Comunicare e con-dividere la Cura

La comunicazione è presente in ogni momento e in ogni dettaglio dei nostri luoghi di cura. Se in RSA la comunicazione è presente e importante nelle operazioni routinarie (condivido informazioni, rendo partecipe di percorsi, aggiorno sui cambiamenti…), diventa vitale nel momento in cui lo staff di cura incontra il famigliare.

In quell’occasione l’équipe condivide (ovvero divide con”) la persona più prossima della persona anziana la percezione, la certezza, i successi e le constatazioni di chi è ora.

Se ci fermiamo un attimo, possiamo notare quanto può essere strano che proprio noi –  professionisti che non erano dentro alla vita di quella persona fino a poco tempo prima – ci ritroviamo a spiegare alla persona più vicina, ovvero più coinvolta a livello emotivo, chi è suo padre, marito o nonno.

E lo facciamo spesso dall’alto di valutazioni, osservazioni e un sapere che raramente abbraccia in toto la persona.

HOMES

Nei PAI non si parla di emozioni o di desideri, è vero. Ma questo non significa che non siamo tenuti a prenderli in considerazione e a rispettarli.

Allo scopo di accendere una riflessione, propongo due narrazioni di fantasia: nella prima si assiste a un incontro freddo tra curante e caregiver, dove il primo non tiene conto del ruolo e dei sentimenti della persona che ha di fronte. Nella seconda, invece, la caregiver e i sentimenti che porta con sé sono gli stessi, ma l’équipe riesce ad accoglierli, pur non potendo cancellare completamente le sue ansie e i suoi dubbi viscerali.

I professionisti riescono in questo caso a renderla partecipe, in un percorso in cui la con-divisione riguarda anche il peso che il famigliare porta con sé, nonostante le difficoltà e le criticità insite oggi nel lavoro in RSA, che non vengono negate.

Dire “la persona è al centro”

Lucia sale i pochi gradini con una certa ansia… è la prima volta che viene convocata.

Piante verdi rigogliose, ma finte, le danno il benvenuto nella hall della RSA. La prima volta che vi è entrata si aspettava odori sgradevoli e “grigiume”, e invece è rimasta colpita dalla pulizia.

Anche se i vistosi addobbi che richiamano inequivocabilmente una scuola primaria l’hanno lasciata interdetta. E la sensazione di essere nel posto sbagliato non è svanita quando le hanno comunicato, con una punta di orgoglio, che sono stati realizzati dagli anziani.

Per un secondo, il pensiero di suo padre a colorare fiori le genera un sorriso che deglutendo scende come un macigno, e lì si ferma.

Ora è seduta, in attesa che il medico la raggiunga.

Nonostante fosse attesa, i minuti passano e per lei è inconcepibile starsene lì, quando a pochi metri oltre la sua testa – nel piano di sopra – c’è suo padre.

Lui non l’aspetta, non lo fa più. Non ricorda gli appuntamenti e ha perso anche la cognizione del tempo. Sembra peggiorato.

Non riesce a tenere ferme le mani. Le dita si intrecciano per poi rincorrere un decoro nell’abbigliamento impeccabile. Ha controllato i bottoni per la terza volta. Stringe le braccia a sé, pochi secondi, poi torna al telefonino per controllare l’ora. “Se sì da un appuntamento, bisognerebbe rispettarlo”, pensa tra sé.

Un movimento veloce proclama l’arrivo del dottore che prontamente si scusa dell’attesa. Un imprevisto ha richiesto la sua presenza, dice con un’aria che le sembra tronfia.

Si morde il labbro. Vorrebbe chiedere se “l’imprevisto” ha coinvolto suo padre. Ma tace.

Segue calma il camice bianco mentre dentro di lei un mondo di domande e frustrazione vorrebbe esplodere.

Raggiungono l’ufficio e le viene offerta una sedia che ha visto tempi migliori. L’ambiente è talmente formale e spersonalizzato che persino la presenza di una piccola coccinella porterebbe un vistoso cambiamento. Faldoni, incartamenti, lampade fredde al neon, una tapparella con un cartello con la scritta “guasta” e capienti armadi contenenti farmaci sono gli arredi più vistosi.

