Nonne e nonni: che idee risvegliano queste parole?
Lavoro, ormai da qualche anno, nelle RSA. E in ogni Struttura, per riferirsi agli anziani (non tutti così anziani, a dire il vero), ho spesso sentito usare l’appellativo “nonni”. Usato in maniera dolce, certo; eppure, nel sentirlo pronunciare, c’è qualcosa che stride.
Nonno s. m. [lat. tardo nonnus «monaco; balio»]. – 1. Il padre del padre o della madre […] È usato talvolta come appellativo familiare nel rivolgersi a uomo molto anziano: si accomodi, nonno.
Nonna s. f. [lat. tardo nonna «monaca; balia»]. – 1. La madre del padre o della madre […] Spesso con tono di rimpianto e di tenerezza (i biscotti, il rosolio della n., o delle nostre nonne).
Definizioni tratte dal vocabolario Treccani.
Quello che mi stride maggiormente è che il termine “nonno/a” richiama precise caratteristiche vezzose: i nonni sono buoni, profumano di torta e di amore, di coccole e tenerezza (come riporta la definizione); e nella maggior parte dei casi, per chi ha avuto la fortuna di conoscerli, questo ritrae davvero le loro caratteristiche. Ma si tratta solo di una sfaccettatura che nasconde, nella vezzosità di un termine “buono”, alcuni inganni.
Svincolare la persona dalla sua identità
Il primo è quello di slegarli dalla loro identità. Chi sono stati in passato? Se sono nonni sono stati anche genitori, ma non solo. Hanno lavorato, hanno intrattenuto relazioni. Sono stati mogli e mariti, ma anche lavoratori instancabili, persone vive e piene di sogni.
Viene persa, con l’uso del termine, quell’unicità che è caratteristica fondante dell’identità di cui parla Goffman.
“Per identità personale intendo […] i segni positivi o piastrine di riconoscimento e la combinazione unica degli elementi della sua vita […]. L’identità personale dunque è legata alla supposizione che l’individuo possa differenziarsi da tutti gli altri e che intorno a questo mondo di differenziazione si possa collegare una storia continua di fatti sociali che costituiscono la sostanza appiccicosa a cui si attaccano tutti gli altri fatti biologici”
(1963, cit. in Mediascapes Journal, 2/2013 106, 2013, Nicola Pentecoste).
La figura del “nonno” si appiccica quindi all’idea di una identità unica che scalza tutte le altre, andando a oscurare i diversi ruoli che, nel corso della vita, sono stati rivestiti.
Il ruolo riguarda l’aspettativa di comportamento che la società si crea nei confronti di specifici gruppi di individui; quello dell’anziano, di conseguenza, è ridotto allo stereotipo di persona buona, mite, a cui si incolla un “tono di rimpianto”. Quello che si dice… un “bravo nonnino”!
Ridurre nonne e nonni a “un’entità unitaria”
Per chi è ancora relativamente giovane, essere “nonno/a” è visto come un evento distante; soprattutto nella società di oggi, in cui si diventa genitori sempre più tardi e di conseguenza, nonni, ancora dopo.
Più si sente qualcosa distante, nel tempo e nello spazio, più c’è la tendenza ad unificare quel qualcosa in una massa “informe”, quella che Le Bon definirebbe “un’entità unitaria”.
I nonni sono distanti nel tempo (diventiamo nonni sempre più tardi) e nello spazio (spesso sono pensati come relegati in una RSA o in casa, in solitudine).
Esiste, secondo alcuni studiosi, “la tendenza a trattare i membri di un gruppo estraneo come elementi indifferenziati di un’unica categoria. In queste situazioni si verifica, secondo Tajfel, una depersonalizzazione dei membri dell’altro gruppo” (Cfr. C. Volpato, Deumanizzazione. Come si legittima la violenza, Laterza, 2011, p. 23).
In sintesi ciò che non conosco, o mi sembra distante, lo unifico, lo massifico, spersonalizzandolo.
Non solo si spersonalizza, ma ci si allontana anche dalle emozioni. Se la massa è un tutt’uno si fa più fatica a percepirne le emozioni individuali. Si crea, per estremizzazione, quello che viene definito come uno dei bias dell’empatia di cui parla Bloom.
