Con la Legge 219/17 su “Norme in materia di consenso informato e di Disposizioni Anticipate di Trattamento” (DAT) si intende riconoscere la capacità e il bisogno basilare di ogni persona di esprimere un proprio progetto di esistenza, in qualunque fase della sua vita, anche e soprattutto quando si trovi in una condizione di estrema fragilità l vuoto.
“Voglio morire”: lettura e implicazioni del desiderio di morte nell’anziano
Di fronte ad una malattia inguaribile in fase avanzata, molti anziani possono sperare che la morte venga al più presto. Questo desiderio possono esprimerlo direttamente ai medici o all’equipe sanitaria di cura, chiedendo loro di accelerare la morte. Tuttavia le richieste di accelerare la morte non riflettono abitualmente un persistente desiderio di eutanasia o una reale intenzione di porre fine alla propria vita, ma hanno invece altri importanti significati che esigono un’adeguata interpretazione.
Un anziano che ci chiede “aiutatemi a morire” in certi casi può voler dire: “Eliminate in ogni modo il mio dolore”, oppure la sensazione, molto forte in un’epoca che collega strettamente il senso della dignità al ruolo e alle funzioni, che la vita non abbia più alcun senso.
In altri casi, la richiesta di morire può derivare dalla preoccupazione di essere di peso, di gravare sulla famiglia e sulla società. L’anziano può sentire la propria fragilità e dipendenza dagli altri come non tollerabile.
Altre volte, la richiesta di morire può esprimere il sentimento di autosvalutazione che afferra un vecchio malato quando, soprattutto di fronte a situazioni degenerative, vede il proprio corpo affievolirsi, deteriorarsi, alterarsi. Infine, la richiesta può semplicemente voler dire “Sono ancora importante per voi?”
Non tutti desideri di morire contengono anche il desiderio di accelerare la morte. C’è una differenza tra Wish to die’ (desiderio di morire) – un’aspirazione diretta verso un’immaginazione che il morire potrebbe arrivare e Will to die (volontà di morire) – un’aspirazione diretta verso un’azione, l’azione di finire la propria vita.
Possono coesistere desideri o idee anche contraddittorie. Fattori psico-sociali e spirituali sembrano avere un ruolo chiave nello sviluppo e nella persistenza di un desiderio di morte, maggiore rispetto a sofferenza di natura fisica.
Il desiderio di morire dell’anziano può avere molteplici ragioni e può esprimere in realtà il desiderio di lasciare che la morte ponga fine a una sofferenza troppo grande, alleggerire gli altri dal peso di se stesso, preservare uno spazio di autodeterminazione negli ultimi momenti di vita, porre fine ad una vita che non ha più un valore per la persona, oppure il desiderio di andare in un’ altra realtà, di essere un esempio per gli altri, o di accorciare il processo che conduce alla morte senza dover più aspettare. A volte, le narrazioni delle persone in fase terminale di vita possono avere la funzione di richiamare l’attenzione degli altri o di aprire finalmente uno spazio per poter agire (agency).
Le relazioni sociali possono influire su un desiderio di morte relativamente a cosa le persone permettono a sé stesse di desiderare (aspettative dei familiari, sentirsi di essere un peso per gli latri, terminalità come stigma sociale), cosa viene permesso loro di esprimere, come un desiderio di morte viene capito e interpretato dalle persone attorno (es. ambivalenza).
Un desiderio di morte è caratterizzato da un processo estremamente complesso e dinamico di confronto con la propria situazione alla fine della vita. Desideri di malati riguardanti il proprio morire non sono spesso né statici né semplicemente classificabili in un “desiderio di vivere” o “desiderio di morire”. Invece questi desideri sono piuttosto dinamici e composti da varie affermazioni diverse (anche contraddittorie) che vengono dal paziente continuamente valutati l‘uno contro l‘altro. Un desiderio di morte non implica necessariamente un desiderio di accelerare la morte, ma possono esistere diversi gradi di concretezza ipotetico e diretto verso il futuro, pensieri di voler accelerare la morte, richiesta di aiuto nel morire, atti concreti di accelerare la morte (Ohnsorge, K. 2015).
Proprio per la complessità di tale richiesta (desiderio di morte, aiuto nel morire), e per la natura sistemica dell’individuo, immerso in una rete di relazioni e in un contesto sociale, ecco che diventano inevitabili alcune riflessioni. Chi è il “soggetto” che richiede di essere aiutato a morire? È la persona o l’ambiente che lo circonda? Qual è “l’oggetto” della richiesta? È il diritto a decidere autonomamente della propria morte o piuttosto il diritto ad essere assistiti e accuditi fino alla fine senza sentirsi di peso e senza vergognarsene? Per chi la sofferenza è diventata insopportabile?