Se si guarda con attenzione, si notano resti di scotch dietro la porta, un contenitore di penne malconce, un calendario col mese sbagliato e una cartelletta con le speranze chiamate “permessi”. Tutto qui. Non una pianta, non una foto, nessun oggetto a lei famigliare o amico.

Il medico le sorride prima di rituffarsi in un foglio scritto fitto.

Ci tiene a farle sapere che nella loro realtà la persona è al centro e che il compito di tutto lo staff è quello di garantire il massimo delle cure. Poi un palese fastidio cambia il suo volto ed è costretto a chiedere come si chiama suo padre. Nel PAI non compare.

Lei risponde perplessa, essendo lo stesso medico che ha fatto l’accoglienza pochi giorni prima. Vorrebbe puntualizzare quasi ad alta voce. È morsa da una crescente tentazione di riprendersi suo padre (almeno a casa sanno come chiamarlo). Invece fa un profondo respiro e attende di comprendere, di capire se tra tante parole almeno qualcuna possa rafforzare la sua scelta.

Il medico parla col foglio, non la degna di uno sguardo. Usa con frequenza termini tecnici, che le rendono difficile avere un quadro chiaro della situazione.

Intuisce solo che non è molto ciò che “è rimasto” di suo padre; mentre il medico parla, infatti, le si forma in testa l’immagine di un sacco vuoto, che poco importa dove viene lasciato, tanto di sacco vuoto si tratta…

Ma ciò che davvero le trafigge l’anima è apprendere che suo padre non si sta facilmente adattando: ha mostrato disturbi comportamentali e in un caso anche un agito violento nei confronti di un OSS. Per questo motivo, l’équipe – il medico ci tiene a sottolineare infatti che non è solo una sua scelta – ha ritenuto necessario modificare la terapia e introdurne una aggiuntiva al bisogno.

È necessario affinché suo padre si calmi e non rechi danno a sé stesso o ad altri. E si è reso anche necessario introdurre un sistema di salvaguardia quando seduto al tavolo, per evitare scivolamenti o cadute”.

Si chiede come è possibile che fino a poco tempo fa correva dietro alla sua nipotina e ora scivola dalla sedia. Forse la terapia, che aiuta, ha effetti collaterali? Ma no… ne avranno tenuto ben conto!

Il medico continua, quasi accelerando per concludere in breve tempo. Non ha ancora alzato lo sguardo e non sta leggendo, usa termini legati al parlato. Conclude affermando che certamente è una fase in evoluzione e richiede la dovuta attenzione: pertanto il prossimo PAI sarà tra tre mesi.

Se non le dispiace le chiedo una firma per il suo assenso…

Essere “la persona al centro”

Lucia sale i pochi gradini con una certa ansia… è la prima volta che viene convocata.

Piante verdi e rigogliose le danno il benvenuto nella hall della RSA. La prima volta che vi è entrata si aspettava odori sgradevoli e “grigiume”, e invece è rimasta colpita dalla pulizia.

Nota dei quadri alle pareti, con all’interno delle foto di anziani in attività: le sembra che diano un tocco di vita e di senso di “casa”. Per un secondo, il pensiero di suo padre in mezzo a quelle persone impegnate in attività laboratoriali che non hanno nulla di infantile, le genera un sorriso che respirando sale come un profumo, e lì si ferma.

Ora è seduta in attesa che il medico la raggiunga. Nonostante fosse attesa, i minuti passano e per lei è inconcepibile starsene lì quando a pochi metri oltre la sua testa – nel piano di sopra – c’è suo padre.

Lui non l’aspetta, non lo fa più. Non ricorda gli appuntamenti e ha perso anche la cognizione del tempo. Sembra peggiorato.

Non riesce a tenere ferme le mani. Le dita si intrecciano per poi rincorrere un decoro nell’abbigliamento impeccabile. Ha controllato i bottoni per la terza volta. Stringe le braccia a sé, pochi secondi, poi torna al telefonino per controllare l’ora. “Se sì da un appuntamento, bisognerebbe rispettarlo”, pensa tra sé.

Un movimento veloce proclama l’arrivo del dottore, accompagnato da due ragazze in divisa: una sul blu e una di una sfumatura di verde allegro, ma non troppo. Sorridono, la chiamano per cognome e persino per nome, come fosse un appello.

Buongiorno signora Lucia, ci scusi per il ritardo. Eviteremo di accampare scuse, purtroppo siamo sotto di personale e spesso in corsa”, le dice il medico.