“Se la premura è guidata da pensieri sulla sofferenza di specifici individui, allora si genera una situazione perversa in cui la sofferenza di uno può contare più della sofferenza di mille. […] E Madre Teresa una volta disse che guardando alla massa, non sarebbe riuscita ad agire. Guardando il singolo sì.”
Difficoltà a relazionarsi con chi non corrisponde allo stereotipo
M. è una signora che vive nell’RSA in cui lavoro e, a volte, mi rendo conto che non mi è facile entrare in relazione con lei. O almeno, non tanto quanto lo è con altre signore anziane.
Quando ne parlo con una mia collega mi risponde: “Ci credo che fai fatica. Perché non rientra nello stereotipo della “nonnina” della Casa di Riposo”.
Ha ragione. M. ha un passato turbolento, un divorzio alle spalle e fuma ininterrottamente. Non indossa collane di perle. Non si cotona i capelli. Probabilmente la sua cucina non ha mai profumato di biscotti.
Lo stereotipo dell’ospite “nonno/a” della Casa di Riposo ha mietuto un’altra vittima. E stavolta sono io. Quando si attiva uno stereotipo “sostituiamo lo sforzo conoscitivo con un’idea precostituita, che nel migliore dei casi semplifica la realtà e nel peggiore la distorce” (
In questo caso lo stereotipo mi ha completamente distorto la realtà, impedendomi una relazione positiva.
L’atteggiamento utilizzato, che altro non è che un prodotto sociale, non fa che corrispondere alla necessità della mente umana, che ha bisogno di formarsi idee generali.
Le dimensioni dell’atteggiamento umano
Secondo Allport, l’atteggiamento è caratterizzato da tre dimensioni: cognitiva, affettiva e conativa.
La dimensione cognitiva “concerne ciò che si sa di un oggetto, indipendentemente dal fatto che tale conoscenza sia ancorata a realtà oggettive o invece a credenze che sono vere solo per un individuo o per un gruppo” (Albano R., Cavalli A., Piccheri A., Sciarrone R., 2004, p. 74).
La dimensione affettiva ha invece a che fare con le emozioni che quel determinato oggetto/persona mi evoca.
La dimensione conativa, infine, riguarda il comportamento che andrò a tenere nei confronti dell’oggetto.
Calando nel concreto ecco ciò che è successo:
Ho avuto difficoltà ad entrare in relazione con M. (dimensione affettiva), perché credo che non corrisponda allo stereotipo della nonna “dolce” (dimensione cognitiva) e ho adottato un modus operandi meno empatico (dimensione conativa)
“Io non sono nonna!”
Ho in mente una bellissima festa in una delle Strutture in cui ho lavorato. L., una delle anziane a cui ero più affezionata, tiene in mano un foglio decorato per festeggiare la festa della mamma. Il cartello ha dei disegni bellissimi e la festa è riuscitissima. Ma L. ha perso suo figlio da pochi mesi.
Dall’altra parte della sala c’è E., che di figli ne ha due; ma immagino che spesso il suo pensiero vada a quello che anche lei ha perso. Soprattutto oggi.
M., invece, in una società degli anni ’50 che l’avrebbe voluta madre a tutti i costi (perché quello era il suo ruolo prestabilito), non è mai riuscita ad averne. E di quanto abbia sofferto me ne ha parlato spesso.
La stessa cosa vale per quel 2 ottobre che, in ogni RSA, diventa festa. Non posso dimenticare S., che, alla consegna del diploma “Migliore nonna”, mi guarda stranita e mi dice: “Io non sono nonna”. Anche lei ha perso il suo unico figlio.
In un marasma linguistico, in cui ogni anziano è, per definizione, “nonno”, ci dimentichiamo che molti non lo sono.
E, alcuni di loro, non sono nemmeno diventati genitori. Alcune donne non sono mai diventate mamme. E questo può nascondere una sofferenza difficile da immaginare.
Il fatto di aver “massificato”, da un punto di vista linguistico e sociale, gli anziani come “nonni”, ci legittima a festeggiarli, in quel 2 ottobre, tutti indistintamente, come un’unica entità.
E ci dimostra come non solo sia sbagliato ma anche anacronistico rispetto ai cambiamenti demografici che avverranno, rendendoci tutti “nipoti acquisiti” di una società con sempre meno nonni.