L’etica dell’accompagnamento alla fine della vita comporta in primis la capacità di “decodificare” la richiesta di essere aiutati a morire, favorendo un concetto delle cure dove chi assiste impara a “camminare accanto” al malato terminale, senza la pretesa di imporgli la direzione, ma lasciandolo libero di indicare lui la via, con l’attenzione prioritaria a far sì che questo processo avvenga all’interno di un contesto relazionale fatto di accoglienza. È questa la condizione di un morire umanamente degno. Di fronte alla richiesta di essere aiutati a morire, l’approccio che ispira l’etica dell’accompagnamento è innanzi tutto quello dell’ascolto.
Di fronte all’anziano che cerca di morire, possono verificarsi quindi più situazioni: una dove la richiesta di morire è esplicita, un’altra in cui invece non vi è un’intenzione conclamata ma si verificano una serie di comportamenti che conducono verso l’annientamento della vita (erosione suicidaria).
Ben diversa è la questione del dissenso informato e della rinuncia / rifiuto consapevole ai trattamenti sanitari, così come una pianificazione consapevole e condivisa delle volontà di cure, descritta e regolamentata dall’ultima Legge 219 del 2017.
Il diritto all’autodeterminazione, tra volontà e libertà di scelta: il riferimento normativo e le implicazioni
La Legge 219/17 su “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” ha specifiche finalità, obiettivi e implicazioni.
Il contenuto e i principi della Legge 219/2017 confluiscono nel riconoscimento inequivocabile della persona e del paziente come coprotagonista dei trattamenti sanitari a cui è – o potrebbe in futuro – essere sottoposto a causa dell’insorgere di una malattia.
Se diverse possono essere le valutazioni su come la legge affronti temi cruciali – quali salute, cura dignità e rispetto della persona, fine vita – è inequivocabile che la legge costituisca il riconoscimento della capacità e del bisogno basilare di ogni persona di esprimere un proprio progetto di esistenza, in qualunque fase della sua vita, anche e soprattutto quando si trovi in una condizione di estrema fragilità (OPL, 2019).
La Legge 219 ribadisce la centralità del consenso informato e approfondisce alcune questioni importanti: il riconoscimento di un ruolo attivo del paziente rispetto al rapporto con i sanitari, la riduzione delle asimmetrie informative attraverso una piena attuazione del principio del consenso informato, e l’effettività del concetto di cittadinanza e del principio di autodeterminazione.
Oltre a tali principi la legge fornisce una serie di indicazioni operative che vanno oltre la qualità tecnica delle prestazioni e che si sostanziano in una ricerca continua, ragionata e condivisa di una relazione terapeutica autentica e consapevole tra il medico e la persona del paziente.
La novità, cioè il nuovo compito introdotto dalla legge, presuppone un confronto sistematico col paziente, come peraltro già dovrebbe essere in ogni rapporto di cura, per fornirgli le informazioni sulle sue condizioni cliniche e supportarlo ad affrontare lo stress conseguente; con il compito aggiuntivo di aiutarlo nel manifestare le sue intenzioni rispetto ai modi in cui intende affrontare la sua sofferenza e la sua morte, raccogliendone le sue volontà (AIP, 2018).
La meta resta quella di considerare la persona come fine e non già come mezzo e di vedere nella dignità il segno distintivo della comune appartenenza all’umanità, di un reciproco riconoscimento di quest’ultima e di una esigenza di tutela della persona in quanto tale.
La volontà espressa dalla persona in forma anticipata impegna direttamente la responsabilità di ogni team di cura e il suo non rispetto configura un atto lesivo della dignità della stessa, moralmente e disciplinarmente illecito (AIP, 2018).
Il consenso (o dissenso) informato
Il consenso informato è l’atto attraverso il quale due attori del percorso di cura: il paziente e il professionista sanitario, dialogano in merito ad azioni che si dovrebbero effettuare.
Si articola in due momenti distinti: l’informazione con una comunicazione bidirezionale attraverso la quale il sanitario fornisce al paziente notizie sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e/o della mancata terapia/atto sanitario, al fine di promuoverne una scelta autonoma e consapevole; e l’esercizio del diritto del paziente all’autodeterminazione con l’assenso o il dissenso alla proposta (OPL, 2019).
Tale processo riguarda anche la persona non capace, che deve poter avere una comunicazione in forma proporzionata al livello della sua capacità, in modo che possa formarsi un’opinione sull’atto sanitario. La scelta dovrà essere attuata al termine del processo informativo/comunicativo e poter avere uno spazio di tempo adeguato per elaborarne la risposta al fine che sia rispondente al contenuto di vita del paziente, al suo concetto di dignità e di esistenza.
Le modalità con le quali si possono acquisire un consenso informato sono diverse: cartacee, videoregistrazioni, e in queste devono essere registrati i termini dell’informazione sui mezzi di cura o di diagnostica affrontati nel dialogo, la loro specifica accettazione o il loro rifiuto. Bisognerebbe indicare anche gli strumenti attraverso i quali si è effettuata l’informazione al paziente: simulazione, video, esperienza, che consente di verificare lo stato psicoemotivo e la comprensione soggettiva di questi.