Si sforza di comprendere, anche se ha dentro di sé sensazioni spiacevoli, che vengono mitigate da una frase che non si aspettava, pronunciata da una delle due ragazze in divisa, che si presenta come infermiera:

Mi scusi, ma so che è la figlia maggiore ed è lei che è stata più a fianco di suo padre in quest’ultimo periodo… non deve essere stato per nulla facile. Sono appena passata da lui, ci tenevo a vederlo di persona essendo appena rientrata dalle ferie, per evitare di leggere solo dalle carte.

Si morde il labbro. Vorrebbe chiedere se hanno la stessa attenzione con tutti gli anziani, ma tace. Affiancata dal terzetto, dentro di lei un mondo di domande e frustrazione vorrebbe chiedere, sapere, conoscere maggiormente un padre che non la riconosce più.

Raggiungono un salottino appartato e intimo dove le viene offerta una poltroncina.

L’ambiente è informale e personalizzato con cura, ma senza risultare finto o pacchiano: sono i piccoli dettagli a fare la differenza, tra i quali un grazioso servizio da the. Piante, mobilio ricercato, lampade con una gradevole luce calda, una tenda con un ricamo discreto e capienti armadi intarsiati sono gli arredi più vistosi.

Se si guarda con attenzione, si nota il cestino vuoto, un contenitore di penne colorate, un calendario con una bella immagine sopra il mese e una cartelletta contenente gli incartamenti di suo padre. Lui spicca in una foto dove accenna un sorriso.

Arrivano altre due persone che si presentano con cordialità: il fisioterapista, e un’operatrice socio sanitaria che le sorride prima di sedersi. Ci tengono a farle sapere che nella loro realtà la persona è al centro e che il compito di tutto lo staff è quello di garantire il massimo delle cure.

Sono tutti presenti per lei, disponibili ad ascoltare ogni domanda.

Poi iniziano a chiamare suo padre col soprannome con cui tutti lo chiamavano in paese. Nel PAI non compare, ma loro lo sanno. Lei è perplessa e lo fa notare, scoprendo così grazie a loro che il nome è la prima forma d’identità e, se anche una persona appare smemorata, quello lo ricorda.

Vorrebbe azzardare quasi a bassa voce un grazie. È alleggerita da una crescente sensazione di aver fatto la scelta giusta per suo padre, almeno come a casa sanno dar valore alla Persona.

Fa un profondo respiro e attende di capire se tra tante parole qualcuna le risulta estranea, ma ognuno per la sua professione ha la delicatezza di tradurre termini tecnici ancor prima che lei lo chieda.

Il medico parla guardandola negli occhi, senza fogli, con una certa pacatezza e sicurezza su quello che dice. L’équipe le racconta di come stanno lavorando con ciò che esiste ancora in modo vitale in suo padre. E intuisce che c’è ancora molto, se si possono “impostare così tanti obiettivi”.

Si ridesta drizzando la schiena quando inizia a sentire parole come favorire nuova socialità. Perché ogni persona diventa risorsa per l’altra, le spiegano. Riesce a riconoscere nella narrazione tutte le difficoltà, i deficit e le fatiche di suo padre, ma si rasserena sentendone parlare come “persona unica”, e soprattutto ora si sente meno sola, di fronte a professionisti che le ispirano fiducia.

Apprende che suo padre ha alcune difficoltà ad adattarsi, mostrando anche disturbi comportamentali con reazioni virulente nei confronti di un OSS; ma proprio oggi, con la stessa operatrice, ha partecipato all’attività di giardinaggio e successivamente ha preparato lui stesso – insieme ad altri anziani – la frutta per i suoi vicini di tavolo.

Non crede ai suoi occhi quando l’educatrice le mostra i filmati: prima mentre semina in capienti vasi e successivamente mentre sbuccia una mela affiancato dal personale in turno.

Per questo motivo, l’équipe sottolinea che è prematuro prendere una scelta inerente all’aumento della terapia, ma si riserva di adottare diverse strategie e monitorare la situazione giorno dopo giorno. Inoltre non si rende necessario introdurre alcun sistema di salvaguardia quando seduto al tavolo per evitare scivolamenti o cadute poiché è affiancato, supervisionato o coinvolto in attività quali la fisioterapia.

