Comunicare le RSA in modo diverso è possibile. Da vittime del Covid a centri di resilienza, da luoghi dove il welfare ha fallito a straordinari avamposti di innovazione. L’immagine delle RSA deve essere riabilitata partendo dalla comunicazione di quanto di buono avviene al loro interno. E questo è compito soprattutto di chi ci lavora.

Luoghi dove gli anziani vengono abbandonati, dove gli ospiti appartengono principalmente alle fasce meno abbienti della popolazione – altrimenti perché mai avrebbero accettato un ricovero in una struttura? -, e soprattutto luoghi dove si muore soli. E se c’è una pandemia, si muore anche di più. Mentre fuori, si sa, il Covid-19 non ha fatto vittime.

Ma come mai si è diffusa questa immagine distorta delle RSA? Quali problemi di comunicazione si sono verificati? Se ne è parlato al gruppo di studio organizzato da Editrice Dapero, che ha visto coinvolti: Marco Trabucchi, presidente di AIP (Associazione Italiana di Psicogeriatria) e Direttore del Gruppo di ricerca geriatrica di Brescia, Roberto Mauri, Direttore Generale presso La Meridiana Cooperativa Sociale che opera sulla provincia di Monza e Brianza, Flaviano Zandonai, sociologo e Open innovation manager presso il Gruppo Cooperativo CGM (Consorzio Nazionale della Cooperazione Sociale Gino Mattarelli) e Andrea Rotolo, Lecturer di Government, Health & Not for Profit (GHNP) presso SDA Bocconi School of Management. Ha moderato l’incontro Renato Dapero, direttore editoriale della rivista Cura.

Comunicare le RSA: quali i problemi?

“Prima di pretendere che i media comunichino cose interessanti sulle RSA, dobbiamo avere delle cose da dire noi”, rompe il ghiaccio il professor Trabucchi, andando subito al nocciolo della questione. Nella maggior parte dei casi, la narrazione da parte delle strutture stesse è stata scarsa. E questo ha creato un vuoto, che è stato colmato con informazioni basate su un’ignoranza di fondo rispetto alla situazione generale delle strutture residenziali e al loro ruolo.

In altre parole, se in un RSA è scoppiato un focolaio di Covid-19 che ha portato alla morte di diversi anziani, significa che questa formula non è sicura per chi ne usufruisce e dovrebbe essere abbandonata definitivamente. Non si cerca, invece, nessun contro-esempio positivo o non ci si chiede come mai si sia giunti a una tale condizione di debolezza di fronte a una pandemia.

“La narrazione dei media nei nostri confronti ha ulteriormente appesantito un anno già molto complicato – interviene Roberto Mauri – A volte è stato più difficile gestire la pioggia di notizie, ogni sera tornando a casa, che non la prima linea in struttura, sette giorni su sette. Perché lì assieme a tutti i colleghi si cerca di resistere, ma quando si viene messi sul banco degli imputati in modo cosi vergognoso, si avverte ancora di più la fatica”. 

Trabucchi individua sei fattori sui quali bisogna agire per restituire un’immagine corretta dell’assistenza agli anziani in questi luoghi di cura: la loro collocazione nei servizi, il loro ruolo all’interno della rete, la collocazione fisica nella città, l’organizzazione strutturale e il conseguente problema economico, lo standard del personale e la sua formazione.

L’immagine delle RSA

L’immagine più calzante che è emersa per le RSA è quella di “parrocchie”. Ne aveva parlato anche Giorgio Pavan in un articolo sulla filiera dei servizi pubblicato su Rivistacura.it. Un luogo di ospitalità, dunque, e un punto di riferimento al quale ci si possa rivolgere quando si ha bisogno. Al centro ci sono tanto la cura dal punto di vista medico, quanto l’assistenza sociale e psicologica. E soprattutto è collegato ad altre realtà, come l’assistenza domiciliare, i centri diurni, le residenze a bassa intensità e il cohousing. “Tutti concetti di cui ultimamente ci siamo riempiti la bocca, ma che poi non siamo stati in grado di far trasparire all’esterno”, commenta Il professor Trabucchi.

L’autocritica è necessaria dunque. “Spesso non abbiamo avuto qualcosa di significativo da comunicare – prosegue Trabucchi. – E mi riferisco soprattutto alla crisi delle RSA. Le abbiamo difese, certo, perché meritano di essere difese. Ma cosa abbiamo da proporre per il futuro?”

Proviamo allora a partire dai punti indicati prima e a capire come dovrebbe cambiare sia la concezione che abbiamo delle strutture sociosanitarie, sia il nostro modo di raccontarle.

Dove si devono collocare le RSA?