L’informazione deve essere “completa” per permettere alla persona di esercitare pienamente la sua autodeterminazione e il primo comma della legge specifica che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata” fatti salvi i casi di legge. Il consenso può sempre essere revocato dalla persona con la possibilità di chiedere l’interruzione di trattamenti medici già iniziati, ma il rifiuto non deve mai essere causa o motivo di abbandono.
Al malato devono essere comunque garantite le cure palliative necessarie alla dignità del morire (art. 1, comma 5) e la persona non può mai pretendere ed esigere dal medico trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali (art.1, comma 6).
Dall’art. 1 comma 5 della nuova legge, la nutrizione e l’alimentazione artificiali sono confermate misure terapeutiche e non misure di sostegno di base, con la conseguenza che anche questi trattamenti (sanitari) sono legittimi solo con il consenso della persona e nel caso in cui essi non trasfigurino nell’accanimento o nella futilità terapeutica.
Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT)
Le Disposizioni anticipate di trattamento sono un documento che raccoglie le disposizioni di una persona sulla sua volontà di sottoporsi o non sottoporsi a determinati trattamenti sanitari in caso di malattia grave o terminale, coma vegetativo o quando non sia più in grado di intendere e volere. Redigendo le DAT in modo volontario, cosciente e dopo un’adeguata riflessione, si forniscono utili indicazioni ai propri familiari e ai sanitari su come si desidera essere trattati in questi casi.
La possibilità delle DAT implica un livello di informazione sulle possibilità sanitarie oggi disponibili rispetto a ciò che potrebbe accadere domani e che il cittadino non desidera o desidera attuare. Questa volontà deve essere espressa sui mezzi di cura o su strumenti di diagnosi attuali, e non su quelli che potrebbero essere disponibili nel momento in cui si attueranno le DAT.
Ciò implica che sarebbe auspicabile per il cittadino riconoscere le condizioni di salute che ritiene incompatibili con la propria dignità ed esistenza al fine di tracciarle nelle proprie DAT (OPL, 2019).
Le DAT riguardano il futuro e devono essere poste in atto nel rispetto delle convinzioni, delle preferenze e dei desideri del dichiarante. Idealmente, rappresentano il culmine di una documentata pianificazione delle cure condivisa con il medico e/o con altre persone significative.” (SIAARTI. 2017).
Le DAT sono redatte dal cittadino in piena autonomia e depositate presso terzi – Comune o Notaio – e potrebbero non essere disponibili quando il cittadino presenta una condizione di salute in cui non può decidere.
Questo limite dovrà essere superato con una banca dati. Per ora sarà utile informare il proprio MMG e avere a disposizione una copia dell’atto depositato nella normale quotidianità.
Il medico è tenuto al rispetto delle DAT potendole disattendere in tutto o in parte, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla situazione clinica attuale del paziente, ovvero nell’ipotesi in cui sussistano terapie non disponibili o non prevedibili all’atto della loro redazione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento della condizione clinica della persona (art. 4, comma 5).
Pianificazione Condivisa delle Cure
Mentre le DAT sono espresse da una persona sana rispetto ad eventi possibili ma non probabili, la pianificazione condivisa delle cure (PCC) riguarda persone con una malattia cronica relativamente a situazioni molto più concrete e prevedibili.
L’art. 5 affronta il tema della pianificazione condivisa della cura, la quale prevede che la persona affetta da una patologia cronica e invalidante o con prognosi infausta (comma 1), informata sull’evoluzione della stessa (comma 2), può esprimere la sua volontà riguardo a trattamenti medici realisticamente attuabili, compresa l’eventuale indicazione di un fiduciario (comma 3) e che i suoi desideri possano essere periodicamente aggiornati in relazione al progressivo evolversi della malattia su richiesta del paziente o su suggerimento del medico (comma 4).
La PCC coinvolge il paziente, il team di cura e i suoi familiari e deve essere tracciata nella cartella
clinica e nei documenti – referti, format specifici – disponibili sia per il malato sia per i sanitari, anche quelli non appartenenti al team di cura (OPL, 2019).
Dove ti porto?
Accompagnare la persona anziana alla fine della vita
di Elisa Mencacci
“Dove ti porto? Una domanda bellissima, che riporta in primo piano i due grandi protagonisti: colui che accompagna e colui che viene accompagnato, in una danza che diviene costruzione attiva e gioco di reciprocità, responsabilità, scambio.”
Colui che accompagna è l’operatore, che avrà il compito incredibile di portare il morente.
La Legge 219/17 e le Cure palliative
La Legge 219/17 afferma, nell’articolo 2, che ‘il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38.“ (comma 1). Rimandando alla legge 38, questa nuova legge si ribadisce la priorità alla terapia del dolore nell’ambito delle cure di fine vita e l’esplicita assunzione della sedazione come parte integrante delle cure palliative (comma 2, art.2).