L’équipe continua a chiedere con gentilezza se sono stati in grado di spiegarsi a sufficienza, ribadendo massima disponibilità per successivi confronti. Lucia non ha ancora abbassato lo sguardo e osserva ogni persona nella stanza, fino ad azzardare quel “grazie” a bassa voce.

Se non le dispiace le chiedo una firma per il suo assenso, può metterla qui sopra a tutte le nostre…”

La coerenza tra parole e azioni

Lucia e suo padre sono le stesse persone in entrambi i racconti: i sentimenti di lei e la condizione di salute di lui non cambiano. A modificarsi però è tutto il contesto attorno, anche in termini di cura degli ambienti.

La differenza fondamentale la fanno le persone e le loro scelte di come condividere il percorso di cura.

In entrambe le situazioni si ripete il “mantra” sulla “persona al centro”, ma nel primo caso stride con ogni dettaglio attorno – risultando slogan – mentre nel secondo viene pronunciato in coerenza con scelte e comportamenti dei professionisti.

Per arrivare a un nuovo stile non basta il desiderio di creare un percorso di condivisione più sensibile. Bisogna progettarlo, bisogna studiarlo e si deve necessariamente allenarsi a un cambio che avvicina e genera fiducia nelle famiglie.

Certo, qui si tratta di narrazioni di fantasia, inevitabilmente generali e in parte edulcorate, rispetto alla quotidianità di una RSA, fatta di “tante fatiche e poco tempo”.

Ma la con-divisione rimane un passaggio fondamentale, unico e irripetibile; Un’occasione d’incontro dove creare alleanze a vantaggio di una rete fatta da staff di cura, caregiver e dalla stessa persona anziana. Un percorso che supporta il processo più bello e difficile del cammino di ognuno di noi: il “vivere accanto a…”.

About the Author: Luca Lodi

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Educatore professionale che ama raccontare le "storie piccole", per andare oltre l'ageismo. Fa parte del team dei narratorə di CURA

Grazie di cuore

 

Se questo articolo ti è stato utile puoi fare una piccola donazione per sostenere il lavoro di CURA

rivista CURA settembre23

Con 1 euro puoi aiutarci a cambiare la narrazione stereotipata sulla vecchiaia e sul mondo delle RSA.

Comunicare e con-dividere la Cura

La comunicazione è presente in ogni momento e in ogni dettaglio dei nostri luoghi di cura. Se in RSA la comunicazione è presente e importante nelle operazioni routinarie (condivido informazioni, rendo partecipe di percorsi, aggiorno sui cambiamenti…), diventa vitale nel momento in cui lo staff di cura incontra il famigliare.

In quell’occasione l’équipe condivide (ovvero divide con”) la persona più prossima della persona anziana la percezione, la certezza, i successi e le constatazioni di chi è ora.

Se ci fermiamo un attimo, possiamo notare quanto può essere strano che proprio noi –  professionisti che non erano dentro alla vita di quella persona fino a poco tempo prima – ci ritroviamo a spiegare alla persona più vicina, ovvero più coinvolta a livello emotivo, chi è suo padre, marito o nonno.

E lo facciamo spesso dall’alto di valutazioni, osservazioni e un sapere che raramente abbraccia in toto la persona.

Nei PAI non si parla di emozioni o di desideri, è vero. Ma questo non significa che non siamo tenuti a prenderli in considerazione e a rispettarli.

Allo scopo di accendere una riflessione, propongo due narrazioni di fantasia: nella prima si assiste a un incontro freddo tra curante e caregiver, dove il primo non tiene conto del ruolo e dei sentimenti della persona che ha di fronte. Nella seconda, invece, la caregiver e i sentimenti che porta con sé sono gli stessi, ma l’équipe riesce ad accoglierli, pur non potendo cancellare completamente le sue ansie e i suoi dubbi viscerali.

I professionisti riescono in questo caso a renderla partecipe, in un percorso in cui la con-divisione riguarda anche il peso che il famigliare porta con sé, nonostante le difficoltà e le criticità insite oggi nel lavoro in RSA, che non vengono negate.

Dire “la persona è al centro”

Lucia sale i pochi gradini con una certa ansia… è la prima volta che viene convocata.