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Nonne e nonni: che idee risvegliano queste parole?
Lavoro, ormai da qualche anno, nelle RSA. E in ogni Struttura, per riferirsi agli anziani (non tutti così anziani, a dire il vero), ho spesso sentito usare l’appellativo “nonni”. Usato in maniera dolce, certo; eppure, nel sentirlo pronunciare, c’è qualcosa che stride.
Nonno s. m. [lat. tardo nonnus «monaco; balio»]. – 1. Il padre del padre o della madre […] È usato talvolta come appellativo familiare nel rivolgersi a uomo molto anziano: si accomodi, nonno.
Nonna s. f. [lat. tardo nonna «monaca; balia»]. – 1. La madre del padre o della madre […] Spesso con tono di rimpianto e di tenerezza (i biscotti, il rosolio della n., o delle nostre nonne).
Definizioni tratte dal vocabolario Treccani.
Quello che mi stride maggiormente è che il termine “nonno/a” richiama precise caratteristiche vezzose: i nonni sono buoni, profumano di torta e di amore, di coccole e tenerezza (come riporta la definizione); e nella maggior parte dei casi, per chi ha avuto la fortuna di conoscerli, questo ritrae davvero le loro caratteristiche. Ma si tratta solo di una sfaccettatura che nasconde, nella vezzosità di un termine “buono”, alcuni inganni.
Svincolare la persona dalla sua identità
Il primo è quello di slegarli dalla loro identità. Chi sono stati in passato? Se sono nonni sono stati anche genitori, ma non solo. Hanno lavorato, hanno intrattenuto relazioni. Sono stati mogli e mariti, ma anche lavoratori instancabili, persone vive e piene di sogni.
Viene persa, con l’uso del termine, quell’unicità che è caratteristica fondante dell’identità di cui parla Goffman.
“Per identità personale intendo […] i segni positivi o piastrine di riconoscimento e la combinazione unica degli elementi della sua vita […]. L’identità personale dunque è legata alla supposizione che l’individuo possa differenziarsi da tutti gli altri e che intorno a questo mondo di differenziazione si possa collegare una storia continua di fatti sociali che costituiscono la sostanza appiccicosa a cui si attaccano tutti gli altri fatti biologici”
(1963, cit. in Mediascapes Journal, 2/2013 106, 2013, Nicola Pentecoste).
La figura del “nonno” si appiccica quindi all’idea di una identità unica che scalza tutte le altre, andando a oscurare i diversi ruoli che, nel corso della vita, sono stati rivestiti.
Il ruolo riguarda l’aspettativa di comportamento che la società si crea nei confronti di specifici gruppi di individui; quello dell’anziano, di conseguenza, è ridotto allo stereotipo di persona buona, mite, a cui si incolla un “tono di rimpianto”. Quello che si dice… un “bravo nonnino”!
Ridurre nonne e nonni a “un’entità unitaria”
Per chi è ancora relativamente giovane, essere “nonno/a” è visto come un evento distante; soprattutto nella società di oggi, in cui si diventa genitori sempre più tardi e di conseguenza, nonni, ancora dopo.
Più si sente qualcosa distante, nel tempo e nello spazio, più c’è la tendenza ad unificare quel qualcosa in una massa “informe”, quella che Le Bon definirebbe “un’entità unitaria”.
I nonni sono distanti nel tempo (diventiamo nonni sempre più tardi) e nello spazio (spesso sono pensati come relegati in una RSA o in casa, in solitudine).
Esiste, secondo alcuni studiosi, “la tendenza a trattare i membri di un gruppo estraneo come elementi indifferenziati di un’unica categoria. In queste situazioni si verifica, secondo Tajfel, una depersonalizzazione dei membri dell’altro gruppo” (Cfr. C. Volpato, Deumanizzazione. Come si legittima la violenza, Laterza, 2011, p. 23).
In sintesi ciò che non conosco, o mi sembra distante, lo unifico, lo massifico, spersonalizzandolo.
Non solo si spersonalizza, ma ci si allontana anche dalle emozioni. Se la massa è un tutt’uno si fa più fatica a percepirne le emozioni individuali. Si crea, per estremizzazione, quello che viene definito come uno dei bias dell’empatia di cui parla Bloom.