La legge conferma ulteriormente alcuni principi già regolamentati dalla precedente Legge 38/2010 forse sottolineando, a distanza di alcuni anni, come la stessa non venga attuata in maniera omogenea nel territorio italiano (continuità rete, domiciliarità, formazione del personale ancora a macchia di leopardo, scarso accesso alle cure palliative per malati non oncologici e anziani).
Di fronte ad una sintomatologia sempre più difficile da trattare e a volte refrattaria alle terapie ,e di una prognosi infausta, con le relative e complesse implicazioni spirituali e psicosociali, può essere difficile comprendere quali azioni sanitarie possano collocarsi nell’eccesso dei trattamenti (impropriamente detto accanimento) o nella futilità terapeutica e quali invece possano avere un’utilità per le condizioni del paziente.
I pilastri dell’approccio palliativo devono comunque sempre sostenere l’efficiente ed efficace controllo della sofferenza vissuta dalla persona e dai suoi familiari; la comunicazione e la Pianificazione condivisa delle cure-, in merito agli obiettivi di cura, i trattamenti, i luoghi e i supporti.
Il malato secondo la Legge 219/2017 può infatti decidere quale è il livello di assistenza per lui perseguibile quando la sua condizione cognitiva e la sua competenza decisionale sono adeguate, anche rinunciando o rifiutando i trattamenti o gli accertamenti sanitari proposti, dopo un adeguato percorso di informazione ed elaborazione con il team curante di cui l’équipe di cure palliative deve farne parte (AIP, 2019).
Tra i fattori di rischio negli anziani sembra avere un ruolo il tedio di vivere, uno stato d’animo che esprime stanchezza esistenziale, mancanza di prospettive future degne d’interesse, e sentimenti di noia per una routine che si ritiene inutile e faticosa. Questi vissuti emergono frequenti nei colloqui con anziani, soprattutto di sesso maschile e con una vita passata di soddisfazioni e riconoscimenti. È stato visto come la presenza di una fede religiosa possa però risultare di grande supporto in tali circostanze (SIGG, 2018).
Indipendentemente dal tipo specifico di disturbo mentale, la mancanza di speranze per il futuro (hopelessness) veniva identificata come la condizione psicologica più importante osservata in pazienti con una varietà di differenti condizioni psichiatriche.
L’hopelessness era associata a ideazione e comportamento suicidari (Unützer J. et al., 2006). La mancanza di speranza è stata identificata anche come la variabile più importante nei pochi casi di suicidio osservati in pazienti con diagnosi di demenza.
L’assenza di speranze può essere particolarmente rilevante nel campo delle cure primarie, rendendo i pazienti anziani completamente passivi nella loro esperienza di malattia e quindi poco o nulla motivati alle cure prescritte (AIP, 2017).
Un’altra condizione di grave disagio esistenziale è rappresentata dalla convivenza con una persona seriamente ammalata e/o disabile. In età avanzata questa situazione può degenerare in eventi definibili come di mercy killing (uccisione compassionevole), spesso seguiti dal suicidio dell’individuo che ha soppresso la persona che accudiva. La maggior parte degli omicidi-suicidi degli anziani avviene in ambiente domestico, e la malattia di Alzheimer è spesso all’origine di tali episodi, in ispecie quando a esserne colpita è la compagna di una vita. (AIP, 2017).
La severità dello stress relativo alla condizione di caregiver di un paziente con demenza sembra essere un elemento a cui porre elevata attenzione: il carico assistenziale, lo struggimento emozionale, le precarie condizioni economiche, la mancata alternanza nel caregiving dell’ammalata, la lontananza die figli o la loro assenza, sono tutte condizioni che, unitamente all’approcciarsi della fine naturale della vita, sono alla base della decisione fatale.
Il rischio di suicidio può infine aumentare anche quando si sia forzati a lasciar libera l’abitazione abituale di anni ed essere costretti a risiedere in un nuovo ambiente dove non esistono reti di conoscenti né familiarità con i servizi di base. Anche l’imminenza di un trasferimento (forzato) in una residenza per anziani è stato riportato come un fattore precipitante il comportamento suicidario fatale.
Purtroppo, ancora nessuno dei fattori di rischio oggi noti ha potere predittivo sufficiente per consentire l’identificazione di una persona a rischio di suicidio (AIP, 2017).
La prospettiva relazionale: la persona non sceglie da sola
La natura davvero innovativa della legge può essere rinvenuta sulla rilevanza assegnata ai percorsi relazionali attraverso i quali la persona -malata o sana- può arrivare a decidere sui trattamenti da seguire o da rifiutare. Si tratta di percorsi che non “costringono” la persona ad assumere decisioni scomode nella sfera del privato, con il rischio di aumentare il senso di solitudine e incertezza, ma che riguardano tutta la piccola comunità all’interno della quale la persona è inserita, e quindi i familiari, le persone intime e naturalmente l’équipe assistenziale e, in primo luogo, il medico…
CONTINUA…
Torna alla prima parte dell’articolo
“La depressione nell’anziano“
Con la Legge 219/17 su “Norme in materia di consenso informato e di Disposizioni Anticipate di Trattamento” (DAT) si intende riconoscere la capacità e il bisogno basilare di ogni persona di esprimere un proprio progetto di esistenza, in qualunque fase della sua vita, anche e soprattutto quando si trovi in una condizione di estrema fragilità l vuoto.