Piante verdi rigogliose, ma finte, le danno il benvenuto nella hall della RSA. La prima volta che vi è entrata si aspettava odori sgradevoli e “grigiume”, e invece è rimasta colpita dalla pulizia.

Anche se i vistosi addobbi che richiamano inequivocabilmente una scuola primaria l’hanno lasciata interdetta. E la sensazione di essere nel posto sbagliato non è svanita quando le hanno comunicato, con una punta di orgoglio, che sono stati realizzati dagli anziani.

Per un secondo, il pensiero di suo padre a colorare fiori le genera un sorriso che deglutendo scende come un macigno, e lì si ferma.

Ora è seduta, in attesa che il medico la raggiunga.

Nonostante fosse attesa, i minuti passano e per lei è inconcepibile starsene lì, quando a pochi metri oltre la sua testa – nel piano di sopra – c’è suo padre.

Lui non l’aspetta, non lo fa più. Non ricorda gli appuntamenti e ha perso anche la cognizione del tempo. Sembra peggiorato.

Non riesce a tenere ferme le mani. Le dita si intrecciano per poi rincorrere un decoro nell’abbigliamento impeccabile. Ha controllato i bottoni per la terza volta. Stringe le braccia a sé, pochi secondi, poi torna al telefonino per controllare l’ora. “Se sì da un appuntamento, bisognerebbe rispettarlo”, pensa tra sé.

Un movimento veloce proclama l’arrivo del dottore che prontamente si scusa dell’attesa. Un imprevisto ha richiesto la sua presenza, dice con un’aria che le sembra tronfia.

Si morde il labbro. Vorrebbe chiedere se “l’imprevisto” ha coinvolto suo padre. Ma tace.

Segue calma il camice bianco mentre dentro di lei un mondo di domande e frustrazione vorrebbe esplodere.

Raggiungono l’ufficio e le viene offerta una sedia che ha visto tempi migliori. L’ambiente è talmente formale e spersonalizzato che persino la presenza di una piccola coccinella porterebbe un vistoso cambiamento. Faldoni, incartamenti, lampade fredde al neon, una tapparella con un cartello con la scritta “guasta” e capienti armadi contenenti farmaci sono gli arredi più vistosi.

Se si guarda con attenzione, si notano resti di scotch dietro la porta, un contenitore di penne malconce, un calendario col mese sbagliato e una cartelletta con le speranze chiamate “permessi”. Tutto qui. Non una pianta, non una foto, nessun oggetto a lei famigliare o amico.

Il medico le sorride prima di rituffarsi in un foglio scritto fitto.

Ci tiene a farle sapere che nella loro realtà la persona è al centro e che il compito di tutto lo staff è quello di garantire il massimo delle cure. Poi un palese fastidio cambia il suo volto ed è costretto a chiedere come si chiama suo padre. Nel PAI non compare.

Lei risponde perplessa, essendo lo stesso medico che ha fatto l’accoglienza pochi giorni prima. Vorrebbe puntualizzare quasi ad alta voce. È morsa da una crescente tentazione di riprendersi suo padre (almeno a casa sanno come chiamarlo). Invece fa un profondo respiro e attende di comprendere, di capire se tra tante parole almeno qualcuna possa rafforzare la sua scelta.

Il medico parla col foglio, non la degna di uno sguardo. Usa con frequenza termini tecnici, che le rendono difficile avere un quadro chiaro della situazione.

Intuisce solo che non è molto ciò che “è rimasto” di suo padre; mentre il medico parla, infatti, le si forma in testa l’immagine di un sacco vuoto, che poco importa dove viene lasciato, tanto di sacco vuoto si tratta…

Ma ciò che davvero le trafigge l’anima è apprendere che suo padre non si sta facilmente adattando: ha mostrato disturbi comportamentali e in un caso anche un agito violento nei confronti di un OSS. Per questo motivo, l’équipe – il medico ci tiene a sottolineare infatti che non è solo una sua scelta – ha ritenuto necessario modificare la terapia e introdurne una aggiuntiva al bisogno.

È necessario affinché suo padre si calmi e non rechi danno a sé stesso o ad altri. E si è reso anche necessario introdurre un sistema di salvaguardia quando seduto al tavolo, per evitare scivolamenti o cadute”.