“Dobbiamo essere pronti a rivedere tutti i meccanismi che abbiamo in mente”, avverte Roberto Mauri. Prima di tutto, non si può più pensare alla struttura come a una realtà a sé. Deve essere collocata all’interno di una rete e, spiega Trabucchi: “Collocazione nella rete significa da una parte il rapporto con la casa e la famiglia, ovvero quando e come abbandonare la propria abitazione, e dall’altra il rapporto con l’ospedale”. Ogni anno, sono sempre troppi gli anziani che devono essere trasportati al Pronto soccorso per ragioni di urgenza clinica. “Non c’è un adeguato servizio sanitario nelle strutture– prosegue Trabucchi. –  E questo riconduce al problema della carenza di medici e infermieri e della loro formazione”.  

“Noi cerchiamo di portare avanti il discorso dell’accompagnare – aggiunge Mauri. – Se fossimo in grado di accompagnare la persona dal domicilio, lungo ogni gradino della scala e fino all’RSA, quando è necessaria, non ci saremmo trovati degli anziani completamente abbandonati nelle proprie case e ricoverati negli ospedali o nelle strutture nel momento del disastro”.

È un intero settore quindi che deve essere riconcepito, a partire dal grande problema delle differenze tra regione e regione: “Oggi noi non sappiamo quasi come si componga il sistema sociosanitario – avverte Andrea Rotolo. – Esistono sistemi diversi in ogni territorio. Cambiano persino il nome e la definizione delle strutture. E questo naturalmente aumenta le difficoltà di fornire una fotografia nazionale dell’offerta, ma anche della domanda”. È emblematico il fatto che se si digita “sistema sociosanitario” su Google, i risultati appaiano già declinati nelle varie regioni. Mentre se si effettua la ricerca per “sistema sanitario”, compare quasi subito il sito del Ministero della Salute che illustra quello Nazionale.

“Quando svolgiamo le nostre attività di ricerca – prosegue Rotolo, – non capiamo esattamente quante persone ricevano una presa in carico e con quale intensità, mentre in altri Paesi è sufficiente andare sul sito del Ministero della Salute per trovare il quadro completo della situazione. In Italia invece devo ricostruire l’intero puzzle prendendo un pezzetto dal Ministero della Salute, un altro da quello del Lavoro e delle Politiche Sociali, un altro ancora da report di Fondazioni varie e così via”.

Il sistema sociosanitario non nasce già con l’idea di un insieme, ma è il risultato di diverse esperienze che si sono unite solo in un secondo momento. Si è quindi prodotta un’inevitabile stratificazione e le varie caratteristiche regionali non hanno un vero e proprio standard di riferimento. “Io sono convinto che sia ragionevole avere dei sistemi regionali che si organizzano in maniera diversa a seconda della situazione – prosegue Rotolo. – Però ha senso nel momento in cui siamo poi in grado di ricondurre tutto a una cornice condivisa e sistemica”.

La questione economica

Il governo deve impegnarsi a stilare un piano condiviso per tutto il territorio nazionale, che naturalmente non tralasci la questione economica. D’altro canto, secondo un articolo del Sole 24 Ore pubblicato a ottobre 2019, quindi prima della pandemia, investire in residenze per anziani garantisce un basso rischio di impresa e un rendimento del 6 o 7% all’anno. Insomma, non le si finanzia a fondo perduto.

Certo, si tratta di elaborare piani a lungo termine, come ricorda il professor Trabucchi: “Alla fine degli anni ’80 in Lombardia era stato varato un provvedimento che aveva permesso di modernizzare tutte le strutture, perché forniva un finanziamento a interessi zero. Infatti, oggi nella regione abbiamo il 90% di strutture ben fatte, ma che ormai iniziano ad avere 20 o 30 anni”.

Ne è passato insomma di tempo dagli esempi virtuosi e oggi la situazione è finita per essere piuttosto diversa: “Il discorso economico in Regione Lombardia – interviene Roberto Mauri – si è tradotto in una riduzione degli standard che ognuno di noi poteva mettere a disposizione dell’ospite e in un innalzamento della retta a totale carico dell’utente. Abbiamo abbassato la qualità del servizio e abbiamo aumentato il costo, questa è la realtà. Ma gli anziani di oggi sono totalmente diversi da quelli di 20 anni fa, così come lo sono le loro richieste. Per concludere, con la pandemia ci siamo ritrovati a dover gestire anche un peso sanitario che per noi era insostenibile”.