“Voglio morire”: lettura e implicazioni del desiderio di morte nell’anziano
Di fronte ad una malattia inguaribile in fase avanzata, molti anziani possono sperare che la morte venga al più presto. Questo desiderio possono esprimerlo direttamente ai medici o all’equipe sanitaria di cura, chiedendo loro di accelerare la morte. Tuttavia le richieste di accelerare la morte non riflettono abitualmente un persistente desiderio di eutanasia o una reale intenzione di porre fine alla propria vita, ma hanno invece altri importanti significati che esigono un’adeguata interpretazione.
Un anziano che ci chiede “aiutatemi a morire” in certi casi può voler dire: “Eliminate in ogni modo il mio dolore”, oppure la sensazione, molto forte in un’epoca che collega strettamente il senso della dignità al ruolo e alle funzioni, che la vita non abbia più alcun senso.
In altri casi, la richiesta di morire può derivare dalla preoccupazione di essere di peso, di gravare sulla famiglia e sulla società. L’anziano può sentire la propria fragilità e dipendenza dagli altri come non tollerabile.
Altre volte, la richiesta di morire può esprimere il sentimento di autosvalutazione che afferra un vecchio malato quando, soprattutto di fronte a situazioni degenerative, vede il proprio corpo affievolirsi, deteriorarsi, alterarsi. Infine, la richiesta può semplicemente voler dire “Sono ancora importante per voi?”
Non tutti desideri di morire contengono anche il desiderio di accelerare la morte. C’è una differenza tra Wish to die’ (desiderio di morire) – un’aspirazione diretta verso un’immaginazione che il morire potrebbe arrivare e Will to die (volontà di morire) – un’aspirazione diretta verso un’azione, l’azione di finire la propria vita.
Possono coesistere desideri o idee anche contraddittorie. Fattori psico-sociali e spirituali sembrano avere un ruolo chiave nello sviluppo e nella persistenza di un desiderio di morte, maggiore rispetto a sofferenza di natura fisica.
Il desiderio di morire dell’anziano può avere molteplici ragioni e può esprimere in realtà il desiderio di lasciare che la morte ponga fine a una sofferenza troppo grande, alleggerire gli altri dal peso di se stesso, preservare uno spazio di autodeterminazione negli ultimi momenti di vita, porre fine ad una vita che non ha più un valore per la persona, oppure il desiderio di andare in un’ altra realtà, di essere un esempio per gli altri, o di accorciare il processo che conduce alla morte senza dover più aspettare. A volte, le narrazioni delle persone in fase terminale di vita possono avere la funzione di richiamare l’attenzione degli altri o di aprire finalmente uno spazio per poter agire (agency).
Le relazioni sociali possono influire su un desiderio di morte relativamente a cosa le persone permettono a sé stesse di desiderare (aspettative dei familiari, sentirsi di essere un peso per gli latri, terminalità come stigma sociale), cosa viene permesso loro di esprimere, come un desiderio di morte viene capito e interpretato dalle persone attorno (es. ambivalenza).
Un desiderio di morte è caratterizzato da un processo estremamente complesso e dinamico di confronto con la propria situazione alla fine della vita. Desideri di malati riguardanti il proprio morire non sono spesso né statici né semplicemente classificabili in un “desiderio di vivere” o “desiderio di morire”. Invece questi desideri sono piuttosto dinamici e composti da varie affermazioni diverse (anche contraddittorie) che vengono dal paziente continuamente valutati l‘uno contro l‘altro. Un desiderio di morte non implica necessariamente un desiderio di accelerare la morte, ma possono esistere diversi gradi di concretezza ipotetico e diretto verso il futuro, pensieri di voler accelerare la morte, richiesta di aiuto nel morire, atti concreti di accelerare la morte (Ohnsorge, K. 2015).
Proprio per la complessità di tale richiesta (desiderio di morte, aiuto nel morire), e per la natura sistemica dell’individuo, immerso in una rete di relazioni e in un contesto sociale, ecco che diventano inevitabili alcune riflessioni. Chi è il “soggetto” che richiede di essere aiutato a morire? È la persona o l’ambiente che lo circonda? Qual è “l’oggetto” della richiesta? È il diritto a decidere autonomamente della propria morte o piuttosto il diritto ad essere assistiti e accuditi fino alla fine senza sentirsi di peso e senza vergognarsene? Per chi la sofferenza è diventata insopportabile?
