Cosa ci porta e cosa ci trattiene sulla strada del lavoro di CURA? Lo abbiamo chiesto a molti professionisti che operano sul campo da tempo. Ogni storia è diversa dall’altra, ma ci sono fili simili che attraversano le trame soggettive.
Per esempio, è frequente che a portarci su questa strada sia una persona importante e significativa per noi: la relazione ci apre alla Cura e rimane la chiave per proseguire su questo cammino.
Così è anche per Francesca Metelli, Educatrice che lavora presso la Fondazione Cella di Broni (PV), e che ci ha fatto dono della sua testimonianza e di alcune riflessioni importanti per dare significato al lavoro di Cura.
Gli anziani mi hanno spinta a restare a lavorare in RSA
“Mi sono formata come educatore professionale nel 2000. Dai miei studi mai avrei pensato di dedicarmi alle persone anziane – nella mia tesi analizzavo infatti il rapporto di attaccamento di un figlio alla madre tossicodipendente e avevo iniziato lavorando con i minori. Per puro caso ho iniziato a lavorare in RSA nel 2002, con l’idea di restare solo qualche mese. Ormai sono 22 anni”
Inizia così la storia di Francesca Metelli, in modo simile alle testimonianze di tanti altri professionisti della Cura (ricordo come sempre il dossier “Strade di Cura” del numero cartaceo uscito il 15 giugno, di cui puoi sfogliare le prime pagine qui).
Anche per lei inizialmente la scelta era motivata dalla ricerca di un lavoro sicuro, per potersi sposare e mettere su famiglia. Ma qualcosa poi l’ha spinta a rimanere.
“Il lavoro con le persone nel nucleo Alzheimer è ciò che mi ha stimolata. Io sono una persona che ‘scava’ e mi dicevo: ci sarà il modo di entrare in relazione con loro! Mi dava gratificazione ogni volta che riuscivo a creare un contatto con le persone nel nucleo: sono stati gli anziani stessi a darmi il motivo per restare”
Lavorare in RSA: quale senso per l’educatore?
Le emozioni rivestono in questo senso un ruolo importante: “quando entro nel nucleo percepisco sempre le emozioni che gli anziani hanno in quel momento”, racconta Francesca, che oggi è operatrice Validation di secondo livello.
“È qualcosa che sento a pelle e che non so spiegare a parole”, mi dice, “e spesso quando entro nel nucleo, lo sguardo di molti di loro cambia, anche se non sanno il mio nome. Il mio unico merito è quello di entrare in relazione con loro: non sono lì per fare attività”.
In effetti, Francesca mi racconta di come a darle motivazione nel lavoro all’interno del nucleo Alzheimer sia proprio il poter cambiare le attività in base alla persona che ha di fronte, senza pianificarle in modo rigido e guardando sempre se ci sono le condizioni adeguate per le proposte, tenendo presente che nel suo nucleo vi sono 25 persone con demenza in stadi differenti.
Si tratta di un’idea più ampia del lavoro dell’educatore, dunque, che lei sta cercando di trasmettere anche alle colleghe e ai colleghi:
“non passo mai i miei progetti ai colleghi, perché ogni persona è unica e puoi calare su di lei un’attività solo dopo averla conosciuta. Quando faccio formazione infatti non insegno ai colleghi a fare attività, ma piuttosto a vedere la persona che hanno di fronte”.
Comunicazione, contatto, capacità di vedere l’altro: è su questi aspetti che tutte le categorie professionali oggi dovrebbero essere più formate. La relazione è il centro del lavorare in RSA e la chiave per trovare soddisfazione: le competenze tecnico-specifiche sono importanti, certamente, ma non sono il centro e non sono sufficienti per poter dire di mettere in atto la Cura.
La strada è tracciata
D’altra parte, anche nella sua storia personale si vede come l’incontro e la relazione con alcune Persone significative si sia rivelato fondamentale per la sua scelta di questa strada di Cura.
Una persona in particolare è stata importante per lei: Stefania, sua compagna delle medie e vicina di casa, con sindrome di down.
“Siamo cresciute insieme. Andavamo in centro, l’aiutavo facendole da mangiare quando sua mamma non c’era; l’ho aiutata anche quando è diventata signorina, ad affrontare l’imbarazzo e a capire cosa fare”.