Un problema destinato a esplodere, come faceva notare Vincenzo Costa, presidente nazionale di Auser (Associazione per l’invecchiamento attivo) già nel 2017: “Il 52% delle famiglie italiane è incapiente – rifletteva nel corso di un’intervista ad Altraeconomia, – cioè non potrà mai pagare nemmeno una badante regolarmente assicurata, che può costare 1.300, 1.600 euro al mese. Un limite che, come la retta residenziale, è lontanissimo dall’indennità di accompagnamento che viene riconosciuta a una persona giudicata totalmente non autosufficiente, ovvero 450 euro”.

“Dovremmo ripensare a un Piano Marshall come quello degli anni ’80 – insiste Roberto Mauri. – Altrimenti ci sarà sempre chi dirà che bisogna chiudere le RSA. Però io oggi conosco tante strutture che hanno messo in piedi dei bei progetti. Si tratta di recuperare il buono di ognuno, metterlo in comune su scala nazionale e cercare poi una mediazione per i vari territori, perché non è la stessa cosa costruire una RSA a Milano e in Abruzzo.

Dopodiché si troveranno finanziamenti e collaborazioni. Secondo me i soldi non sono mai il vero problema, perché in Italia li abbiamo, ma si tratta di metterli a disposizione di tutti. E qui ci vorrebbero dei politici, che facciano un programma pensando a dove si vuole arrivare tra dieci anni”.

La carenza di personale

L’osservatorio Welforum parla di una “una severa questione occupazionale all’interno delle residenze per anziani”. La stessa a cui faceva riferimento anche il professor Trabucchi. Denuncia la mancanza del 26% dei medici necessari e un numero di infermieri rimasto invariato negli anni, a fronte però di un aumento di ospiti che richiedeva servizi ad alta intensità sanitaria (+9%, in 7 anni). Senza poi dimenticare il quadro generale di una popolazione che invecchia e che in futuro potrebbe avere sempre più bisogno di assistenza sociosanitaria, anche nelle RSA.

La regione prevalente è lo spostamento verso il settore sanitario, reso ancora più rapido dalle assunzioni straordinarie che si sono verificate proprio a causa della pandemia. “La carenza del personale infermieristico e sociosanitario è data dalla forte migrazione di queste figure verso il pubblico – conferma Ivan Bernini, segretario generale Fp Cgil Veneto a Quotidianosanità.it– e lo si deve ad almeno due fattori: la possibilità di ri-stimolarsi professionalmente con prospettive di carriera più promettenti e l’incremento delle retribuzioni che scontano differenziali importanti rispetto a quelli della sanità pubblica”.

A farne le spese sono gli anziani, ma anche gli operatori, che si ritrovano a lavorare 10, 11 e a volte anche 12 ore al giorno. Come è accaduto durante questa pandemia, dove bisognava coprire anche i buchi di chi era in quarantena.

“I 901 minuti di assistenza che secondo la normativa prevista da Regione Lombardia dovrebbero essere garantiti a ciascun ospite ogni settimana non hanno senso: nessuno riesce a seguirli – taglia corto il professor Trabucchi. – D’altronde come li finanziamo? Le regole pubbliche stabiliscono un certo numero di personale, mentre i gestori si accorgono poi che quella quantità è assolutamente inadeguata. Così aggiungono lo sforzo economico che manca, ma per il futuro non sarà sufficiente”.

Tutti questi problemi nascosti sotto il tappeto sono emersi nel pieno della loro gravità durante la pandemia. Siamo arrivati così agli articoli in cui si pontificava di un’assistenza domiciliare estesa a tutti gli anziani, per toglierli finalmente da questi buchi neri che sono le strutture sociosanitarie.

Eppure, sappiamo che oggi la fetta più importante della popolazione è rappresentata dai baby boomers, che hanno tra i 50 e i 60 anni. Nel giro di massimo 20 anni, la richiesta di assistenza da parte della terza età esploderà letteralmente, mentre l’aumento di famiglie mononucleari farà calare la disponibilità di caregiver. Potremo davvero risolvere tutto con badanti e assistenza a domicilio anche quando la persona necessiterà di cure ad alta intensità?

Esempi virtuosi: Il paese ritrovato

Eppure di esperienze virtuose in Italia non siamo privi. Tra queste val la pena di citare Il paese ritrovato, un villaggio Alzheimer che si trova a Monza – una piccola città a tutti gli effetti – di cui è direttore proprio Roberto Mauri. Qui gli spazi sono progettati per cercare di garantire la maggior autonomia possibile a persone affette da demenza.