L’etica dell’accompagnamento alla fine della vita comporta in primis la capacità di “decodificare” la richiesta di essere aiutati a morire, favorendo un concetto delle cure dove chi assiste impara a “camminare accanto” al malato terminale, senza la pretesa di imporgli la direzione, ma lasciandolo libero di indicare lui la via, con l’attenzione prioritaria a far sì che questo processo avvenga all’interno di un contesto relazionale fatto di accoglienza. È questa la condizione di un morire umanamente degno. Di fronte alla richiesta di essere aiutati a morire, l’approccio che ispira l’etica dell’accompagnamento è innanzi tutto quello dell’ascolto.
Di fronte all’anziano che cerca di morire, possono verificarsi quindi più situazioni: una dove la richiesta di morire è esplicita, un’altra in cui invece non vi è un’intenzione conclamata ma si verificano una serie di comportamenti che conducono verso l’annientamento della vita (erosione suicidaria).
Ben diversa è la questione del dissenso informato e della rinuncia / rifiuto consapevole ai trattamenti sanitari, così come una pianificazione consapevole e condivisa delle volontà di cure, descritta e regolamentata dall’ultima Legge 219 del 2017.
Il diritto all’autodeterminazione, tra volontà e libertà di scelta: il riferimento normativo e le implicazioni
La Legge 219/17 su “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” ha specifiche finalità, obiettivi e implicazioni.
Il contenuto e i principi della Legge 219/2017 confluiscono nel riconoscimento inequivocabile della persona e del paziente come coprotagonista dei trattamenti sanitari a cui è – o potrebbe in futuro – essere sottoposto a causa dell’insorgere di una malattia.
Se diverse possono essere le valutazioni su come la legge affronti temi cruciali – quali salute, cura dignità e rispetto della persona, fine vita – è inequivocabile che la legge costituisca il riconoscimento della capacità e del bisogno basilare di ogni persona di esprimere un proprio progetto di esistenza, in qualunque fase della sua vita, anche e soprattutto quando si trovi in una condizione di estrema fragilità (OPL, 2019).
La Legge 219 ribadisce la centralità del consenso informato e approfondisce alcune questioni importanti: il riconoscimento di un ruolo attivo del paziente rispetto al rapporto con i sanitari, la riduzione delle asimmetrie informative attraverso una piena attuazione del principio del consenso informato, e l’effettività del concetto di cittadinanza e del principio di autodeterminazione.
Oltre a tali principi la legge fornisce una serie di indicazioni operative che vanno oltre la qualità tecnica delle prestazioni e che si sostanziano in una ricerca continua, ragionata e condivisa di una relazione terapeutica autentica e consapevole tra il medico e la persona del paziente.
La novità, cioè il nuovo compito introdotto dalla legge, presuppone un confronto sistematico col paziente, come peraltro già dovrebbe essere in ogni rapporto di cura, per fornirgli le informazioni sulle sue condizioni cliniche e supportarlo ad affrontare lo stress conseguente; con il compito aggiuntivo di aiutarlo nel manifestare le sue intenzioni rispetto ai modi in cui intende affrontare la sua sofferenza e la sua morte, raccogliendone le sue volontà (AIP, 2018).
La meta resta quella di considerare la persona come fine e non già come mezzo e di vedere nella dignità il segno distintivo della comune appartenenza all’umanità, di un reciproco riconoscimento di quest’ultima e di una esigenza di tutela della persona in quanto tale.
La volontà espressa dalla persona in forma anticipata impegna direttamente la responsabilità di ogni team di cura e il suo non rispetto configura un atto lesivo della dignità della stessa, moralmente e disciplinarmente illecito (AIP, 2018).
Il consenso (o dissenso) informato
Il consenso informato è l’atto attraverso il quale due attori del percorso di cura: il paziente e il professionista sanitario, dialogano in merito ad azioni che si dovrebbero effettuare.
Si articola in due momenti distinti: l’informazione con una comunicazione bidirezionale attraverso la quale il sanitario fornisce al paziente notizie sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e/o della mancata terapia/atto sanitario, al fine di promuoverne una scelta autonoma e consapevole; e l’esercizio del diritto del paziente all’autodeterminazione con l’assenso o il dissenso alla proposta (OPL, 2019).
Tale processo riguarda anche la persona non capace, che deve poter avere una comunicazione in forma proporzionata al livello della sua capacità, in modo che possa formarsi un’opinione sull’atto sanitario. La scelta dovrà essere attuata al termine del processo informativo/comunicativo e poter avere uno spazio di tempo adeguato per elaborarne la risposta al fine che sia rispondente al contenuto di vita del paziente, al suo concetto di dignità e di esistenza.
Le modalità con le quali si possono acquisire un consenso informato sono diverse: cartacee, videoregistrazioni, e in queste devono essere registrati i termini dell’informazione sui mezzi di cura o di diagnostica affrontati nel dialogo, la loro specifica accettazione o il loro rifiuto. Bisognerebbe indicare anche gli strumenti attraverso i quali si è effettuata l’informazione al paziente: simulazione, video, esperienza, che consente di verificare lo stato psicoemotivo e la comprensione soggettiva di questi.