Così, quando arriva il momento di scegliere gli studi, quest’esperienza le si presenta alla mente come significativa: “ho imparato a stare accanto a Stefania, vorrei imparare a stare accanto alle persone con disabilità”, si dice.
A parer suo è vero che siamo noi che scegliamo, sì, ma in fondo, dice, “la strada è tracciata”.
Si tratta di saper cogliere le esperienze che la vita ci manda, e di vivere appieno, ancora una volta, le relazioni; ed ecco che il cammino di Cura può prendere forma.
Professionista e famigliare insieme
La strada inizia a farsi difficile per Francesca dal 2016 in poi, dovendo affrontare una malattia oncologica sulla propria pelle, accompagnare il papà alla morte in hospice, stare accanto alla mamma successivamente ricoverata in struttura e, infine, dover assistere al declino cognitivo del suo caro zio, fratello di mamma e grande professore di matematica e scienze di Sondrio che, a causa della malattia di Alzheimer “non riuscirà più nemmeno a pagare le bollette e a riconoscere il valore del denaro”.
Da quel momento, accanto al suo ruolo di professionista che agisce la Cura, dunque, si farà sempre più evidente anche il suo essere famigliare, caregiver, persona che ha necessità di ricevere Cura.
Come sappiamo, questa è l’altra faccia della medaglia, ovvero la più difficile da vivere, anche quando si è “addetti ai lavori”: “nonostante professionalmente fossi preparata ad accogliere le fatiche altrui, da parente mi sono dovuta costruire”, ammette Francesca in modo pacato, parlando della sua esperienza con lo zio.
Ma il risvolto positivo c’è, se sai andare a fondo nell’esperienza che ti capita e non abbandonare il cammino impervio:
“aver vissuto tutto questo mi permette oggi di entrare più in empatia con i famigliari che incontro. Comprendo meglio tutta la fatica che c’è nell’istituzionalizzazione del proprio caro, così come la fatica che si ha nel salutare il proprio caro che sta morendo.
Oggi so meglio di prima quanto sia importante ascoltare il famigliare in questi casi, con presenza e autenticità, lasciando spazio alle emozioni, facendo sì che possano prendere luce, anche se dolorose. Se prima avevo più timori, adesso vado in prima linea”.
La Cura in prima linea
“In prima linea” è un’espressione che mi colpisce.
Nel gergo militare le prime linee sono quelle che stanno faccia a faccia con il nemico, dunque quelle che devono avere più coraggio, e che si prendono i rischi più grandi.
Nel campo della Cura e delle relazioni, spesso il nemico sta dentro di noi e consiste nella paura che abbiamo di fare spazio all’altro o, per dirla meglio, a noi stessi.
Il rischio che corriamo nell’aprirci all’altro – al suo dolore, alle sue fatiche, ma anche alla sua narrazione della propria condizione – è quello di dover fare i conti con i nostri dolori o, detto in altri termini, con i nostri limiti.
L’esperienza diretta con la malattia è stata un elemento ulteriore per Francesca per guardare alle persone che assiste con occhi diversi, ed è inoltre stata fonte di ispirazione per lei per la realizzazione di un’originale mostra fotografica all’interno del reparto (di cui ti racconto in questo articolo: Vedere il positivo. Un’idea creativa nel nucleo Alzheimer).
Ringrazio Francesca Metelli per il tempo che ha speso per raccontare una parte della sua storia e prego che il suo coraggio possa contagiare anche te che stai leggendo, perché credo che oggi nei luoghi di Cura servano sempre di più – e forse soltanto – persone che, al di là del ruolo che ricoprono, sanno essere questo: prime linee.
Per altri articoli dedicati al lavoro dell’educatore professionale:
Irene Pirri, i pregiudizi sull’educatore professionale
Francesca Doni, L’educatore in RSA ha i minuti contati? Quando il poco tempo rischia di minare la qualità degli interventi educativi
Francesca Doni, Educatori professionali e riconoscimento sociale: cosa si può fare per prendere atto del loro valore?
Valentina Busato, Il ruolo dell’educatore professionale con l’anziano
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Cosa ci porta e cosa ci trattiene sulla strada del lavoro di CURA? Lo abbiamo chiesto a molti professionisti che operano sul campo da tempo. Ogni storia è diversa dall’altra, ma ci sono fili simili che attraversano le trame soggettive.