Si chiede come è possibile che fino a poco tempo fa correva dietro alla sua nipotina e ora scivola dalla sedia. Forse la terapia, che aiuta, ha effetti collaterali? Ma no… ne avranno tenuto ben conto!

Il medico continua, quasi accelerando per concludere in breve tempo. Non ha ancora alzato lo sguardo e non sta leggendo, usa termini legati al parlato. Conclude affermando che certamente è una fase in evoluzione e richiede la dovuta attenzione: pertanto il prossimo PAI sarà tra tre mesi.

Se non le dispiace le chiedo una firma per il suo assenso…

Essere “la persona al centro”

Lucia sale i pochi gradini con una certa ansia… è la prima volta che viene convocata.

Piante verdi e rigogliose le danno il benvenuto nella hall della RSA. La prima volta che vi è entrata si aspettava odori sgradevoli e “grigiume”, e invece è rimasta colpita dalla pulizia.

Nota dei quadri alle pareti, con all’interno delle foto di anziani in attività: le sembra che diano un tocco di vita e di senso di “casa”. Per un secondo, il pensiero di suo padre in mezzo a quelle persone impegnate in attività laboratoriali che non hanno nulla di infantile, le genera un sorriso che respirando sale come un profumo, e lì si ferma.

Ora è seduta in attesa che il medico la raggiunga. Nonostante fosse attesa, i minuti passano e per lei è inconcepibile starsene lì quando a pochi metri oltre la sua testa – nel piano di sopra – c’è suo padre.

Lui non l’aspetta, non lo fa più. Non ricorda gli appuntamenti e ha perso anche la cognizione del tempo. Sembra peggiorato.

Non riesce a tenere ferme le mani. Le dita si intrecciano per poi rincorrere un decoro nell’abbigliamento impeccabile. Ha controllato i bottoni per la terza volta. Stringe le braccia a sé, pochi secondi, poi torna al telefonino per controllare l’ora. “Se sì da un appuntamento, bisognerebbe rispettarlo”, pensa tra sé.

Un movimento veloce proclama l’arrivo del dottore, accompagnato da due ragazze in divisa: una sul blu e una di una sfumatura di verde allegro, ma non troppo. Sorridono, la chiamano per cognome e persino per nome, come fosse un appello.

Buongiorno signora Lucia, ci scusi per il ritardo. Eviteremo di accampare scuse, purtroppo siamo sotto di personale e spesso in corsa”, le dice il medico.

Si sforza di comprendere, anche se ha dentro di sé sensazioni spiacevoli, che vengono mitigate da una frase che non si aspettava, pronunciata da una delle due ragazze in divisa, che si presenta come infermiera:

Mi scusi, ma so che è la figlia maggiore ed è lei che è stata più a fianco di suo padre in quest’ultimo periodo… non deve essere stato per nulla facile. Sono appena passata da lui, ci tenevo a vederlo di persona essendo appena rientrata dalle ferie, per evitare di leggere solo dalle carte.

Si morde il labbro. Vorrebbe chiedere se hanno la stessa attenzione con tutti gli anziani, ma tace. Affiancata dal terzetto, dentro di lei un mondo di domande e frustrazione vorrebbe chiedere, sapere, conoscere maggiormente un padre che non la riconosce più.

Raggiungono un salottino appartato e intimo dove le viene offerta una poltroncina.

L’ambiente è informale e personalizzato con cura, ma senza risultare finto o pacchiano: sono i piccoli dettagli a fare la differenza, tra i quali un grazioso servizio da the. Piante, mobilio ricercato, lampade con una gradevole luce calda, una tenda con un ricamo discreto e capienti armadi intarsiati sono gli arredi più vistosi.

Se si guarda con attenzione, si nota il cestino vuoto, un contenitore di penne colorate, un calendario con una bella immagine sopra il mese e una cartelletta contenente gli incartamenti di suo padre. Lui spicca in una foto dove accenna un sorriso.

Arrivano altre due persone che si presentano con cordialità: il fisioterapista, e un’operatrice socio sanitaria che le sorride prima di sedersi. Ci tengono a farle sapere che nella loro realtà la persona è al centro e che il compito di tutto lo staff è quello di garantire il massimo delle cure.

Sono tutti presenti per lei, disponibili ad ascoltare ogni domanda.

