Essere direttore di una grande RSA
È il 4 settembre e in Fondazione Casa Serena (Brembate Sopra, BG) c’è grande fermento: sono in corso i preparativi per un’apericena di festa, in salone, che ci sarà la sera stessa e a cui parteciperanno circa 300 persone tra anziani residenti, famiglie, personale, volontari e persone in qualche modo “vicine” alla Casa.
Si tratta di uno dei tanti momenti conviviali e di comunità che la Casa organizza per favorire le relazioni e “per non rimanere isola”, come mi spiega Stefano Preda, direttore generale dell’Ente da ormai tre anni abbondanti, che ha iniziato a lavorare in ambito amministrativo nel mondo delle RSA “per puro caso”, dopo una laurea in Economia e Commercio, con un indirizzo specifico in ambito finanziario.
Amante della matematica fin da bambino, anche oggi Preda si occupa prevalentemente di numeri per gestire “l’Azienda RSA”, ma nel corso della nostra chiacchierata ripete più volte un concetto che non posso fare a meno di notare.
Mentre parla del suo lavoro, definisce infatti per contrapposizione quello degli operatori e dei professionisti dei reparti come il “lavoro vero”; mentre mi racconta della sua quotidianità, definisce “vita vera” quella che avviene “ai piani” e nelle sale comuni della Casa, il “vero luogo”, oltre la porta del comparto amministrativo.
Mi confida che la fatica più grande per lui è proprio quella di non riuscire a trovare lo spazio-tempo per avere un contatto diretto con tutte le persone che vivono la Casa, in primis le persone anziane.
“Dirigo un servizio alla persona, ma non ho abbastanza contatto con la persona. D’altra parte, in un Ente così grande, è davvero difficile” – Casa Serena conta infatti 217 Posti letto, con diverse unità d’offerta (RSA, Cure intermedie, Nucleo Alzheimer, Centro Diurno, mini alloggi, senza dimenticare l’assistenza domiciliare con circa 250 persone assistite anche sul territorio).
Nel tempo ha imparato a ritagliarsi dei momenti per fermarsi a parlare con anziani, famigliari e volontari, “attraverso i quali”, mi dice, “ritrovo la ragione del mio lavoro”.
Lavorare in RSA oggi
Gli chiedo allora se consiglierebbe il suo lavoro a un giovane che si laurea oggi in economia.
E mi risponde che “sì, ma solo a patto che sia predisposto sia per i numeri che per la relazione con le persone, perché questo è fondamentale in un’azienda come l’RSA”.
Che la relazione sia parte integrante della Cura non è concetto nuovo per gli addetti ai lavori. Ma che questa competenza debba appartenere a tutti – Amministrativi e direttori generali compresi – non è una consapevolezza così diffusa.
“È necessaria empatia”, mi dice, “e noi qui, dai nostri uffici, possiamo permetterci il lusso di non essere sempre empatici, mentre il personale che lavora costantemente accanto alle persone non può: la loro capacità di entrare in relazione con l’altro è ancora più importante delle competenze tecniche”.
(Abbiamo parlato tempo fa di questa fatica dell’empatia e dell’importanza dell’auto-empatia per l’operatore in questo articolo).
Parliamo così delle difficoltà emotive, fisiche e psicologiche che il lavoro di Cura in RSA porta con sé; della carenza di personale diffusa e di come questa renda ancora più gravoso il lavoro a chi sceglie di restare: “per la situazione che abbiamo oggi, in pochi spingerebbero i propri figli a fare questo mestiere”.
Parliamo quindi di cosa sono le RSA, di cosa potrebbero essere, e dell’immagine che hanno all’esterno.
Pregiudizio sull’RSA e obiettivi della cronaca
A parer suo, uno dei motivi per cui il pregiudizio sull’RSA è così diffuso è perché arriva pochissimo l’informazione di ciò che le RSA fanno; così, “una persona che non ha motivi per essere vicina a questi servizi, tipicamente intercetta il concetto di RSA solo quando ne sente parlare al tg per qualcosa che non va, e ha solo questo per costruirsi l’immagine di ciò che siamo”.
Le notizie di cronaca, si sa, si orientano sempre di più sul male piuttosto che sul bene. E proprio qui, a Brembate di Sopra, paese teatro dell’omicidio di Yara Gambirasio del 2010, sanno bene di cosa è capace la cronaca.
D’altra parte – penso io, mentre ascolto il direttore – la cronaca fa questo perché al pubblico, cioè a noi, mediamente interessa questo.
Per chi produce contenuti di largo consumo è solo questione di soddisfare un target. Un target che ha bisogno di esorcizzare le proprie paure in un ambiente controllato e di identificarsi con delle vittime che ha il privilegio di non conoscere in modo diretto.
Un target che nel guardare crimini e scandali in realtà si specchia, cercando di mettere a posto cose dentro di sé. È solo un modo come un altro di fare commercio con la nostra paura e con il nostro dolore.