L’informazione deve essere “completa” per permettere alla persona di esercitare pienamente la sua autodeterminazione e il primo comma della legge specifica che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata” fatti salvi i casi di legge. Il consenso può sempre essere revocato dalla persona con la possibilità di chiedere l’interruzione di trattamenti medici già iniziati, ma il rifiuto non deve mai essere causa o motivo di abbandono.
Al malato devono essere comunque garantite le cure palliative necessarie alla dignità del morire (art. 1, comma 5) e la persona non può mai pretendere ed esigere dal medico trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali (art.1, comma 6).
Dall’art. 1 comma 5 della nuova legge, la nutrizione e l’alimentazione artificiali sono confermate misure terapeutiche e non misure di sostegno di base, con la conseguenza che anche questi trattamenti (sanitari) sono legittimi solo con il consenso della persona e nel caso in cui essi non trasfigurino nell’accanimento o nella futilità terapeutica.
Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT)
Le Disposizioni anticipate di trattamento sono un documento che raccoglie le disposizioni di una persona sulla sua volontà di sottoporsi o non sottoporsi a determinati trattamenti sanitari in caso di malattia grave o terminale, coma vegetativo o quando non sia più in grado di intendere e volere. Redigendo le DAT in modo volontario, cosciente e dopo un’adeguata riflessione, si forniscono utili indicazioni ai propri familiari e ai sanitari su come si desidera essere trattati in questi casi.
La possibilità delle DAT implica un livello di informazione sulle possibilità sanitarie oggi disponibili rispetto a ciò che potrebbe accadere domani e che il cittadino non desidera o desidera attuare. Questa volontà deve essere espressa sui mezzi di cura o su strumenti di diagnosi attuali, e non su quelli che potrebbero essere disponibili nel momento in cui si attueranno le DAT.
Ciò implica che sarebbe auspicabile per il cittadino riconoscere le condizioni di salute che ritiene incompatibili con la propria dignità ed esistenza al fine di tracciarle nelle proprie DAT (OPL, 2019).
Le DAT riguardano il futuro e devono essere poste in atto nel rispetto delle convinzioni, delle preferenze e dei desideri del dichiarante. Idealmente, rappresentano il culmine di una documentata pianificazione delle cure condivisa con il medico e/o con altre persone significative.” (SIAARTI. 2017).
Le DAT sono redatte dal cittadino in piena autonomia e depositate presso terzi – Comune o Notaio – e potrebbero non essere disponibili quando il cittadino presenta una condizione di salute in cui non può decidere.
Questo limite dovrà essere superato con una banca dati. Per ora sarà utile informare il proprio MMG e avere a disposizione una copia dell’atto depositato nella normale quotidianità.
Il medico è tenuto al rispetto delle DAT potendole disattendere in tutto o in parte, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla situazione clinica attuale del paziente, ovvero nell’ipotesi in cui sussistano terapie non disponibili o non prevedibili all’atto della loro redazione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento della condizione clinica della persona (art. 4, comma 5).
Pianificazione Condivisa delle Cure
Mentre le DAT sono espresse da una persona sana rispetto ad eventi possibili ma non probabili, la pianificazione condivisa delle cure (PCC) riguarda persone con una malattia cronica relativamente a situazioni molto più concrete e prevedibili.
L’art. 5 affronta il tema della pianificazione condivisa della cura, la quale prevede che la persona affetta da una patologia cronica e invalidante o con prognosi infausta (comma 1), informata sull’evoluzione della stessa (comma 2), può esprimere la sua volontà riguardo a trattamenti medici realisticamente attuabili, compresa l’eventuale indicazione di un fiduciario (comma 3) e che i suoi desideri possano essere periodicamente aggiornati in relazione al progressivo evolversi della malattia su richiesta del paziente o su suggerimento del medico (comma 4).
La PCC coinvolge il paziente, il team di cura e i suoi familiari e deve essere tracciata nella cartella
clinica e nei documenti – referti, format specifici – disponibili sia per il malato sia per i sanitari, anche quelli non appartenenti al team di cura (OPL, 2019).
Dove ti porto?
Accompagnare la persona anziana alla fine della vita
di Elisa Mencacci
“Dove ti porto? Una domanda bellissima, che riporta in primo piano i due grandi protagonisti: colui che accompagna e colui che viene accompagnato, in una danza che diviene costruzione attiva e gioco di reciprocità, responsabilità, scambio.”
Colui che accompagna è l’operatore, che avrà il compito incredibile di portare il morente.
La Legge 219/17 e le Cure palliative
La Legge 219/17 afferma, nell’articolo 2, che ‘il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38.“ (comma 1). Rimandando alla legge 38, questa nuova legge si ribadisce la priorità alla terapia del dolore nell’ambito delle cure di fine vita e l’esplicita assunzione della sedazione come parte integrante delle cure palliative (comma 2, art.2).