Poi iniziano a chiamare suo padre col soprannome con cui tutti lo chiamavano in paese. Nel PAI non compare, ma loro lo sanno. Lei è perplessa e lo fa notare, scoprendo così grazie a loro che il nome è la prima forma d’identità e, se anche una persona appare smemorata, quello lo ricorda.

Vorrebbe azzardare quasi a bassa voce un grazie. È alleggerita da una crescente sensazione di aver fatto la scelta giusta per suo padre, almeno come a casa sanno dar valore alla Persona.

Fa un profondo respiro e attende di capire se tra tante parole qualcuna le risulta estranea, ma ognuno per la sua professione ha la delicatezza di tradurre termini tecnici ancor prima che lei lo chieda.

Il medico parla guardandola negli occhi, senza fogli, con una certa pacatezza e sicurezza su quello che dice. L’équipe le racconta di come stanno lavorando con ciò che esiste ancora in modo vitale in suo padre. E intuisce che c’è ancora molto, se si possono “impostare così tanti obiettivi”.

Si ridesta drizzando la schiena quando inizia a sentire parole come favorire nuova socialità. Perché ogni persona diventa risorsa per l’altra, le spiegano. Riesce a riconoscere nella narrazione tutte le difficoltà, i deficit e le fatiche di suo padre, ma si rasserena sentendone parlare come “persona unica”, e soprattutto ora si sente meno sola, di fronte a professionisti che le ispirano fiducia.

Apprende che suo padre ha alcune difficoltà ad adattarsi, mostrando anche disturbi comportamentali con reazioni virulente nei confronti di un OSS; ma proprio oggi, con la stessa operatrice, ha partecipato all’attività di giardinaggio e successivamente ha preparato lui stesso – insieme ad altri anziani – la frutta per i suoi vicini di tavolo.

Non crede ai suoi occhi quando l’educatrice le mostra i filmati: prima mentre semina in capienti vasi e successivamente mentre sbuccia una mela affiancato dal personale in turno.

Per questo motivo, l’équipe sottolinea che è prematuro prendere una scelta inerente all’aumento della terapia, ma si riserva di adottare diverse strategie e monitorare la situazione giorno dopo giorno. Inoltre non si rende necessario introdurre alcun sistema di salvaguardia quando seduto al tavolo per evitare scivolamenti o cadute poiché è affiancato, supervisionato o coinvolto in attività quali la fisioterapia.

L’équipe continua a chiedere con gentilezza se sono stati in grado di spiegarsi a sufficienza, ribadendo massima disponibilità per successivi confronti. Lucia non ha ancora abbassato lo sguardo e osserva ogni persona nella stanza, fino ad azzardare quel “grazie” a bassa voce.

Se non le dispiace le chiedo una firma per il suo assenso, può metterla qui sopra a tutte le nostre…”

La coerenza tra parole e azioni

Lucia e suo padre sono le stesse persone in entrambi i racconti: i sentimenti di lei e la condizione di salute di lui non cambiano. A modificarsi però è tutto il contesto attorno, anche in termini di cura degli ambienti.

La differenza fondamentale la fanno le persone e le loro scelte di come condividere il percorso di cura.

In entrambe le situazioni si ripete il “mantra” sulla “persona al centro”, ma nel primo caso stride con ogni dettaglio attorno – risultando slogan – mentre nel secondo viene pronunciato in coerenza con scelte e comportamenti dei professionisti.

Per arrivare a un nuovo stile non basta il desiderio di creare un percorso di condivisione più sensibile. Bisogna progettarlo, bisogna studiarlo e si deve necessariamente allenarsi a un cambio che avvicina e genera fiducia nelle famiglie.

Certo, qui si tratta di narrazioni di fantasia, inevitabilmente generali e in parte edulcorate, rispetto alla quotidianità di una RSA, fatta di “tante fatiche e poco tempo”.

Ma la con-divisione rimane un passaggio fondamentale, unico e irripetibile; Un’occasione d’incontro dove creare alleanze a vantaggio di una rete fatta da staff di cura, caregiver e dalla stessa persona anziana. Un percorso che supporta il processo più bello e difficile del cammino di ognuno di noi: il “vivere accanto a…”.

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Grazie di cuore

 

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Con 1 euro puoi aiutarci a cambiare la narrazione stereotipata sulla vecchiaia e sul mondo delle RSA.

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