Raccontare l’RSA senza raccontare l’RSA
Come fare allora a intercettare le persone in modo diverso? Come fare a raccontare tutta la complessità dell’RSA, se i canali mainstream decidono di far passare solo un messaggio più semplificato?
Casa Serena ha un grande vantaggio, mi dice il direttore: si trova nel cuore del Paese.
“Quello che noi stiamo provando a fare è allenare la comunità a fare incursione in RSA per vederla dall’interno e non per quello che noi raccontiamo, anche se è molto oneroso per il personale, già molto sotto stress, organizzare queste iniziative.”
“Far entrare la gente”, dunque, attraverso iniziative che possano essere di interesse anche a chi non ha un parente in struttura.
Pochi giorni prima di questa chiacchierata, per esempio, la Casa ha organizzato una serata di cinema all’aperto con la proiezione del film Quasi amici:
Se non conosci il film, puoi guardare qui il trailer:
“Ho chiesto volutamente alle psicologhe di pensare a un film che parlasse di Cura ma che fosse leggero e per tutti. Volevo che chiunque potesse avere interesse a venire e non solo il nostro cosiddetto “target”. Bisogna riuscire a creare il “secondo rimbalzo” – spiega il direttore – “a fare in modo cioè che anche l’amico del parente abbia un buon motivo per entrare da noi”.
Il lavoro di domani
Ecco qual è il punto che ci ricorda Stefano Preda con il suo approccio: fare una buona comunicazione per le RSA non ha solo a che vedere con uno o più “target da centrare”, ma anche con un interesse collettivo da smuovere. Ovvero l’interesse che abbiamo, come collettività di cittadini, di conoscere più da vicino i luoghi che si prendono cura della nostra popolazione anziana.
Il modo in cui il nostro Paese si prende cura delle persone più vulnerabili, infatti, riguarda tutti noi, perché ci racconta chiaramente chi siamo, in termini di capacità di cura, ovvero di civiltà.
Non è un’operazione facile e nemmeno si può sperare di realizzarla in breve tempo, ma abbiamo almeno due ragioni per guardare al futuro con ottimismo: le nuove generazioni non guardano più i telegiornali e sembrano essere sempre più stanche del mondo economico e del lavoro così come lo conosciamo oggi.
Esperienze dense di significato, relazioni autentiche e desiderio di un mondo più armonico a livello sociale saranno il cuore del lavoro di domani: e un “mondo RSA” consapevole di sé avrà di certo tutte le potenzialità per attirare finalmente uno sguardo capace di abbracciare tutta la sua complessità.
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Essere direttore di una grande RSA
È il 4 settembre e in Fondazione Casa Serena (Brembate Sopra, BG) c’è grande fermento: sono in corso i preparativi per un’apericena di festa, in salone, che ci sarà la sera stessa e a cui parteciperanno circa 300 persone tra anziani residenti, famiglie, personale, volontari e persone in qualche modo “vicine” alla Casa.
Si tratta di uno dei tanti momenti conviviali e di comunità che la Casa organizza per favorire le relazioni e “per non rimanere isola”, come mi spiega Stefano Preda, direttore generale dell’Ente da ormai tre anni abbondanti, che ha iniziato a lavorare in ambito amministrativo nel mondo delle RSA “per puro caso”, dopo una laurea in Economia e Commercio, con un indirizzo specifico in ambito finanziario.
Amante della matematica fin da bambino, anche oggi Preda si occupa prevalentemente di numeri per gestire “l’Azienda RSA”, ma nel corso della nostra chiacchierata ripete più volte un concetto che non posso fare a meno di notare.
Mentre parla del suo lavoro, definisce infatti per contrapposizione quello degli operatori e dei professionisti dei reparti come il “lavoro vero”; mentre mi racconta della sua quotidianità, definisce “vita vera” quella che avviene “ai piani” e nelle sale comuni della Casa, il “vero luogo”, oltre la porta del comparto amministrativo.
Mi confida che la fatica più grande per lui è proprio quella di non riuscire a trovare lo spazio-tempo per avere un contatto diretto con tutte le persone che vivono la Casa, in primis le persone anziane.
“Dirigo un servizio alla persona, ma non ho abbastanza contatto con la persona. D’altra parte, in un Ente così grande, è davvero difficile” – Casa Serena conta infatti 217 Posti letto, con diverse unità d’offerta (RSA, Cure intermedie, Nucleo Alzheimer, Centro Diurno, mini alloggi, senza dimenticare l’assistenza domiciliare con circa 250 persone assistite anche sul territorio).
Nel tempo ha imparato a ritagliarsi dei momenti per fermarsi a parlare con anziani, famigliari e volontari, “attraverso i quali”, mi dice, “ritrovo la ragione del mio lavoro”.
Lavorare in RSA oggi
Gli chiedo allora se consiglierebbe il suo lavoro a un giovane che si laurea oggi in economia.
E mi risponde che “sì, ma solo a patto che sia predisposto sia per i numeri che per la relazione con le persone, perché questo è fondamentale in un’azienda come l’RSA”.
