza emotiva.
Infine, occorre stare assieme all’anziano morente in quel terreno di confine, uno spazio di passaggio tra il qui e l’altrove, in cui non sempre la razionalità o le spiegazioni mediche offrono comprensione totale: è un allenarsi, insieme, ad alloggiare nel Mistero.
Cosa devo dire al mio caro?
Quando mi chiedono «Dottoressa, cosa devo dire a mio padre?», la mia prima risposta è sempre: «Dipende da lui, da voi, da quello che sentite».
Non esistono frasi magiche o protocolli universali per affrontare il tema della morte con una persona cara.
Ogni storia è unica, ogni famiglia ha i suoi codici comunicativi, ogni anziano porta con sé una vita intera di esperienze che hanno formato il suo modo di guardare alla fine.
Il momento giusto per affrontare il discorso spesso si presenta da solo.
È raramente una conversazione programmata a tavolino, quanto piuttosto un’occasione che nasce spontaneamente: una frase detta dal vostro caro, una domanda sussurrata, uno sguardo che indugia più del solito.
Rina, figlia di un anziano con tumore in fase avanzata, mi raccontava:
«Papà ha iniziato a parlare del giardino che non avrebbe più potato in primavera. Era la sua apertura, il suo modo di dirmi che sapeva».
A volte sono proprio loro a guidarci verso questi territori delicati, usando il loro linguaggio simbolico di cui abbiamo parlato.
Quando decidi di accogliere o di aprire questo dialogo, ricorda che non devi avere tutte le risposte.
«Non lo so, papà» è una risposta perfettamente legittima.
«Ho paura anch’io, sono insieme a te a vivere tutto questo» è un’ammissione di umanità che spesso avvicina più di qualsiasi tentativo di rassicurazione forzata.
La persona anziana che sente l’avvicinarsi della morte ha bisogno di autenticità, non di performance ottimistiche che suonano false alle sue orecchie sempre più sensibili.
Il potere della presenza
La presenza fisica diventa un linguaggio a sé.
Stare seduti accanto al letto, tenere una mano, accarezzare una fronte: questi gesti comunicano più di mille parole.
Giovanni, che ha accompagnato la moglie negli ultimi mesi, mi diceva:
«Ho smesso di preoccuparmi di cosa dire. Stavo semplicemente lì, e lei lo sapeva».
Il silenzio condiviso può essere più eloquente di qualsiasi conversazione, soprattutto quando i giorni si fanno più difficili e le parole iniziano a mancare.
È naturale sentirsi fragili
Gestire le proprie emozioni mentre si accompagna qualcuno verso la morte è forse la sfida più complessa.
È naturale sentirsi sopraffatti dalla tristezza, dalla rabbia, dalla paura.
È normale avere giornate in cui sentite di non farcela, momenti in cui vorreste fuggire da quella realtà troppo pesante.
Anna, che ha assistito la madre per mesi, mi confessava:
«Alcune mattine mi svegliavo e pensavo ‘oggi non ce la faccio‘.
Poi la vedevo e capivo che dovevo esserci».
Concediti questi momenti di fragilità: sono umani e comprensibili.
L’importante è non lasciare che diventino pervasivi.
Creare piccoli rituali può aiutare sia te che la persona a te cara.
Leggere insieme, guardare vecchie foto, ascoltare la sua musica preferita: queste attività creano ponti di intimità che trascendono la malattia.
È una modalità efficace di stare con l’altro, assieme e nel morire, senza la necessità di entrare a capofitto nella razionalità di discorsi o ragionamenti specifici.
Luigi ogni sera leggeva a sua madre i necrologi del giornale locale, perché lei voleva sapere “chi era partito prima di lei“.
Quello che a molti potrebbe sembrare morboso era in realtà il loro modo di parlare della morte normalizzandola, rendendola parte della conversazione quotidiana.
Non dobbiamo aver paura di chiedere aiuto professionale.
Non è un fallimento, è una risorsa.
Partendo dal porre anche queste apparentemente semplici domande (“il papà sente che sta morendo?”), possiamo aprire uno spazio di riflessione prezioso.
Quando ci si accorge che la situazione ci supera emotivamente, quando non riusciamo più a comunicare efficacemente, quando i conflitti familiari si moltiplicano sotto la pressione, dobbiamo ricordare che questi sono tutti segnali che indicano la necessità di un supporto esterno.
Psicologi, medici palliativisti, assistenti spirituali: ognuno può offrire prospettive e strumenti preziosi per navigare questo periodo così delicato.
Ricordiamoci sempre: non esiste un modo giusto di accompagnare qualcuno verso la morte. Esiste solo il nostro modo, quello che nasce dalla relazione unica che abbiamo costruito insieme nel corso degli anni.

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