“Se la premura è guidata da pensieri sulla sofferenza di specifici individui, allora si genera una situazione perversa in cui la sofferenza di uno può contare più della sofferenza di mille. […] E Madre Teresa una volta disse che guardando alla massa, non sarebbe riuscita ad agire. Guardando il singolo sì.”
Difficoltà a relazionarsi con chi non corrisponde allo stereotipo
M. è una signora che vive nell’RSA in cui lavoro e, a volte, mi rendo conto che non mi è facile entrare in relazione con lei. O almeno, non tanto quanto lo è con altre signore anziane.
Quando ne parlo con una mia collega mi risponde: “Ci credo che fai fatica. Perché non rientra nello stereotipo della “nonnina” della Casa di Riposo”.
Ha ragione. M. ha un passato turbolento, un divorzio alle spalle e fuma ininterrottamente. Non indossa collane di perle. Non si cotona i capelli. Probabilmente la sua cucina non ha mai profumato di biscotti.
Lo stereotipo dell’ospite “nonno/a” della Casa di Riposo ha mietuto un’altra vittima. E stavolta sono io. Quando si attiva uno stereotipo “sostituiamo lo sforzo conoscitivo con un’idea precostituita, che nel migliore dei casi semplifica la realtà e nel peggiore la distorce” (
In questo caso lo stereotipo mi ha completamente distorto la realtà, impedendomi una relazione positiva.
L’atteggiamento utilizzato, che altro non è che un prodotto sociale, non fa che corrispondere alla necessità della mente umana, che ha bisogno di formarsi idee generali.
Le dimensioni dell’atteggiamento umano
Secondo Allport, l’atteggiamento è caratterizzato da tre dimensioni: cognitiva, affettiva e conativa.
La dimensione cognitiva “concerne ciò che si sa di un oggetto, indipendentemente dal fatto che tale conoscenza sia ancorata a realtà oggettive o invece a credenze che sono vere solo per un individuo o per un gruppo” (Albano R., Cavalli A., Piccheri A., Sciarrone R., 2004, p. 74).
La dimensione affettiva ha invece a che fare con le emozioni che quel determinato oggetto/persona mi evoca.
La dimensione conativa, infine, riguarda il comportamento che andrò a tenere nei confronti dell’oggetto.
Calando nel concreto ecco ciò che è successo:
Ho avuto difficoltà ad entrare in relazione con M. (dimensione affettiva), perché credo che non corrisponda allo stereotipo della nonna “dolce” (dimensione cognitiva) e ho adottato un modus operandi meno empatico (dimensione conativa)
“Io non sono nonna!”
Ho in mente una bellissima festa in una delle Strutture in cui ho lavorato. L., una delle anziane a cui ero più affezionata, tiene in mano un foglio decorato per festeggiare la festa della mamma. Il cartello ha dei disegni bellissimi e la festa è riuscitissima. Ma L. ha perso suo figlio da pochi mesi.
Dall’altra parte della sala c’è E., che di figli ne ha due; ma immagino che spesso il suo pensiero vada a quello che anche lei ha perso. Soprattutto oggi.
M., invece, in una società degli anni ’50 che l’avrebbe voluta madre a tutti i costi (perché quello era il suo ruolo prestabilito), non è mai riuscita ad averne. E di quanto abbia sofferto me ne ha parlato spesso.
La stessa cosa vale per quel 2 ottobre che, in ogni RSA, diventa festa. Non posso dimenticare S., che, alla consegna del diploma “Migliore nonna”, mi guarda stranita e mi dice: “Io non sono nonna”. Anche lei ha perso il suo unico figlio.
In un marasma linguistico, in cui ogni anziano è, per definizione, “nonno”, ci dimentichiamo che molti non lo sono.
E, alcuni di loro, non sono nemmeno diventati genitori. Alcune donne non sono mai diventate mamme. E questo può nascondere una sofferenza difficile da immaginare.
Il fatto di aver “massificato”, da un punto di vista linguistico e sociale, gli anziani come “nonni”, ci legittima a festeggiarli, in quel 2 ottobre, tutti indistintamente, come un’unica entità.
E ci dimostra come non solo sia sbagliato ma anche anacronistico rispetto ai cambiamenti demografici che avverranno, rendendoci tutti “nipoti acquisiti” di una società con sempre meno nonni.