La legge conferma ulteriormente alcuni principi già regolamentati dalla precedente Legge 38/2010 forse sottolineando, a distanza di alcuni anni, come la stessa non venga attuata in maniera omogenea nel territorio italiano (continuità rete, domiciliarità, formazione del personale ancora a macchia di leopardo, scarso accesso alle cure palliative per malati non oncologici e anziani).
Di fronte ad una sintomatologia sempre più difficile da trattare e a volte refrattaria alle terapie ,e di una prognosi infausta, con le relative e complesse implicazioni spirituali e psicosociali, può essere difficile comprendere quali azioni sanitarie possano collocarsi nell’eccesso dei trattamenti (impropriamente detto accanimento) o nella futilità terapeutica e quali invece possano avere un’utilità per le condizioni del paziente.
I pilastri dell’approccio palliativo devono comunque sempre sostenere l’efficiente ed efficace controllo della sofferenza vissuta dalla persona e dai suoi familiari; la comunicazione e la Pianificazione condivisa delle cure-, in merito agli obiettivi di cura, i trattamenti, i luoghi e i supporti.
Il malato secondo la Legge 219/2017 può infatti decidere quale è il livello di assistenza per lui perseguibile quando la sua condizione cognitiva e la sua competenza decisionale sono adeguate, anche rinunciando o rifiutando i trattamenti o gli accertamenti sanitari proposti, dopo un adeguato percorso di informazione ed elaborazione con il team curante di cui l’équipe di cure palliative deve farne parte (AIP, 2019).
Tra i fattori di rischio negli anziani sembra avere un ruolo il tedio di vivere, uno stato d’animo che esprime stanchezza esistenziale, mancanza di prospettive future degne d’interesse, e sentimenti di noia per una routine che si ritiene inutile e faticosa. Questi vissuti emergono frequenti nei colloqui con anziani, soprattutto di sesso maschile e con una vita passata di soddisfazioni e riconoscimenti. È stato visto come la presenza di una fede religiosa possa però risultare di grande supporto in tali circostanze (SIGG, 2018).
Indipendentemente dal tipo specifico di disturbo mentale, la mancanza di speranze per il futuro (hopelessness) veniva identificata come la condizione psicologica più importante osservata in pazienti con una varietà di differenti condizioni psichiatriche.
L’hopelessness era associata a ideazione e comportamento suicidari (Unützer J. et al., 2006). La mancanza di speranza è stata identificata anche come la variabile più importante nei pochi casi di suicidio osservati in pazienti con diagnosi di demenza.
L’assenza di speranze può essere particolarmente rilevante nel campo delle cure primarie, rendendo i pazienti anziani completamente passivi nella loro esperienza di malattia e quindi poco o nulla motivati alle cure prescritte (AIP, 2017).
Un’altra condizione di grave disagio esistenziale è rappresentata dalla convivenza con una persona seriamente ammalata e/o disabile. In età avanzata questa situazione può degenerare in eventi definibili come di mercy killing (uccisione compassionevole), spesso seguiti dal suicidio dell’individuo che ha soppresso la persona che accudiva. La maggior parte degli omicidi-suicidi degli anziani avviene in ambiente domestico, e la malattia di Alzheimer è spesso all’origine di tali episodi, in ispecie quando a esserne colpita è la compagna di una vita. (AIP, 2017).
La severità dello stress relativo alla condizione di caregiver di un paziente con demenza sembra essere un elemento a cui porre elevata attenzione: il carico assistenziale, lo struggimento emozionale, le precarie condizioni economiche, la mancata alternanza nel caregiving dell’ammalata, la lontananza die figli o la loro assenza, sono tutte condizioni che, unitamente all’approcciarsi della fine naturale della vita, sono alla base della decisione fatale.
Il rischio di suicidio può infine aumentare anche quando si sia forzati a lasciar libera l’abitazione abituale di anni ed essere costretti a risiedere in un nuovo ambiente dove non esistono reti di conoscenti né familiarità con i servizi di base. Anche l’imminenza di un trasferimento (forzato) in una residenza per anziani è stato riportato come un fattore precipitante il comportamento suicidario fatale.
Purtroppo, ancora nessuno dei fattori di rischio oggi noti ha potere predittivo sufficiente per consentire l’identificazione di una persona a rischio di suicidio (AIP, 2017).
La prospettiva relazionale: la persona non sceglie da sola
La natura davvero innovativa della legge può essere rinvenuta sulla rilevanza assegnata ai percorsi relazionali attraverso i quali la persona -malata o sana- può arrivare a decidere sui trattamenti da seguire o da rifiutare. Si tratta di percorsi che non “costringono” la persona ad assumere decisioni scomode nella sfera del privato, con il rischio di aumentare il senso di solitudine e incertezza, ma che riguardano tutta la piccola comunità all’interno della quale la persona è inserita, e quindi i familiari, le persone intime e naturalmente l’équipe assistenziale e, in primo luogo, il medico…
CONTINUA…
Torna alla prima parte dell’articolo
“La depressione nell’anziano“