Che la relazione sia parte integrante della Cura non è concetto nuovo per gli addetti ai lavori. Ma che questa competenza debba appartenere a tutti – Amministrativi e direttori generali compresi – non è una consapevolezza così diffusa.
“È necessaria empatia”, mi dice, “e noi qui, dai nostri uffici, possiamo permetterci il lusso di non essere sempre empatici, mentre il personale che lavora costantemente accanto alle persone non può: la loro capacità di entrare in relazione con l’altro è ancora più importante delle competenze tecniche”.
(Abbiamo parlato tempo fa di questa fatica dell’empatia e dell’importanza dell’auto-empatia per l’operatore in questo articolo).
Parliamo così delle difficoltà emotive, fisiche e psicologiche che il lavoro di Cura in RSA porta con sé; della carenza di personale diffusa e di come questa renda ancora più gravoso il lavoro a chi sceglie di restare: “per la situazione che abbiamo oggi, in pochi spingerebbero i propri figli a fare questo mestiere”.
Parliamo quindi di cosa sono le RSA, di cosa potrebbero essere, e dell’immagine che hanno all’esterno.
Pregiudizio sull’RSA e obiettivi della cronaca
A parer suo, uno dei motivi per cui il pregiudizio sull’RSA è così diffuso è perché arriva pochissimo l’informazione di ciò che le RSA fanno; così, “una persona che non ha motivi per essere vicina a questi servizi, tipicamente intercetta il concetto di RSA solo quando ne sente parlare al tg per qualcosa che non va, e ha solo questo per costruirsi l’immagine di ciò che siamo”.
Le notizie di cronaca, si sa, si orientano sempre di più sul male piuttosto che sul bene. E proprio qui, a Brembate di Sopra, paese teatro dell’omicidio di Yara Gambirasio del 2010, sanno bene di cosa è capace la cronaca.
D’altra parte – penso io, mentre ascolto il direttore – la cronaca fa questo perché al pubblico, cioè a noi, mediamente interessa questo.
Per chi produce contenuti di largo consumo è solo questione di soddisfare un target. Un target che ha bisogno di esorcizzare le proprie paure in un ambiente controllato e di identificarsi con delle vittime che ha il privilegio di non conoscere in modo diretto.
Un target che nel guardare crimini e scandali in realtà si specchia, cercando di mettere a posto cose dentro di sé. È solo un modo come un altro di fare commercio con la nostra paura e con il nostro dolore.
Raccontare l’RSA senza raccontare l’RSA
Come fare allora a intercettare le persone in modo diverso? Come fare a raccontare tutta la complessità dell’RSA, se i canali mainstream decidono di far passare solo un messaggio più semplificato?
Casa Serena ha un grande vantaggio, mi dice il direttore: si trova nel cuore del Paese.
“Quello che noi stiamo provando a fare è allenare la comunità a fare incursione in RSA per vederla dall’interno e non per quello che noi raccontiamo, anche se è molto oneroso per il personale, già molto sotto stress, organizzare queste iniziative.”
“Far entrare la gente”, dunque, attraverso iniziative che possano essere di interesse anche a chi non ha un parente in struttura.
Pochi giorni prima di questa chiacchierata, per esempio, la Casa ha organizzato una serata di cinema all’aperto con la proiezione del film Quasi amici:
Se non conosci il film, puoi guardare qui il trailer:
“Ho chiesto volutamente alle psicologhe di pensare a un film che parlasse di Cura ma che fosse leggero e per tutti. Volevo che chiunque potesse avere interesse a venire e non solo il nostro cosiddetto “target”. Bisogna riuscire a creare il “secondo rimbalzo” – spiega il direttore – “a fare in modo cioè che anche l’amico del parente abbia un buon motivo per entrare da noi”.
Il lavoro di domani
Ecco qual è il punto che ci ricorda Stefano Preda con il suo approccio: fare una buona comunicazione per le RSA non ha solo a che vedere con uno o più “target da centrare”, ma anche con un interesse collettivo da smuovere. Ovvero l’interesse che abbiamo, come collettività di cittadini, di conoscere più da vicino i luoghi che si prendono cura della nostra popolazione anziana.
Il modo in cui il nostro Paese si prende cura delle persone più vulnerabili, infatti, riguarda tutti noi, perché ci racconta chiaramente chi siamo, in termini di capacità di cura, ovvero di civiltà.
Non è un’operazione facile e nemmeno si può sperare di realizzarla in breve tempo, ma abbiamo almeno due ragioni per guardare al futuro con ottimismo: le nuove generazioni non guardano più i telegiornali e sembrano essere sempre più stanche del mondo economico e del lavoro così come lo conosciamo oggi.
Esperienze dense di significato, relazioni autentiche e desiderio di un mondo più armonico a livello sociale saranno il cuore del lavoro di domani: e un “mondo RSA” consapevole di sé avrà di certo tutte le potenzialità per attirare finalmente uno sguardo capace di abbracciare tutta la sua complessità.