Per esempio, è frequente che a portarci su questa strada sia una persona importante e significativa per noi: la relazione ci apre alla Cura e rimane la chiave per proseguire su questo cammino.
Così è anche per Francesca Metelli, Educatrice che lavora presso la Fondazione Cella di Broni (PV), e che ci ha fatto dono della sua testimonianza e di alcune riflessioni importanti per dare significato al lavoro di Cura.
Gli anziani mi hanno spinta a restare a lavorare in RSA
“Mi sono formata come educatore professionale nel 2000. Dai miei studi mai avrei pensato di dedicarmi alle persone anziane – nella mia tesi analizzavo infatti il rapporto di attaccamento di un figlio alla madre tossicodipendente e avevo iniziato lavorando con i minori. Per puro caso ho iniziato a lavorare in RSA nel 2002, con l’idea di restare solo qualche mese. Ormai sono 22 anni”
Inizia così la storia di Francesca Metelli, in modo simile alle testimonianze di tanti altri professionisti della Cura (ricordo come sempre il dossier “Strade di Cura” del numero cartaceo uscito il 15 giugno, di cui puoi sfogliare le prime pagine qui).
Anche per lei inizialmente la scelta era motivata dalla ricerca di un lavoro sicuro, per potersi sposare e mettere su famiglia. Ma qualcosa poi l’ha spinta a rimanere.
“Il lavoro con le persone nel nucleo Alzheimer è ciò che mi ha stimolata. Io sono una persona che ‘scava’ e mi dicevo: ci sarà il modo di entrare in relazione con loro! Mi dava gratificazione ogni volta che riuscivo a creare un contatto con le persone nel nucleo: sono stati gli anziani stessi a darmi il motivo per restare”
Lavorare in RSA: quale senso per l’educatore?
Le emozioni rivestono in questo senso un ruolo importante: “quando entro nel nucleo percepisco sempre le emozioni che gli anziani hanno in quel momento”, racconta Francesca, che oggi è operatrice Validation di secondo livello.
“È qualcosa che sento a pelle e che non so spiegare a parole”, mi dice, “e spesso quando entro nel nucleo, lo sguardo di molti di loro cambia, anche se non sanno il mio nome. Il mio unico merito è quello di entrare in relazione con loro: non sono lì per fare attività”.
In effetti, Francesca mi racconta di come a darle motivazione nel lavoro all’interno del nucleo Alzheimer sia proprio il poter cambiare le attività in base alla persona che ha di fronte, senza pianificarle in modo rigido e guardando sempre se ci sono le condizioni adeguate per le proposte, tenendo presente che nel suo nucleo vi sono 25 persone con demenza in stadi differenti.
Si tratta di un’idea più ampia del lavoro dell’educatore, dunque, che lei sta cercando di trasmettere anche alle colleghe e ai colleghi:
“non passo mai i miei progetti ai colleghi, perché ogni persona è unica e puoi calare su di lei un’attività solo dopo averla conosciuta. Quando faccio formazione infatti non insegno ai colleghi a fare attività, ma piuttosto a vedere la persona che hanno di fronte”.
Comunicazione, contatto, capacità di vedere l’altro: è su questi aspetti che tutte le categorie professionali oggi dovrebbero essere più formate. La relazione è il centro del lavorare in RSA e la chiave per trovare soddisfazione: le competenze tecnico-specifiche sono importanti, certamente, ma non sono il centro e non sono sufficienti per poter dire di mettere in atto la Cura.
La strada è tracciata
D’altra parte, anche nella sua storia personale si vede come l’incontro e la relazione con alcune Persone significative si sia rivelato fondamentale per la sua scelta di questa strada di Cura.
Una persona in particolare è stata importante per lei: Stefania, sua compagna delle medie e vicina di casa, con sindrome di down.
“Siamo cresciute insieme. Andavamo in centro, l’aiutavo facendole da mangiare quando sua mamma non c’era; l’ho aiutata anche quando è diventata signorina, ad affrontare l’imbarazzo e a capire cosa fare”.