“Abbiamo realizzato appartamenti da 8 persone che, con le opportune modifiche, potrebbero diventare un modello da trasferire anche alle RSA e arrivare ad accogliere 10 anziani. Le stanze sono singole e hanno tutte il bagno privato. Abbiamo insomma trovato una soluzione alberghiera che da un lato permette agli ospiti di sentirsi a casa, pur con l’adeguata assistenza sanitaria, e dall’altro, pensando proprio a questo periodo di pandemia, ci ha consentito una gestione del Covid migliore di quanto sia avvenuto nei nuclei da 20 persone delle strutture residenziali”, spiega Mauri.

In questo modo, l’RSA diventa un luogo riservato solo all’ultima fase della vita e alle persone più compromesse. Mentre il Paese Ritrovato si pone come un passaggio intermedio, una soluzione per chi non avrebbe davvero bisogno di un ricovero in una struttura.

“Negli ultimi 20 anni, qui in Lombardia, abbiamo abbandonato tutto quello che era tra il Centro Diurno Integrato e le RSA. E questa scelta si è trasformata in un grave limite – prosegue. – Per questo motivo ora esiste una fascia di persone che sta attraversando una fase della vita che non ha una vera risposta, se non l’RSA. Abbiamo parcellizzato le unità di offerta, rendendole rigide. Questo sistema non va bene per l’anziano, perché oggi può essere in un modo e domani cambiare leggermente. E non deve essere obbligato a spostarsi da un’altra parte”.

Così la cooperativa sociale La Meridiana ha riorganizzato il sistema di cura, mettendo l’accento sulla flessibilità. “Abbiamo esperienze di strutture integrate, dove è presente il Centro Diurno Integrato, alloggi di lungo periodo e alloggi di brevissimo periodo. Così riusciamo a dare la risposta giusta al momento giusto e a tenere l’anziano in un’unica realtà”.

La nuova RSA

Sono difficili da replicare anche perché mancano le strutture che favoriscano proprio la trasferibilità delle iniziative d’eccellenza. Lo fa notare Flaviano Zandonai proprio in riferimento ai progetti portati avanti da Mauri: “In Lombardia si sta provando a realizzare qualcosa di simile al Paese Ritrovato in altri contesti. La coop Genera, per esempio, ha cercato di avviare il progetto dentro al Villaggio Figino di Milano. Ora forse verrà replicato anche all’interno di una cascina. Sono tutti livelli diversi di trasferibilità del servizio”.

Ma affinché questo modus operandi raggiunga l’intero territorio italiano, serve un’integrazione verticale tra gli enti e una definizione più precisa dei compiti di ciascuno. “La legge 328 del 2000 sosteneva che fossero le Province a doversi occupare di costruire sistemi informativi territoriali che consentivano la programmazione degli interventi e dei servizi sociosanitari – prosegue Zandonai. – Sembra quasi ridicolo riletto oggi, alla luce della fine che hanno fatto sia le Province che i sistemi informativi”. Ecco perché rilancia la necessità di un sistema verticale più collaudato, magari partendo proprio dall’individuazione di progetti positivi da riprodurre.

“Lo so – ammette, – è molto difficile mettere in atto delle politiche che consentano di trasferire l’innovazione, ad esempio, ma quello che dobbiamo chiederci è: fino a che punto è possibile costruire reti di servizi che siano internalizzabili all’interno di una stessa organizzazione? Quali caratteristiche deve avere il territorio? E l’organizzazione stessa? Qual è il bisogno economico e poi di competenze? Dobbiamo erigere le infrastrutture sociali che siano in grado di trasferire i modelli e adattarli ai contesti. Altrimenti si muore di buone pratiche: belle, interessanti, ma senza che diano davvero seguito a un cambiamento concreto”.

Una contro narrazione

Quello che deve cominciare fin da ora è una contro narrazione, che dia conto dell’immagine reale e non stereotipata delle RSA. “Le residenze vengono raccontate come vittime del virus, la dimostrazione che un certo tipo di welfare ha fallito – conclude Zandonai. – Ma io le vedo da fuori e mi sembra che oggi siano il più straordinario centro di resilienza del Paese e il più importante luogo di innovazione. Le famose maschere da sub di Decathlon trasformate in erogatori dell’ossigeno sono state implementate proprio in una struttura per anziani della Valtellina. Sono proprio questi aspetti che non si conoscono e che invece dovrebbero essere comunicati”.

SITOGRAFIA DI RIFERIMENTO

  1. Residenze per anziani, mercato in crescita costante. Il Sole 24 Ore. 2019
  2. L’Italia non è preparata all’invecchiamento. La finanza sì. Altraeconomia. 2017
  3. Rsa. Carenza di infermieri, Bernini (FP Cgil Veneto): “Si utilizzi il personale destinato alle Ulss”. Quotidiano Sanità. 2020
  4. Residenze per anziani e carenza di personale. Welforum. 2020