Così, quando arriva il momento di scegliere gli studi, quest’esperienza le si presenta alla mente come significativa: “ho imparato a stare accanto a Stefania, vorrei imparare a stare accanto alle persone con disabilità”, si dice.
A parer suo è vero che siamo noi che scegliamo, sì, ma in fondo, dice, “la strada è tracciata”.
Si tratta di saper cogliere le esperienze che la vita ci manda, e di vivere appieno, ancora una volta, le relazioni; ed ecco che il cammino di Cura può prendere forma.
Professionista e famigliare insieme
La strada inizia a farsi difficile per Francesca dal 2016 in poi, dovendo affrontare una malattia oncologica sulla propria pelle, accompagnare il papà alla morte in hospice, stare accanto alla mamma successivamente ricoverata in struttura e, infine, dover assistere al declino cognitivo del suo caro zio, fratello di mamma e grande professore di matematica e scienze di Sondrio che, a causa della malattia di Alzheimer “non riuscirà più nemmeno a pagare le bollette e a riconoscere il valore del denaro”.
Da quel momento, accanto al suo ruolo di professionista che agisce la Cura, dunque, si farà sempre più evidente anche il suo essere famigliare, caregiver, persona che ha necessità di ricevere Cura.
Come sappiamo, questa è l’altra faccia della medaglia, ovvero la più difficile da vivere, anche quando si è “addetti ai lavori”: “nonostante professionalmente fossi preparata ad accogliere le fatiche altrui, da parente mi sono dovuta costruire”, ammette Francesca in modo pacato, parlando della sua esperienza con lo zio.
Ma il risvolto positivo c’è, se sai andare a fondo nell’esperienza che ti capita e non abbandonare il cammino impervio:
“aver vissuto tutto questo mi permette oggi di entrare più in empatia con i famigliari che incontro. Comprendo meglio tutta la fatica che c’è nell’istituzionalizzazione del proprio caro, così come la fatica che si ha nel salutare il proprio caro che sta morendo.
Oggi so meglio di prima quanto sia importante ascoltare il famigliare in questi casi, con presenza e autenticità, lasciando spazio alle emozioni, facendo sì che possano prendere luce, anche se dolorose. Se prima avevo più timori, adesso vado in prima linea”.
La Cura in prima linea
“In prima linea” è un’espressione che mi colpisce.
Nel gergo militare le prime linee sono quelle che stanno faccia a faccia con il nemico, dunque quelle che devono avere più coraggio, e che si prendono i rischi più grandi.
Nel campo della Cura e delle relazioni, spesso il nemico sta dentro di noi e consiste nella paura che abbiamo di fare spazio all’altro o, per dirla meglio, a noi stessi.
Il rischio che corriamo nell’aprirci all’altro – al suo dolore, alle sue fatiche, ma anche alla sua narrazione della propria condizione – è quello di dover fare i conti con i nostri dolori o, detto in altri termini, con i nostri limiti.
L’esperienza diretta con la malattia è stata un elemento ulteriore per Francesca per guardare alle persone che assiste con occhi diversi, ed è inoltre stata fonte di ispirazione per lei per la realizzazione di un’originale mostra fotografica all’interno del reparto (di cui ti racconto in questo articolo: Vedere il positivo. Un’idea creativa nel nucleo Alzheimer).
Ringrazio Francesca Metelli per il tempo che ha speso per raccontare una parte della sua storia e prego che il suo coraggio possa contagiare anche te che stai leggendo, perché credo che oggi nei luoghi di Cura servano sempre di più – e forse soltanto – persone che, al di là del ruolo che ricoprono, sanno essere questo: prime linee.
Per altri articoli dedicati al lavoro dell’educatore professionale:
Un articolo ricco di spunti sul vero senso della cura e sull’importanza della relazione, intesa come rapporto non solo con gli anziani ma anche con i familiari e più in generale con chi è in difficoltà.
Ho avuto la fortuna di conoscere Francesca in occasione dell’edizione 2023 di Alzheimer Fest, ne è nato uno scambio costante di riflessioni sul mondo delle RSA, sui bisogni delle persone che vivono con demenza, sull’importanza della passione e dell’impegno costante di cui il settore socio-assistenziale necessita. Conoscere la storia di chi lavora o vive in qualche modo il mondo della RSA può essere la chiave per rimettere il focus sulle persone al di là dei ruoli.