Si ringraziano Elisabetta Berardi, Federica Ioppolo, Federica Lettieri, Giorgia Lorenzoli e Paola Mega per la disponibilità dimostrata e per la profonda e umana generosità offerta durante le chiacchierate che hanno portato alla raccolta del materiale utile alla stesura di questo articolo.
Nel ringraziare loro, intendiamo anche ringraziare tutte le operatrici e gli operatori di Provvidenza per il lavoro quotidiano che offre cura e assistenza di alta qualità a quasi mille Anziani fragili del nostro territorio.
Accompagnare fino all’ultimo respiro
L’ultimo respiro non è mai soltanto un fatto biologico: è un atto umano, carico di significati, che chiama alla presenza e alla cura.
Un letto ordinato con cura, una carezza silenziosa, una preghiera sussurrata: sono piccoli segni che, in Provvidenza, raccontano come si può “accompagnare fino all’ultimo respiro”.
Perché tra queste mura il morire non è solo un evento clinico, ma un tempo abitato da relazioni, attenzioni e dignità.
Vi proponiamo un coro di voci di chi, ogni giorno, attraversa questo confine.
Saranno le loro parole e il loro sguardo a condurci in un viaggio delicato e sensibile.
Il valore dell’unicità
Ogni persona vive il fine vita in modo irripetibile.
È questo il primo grande insegnamento che emerge dalle voci degli operatori dell’Istituto La Provvidenza: esistono protocolli che subiscono adeguamenti per rispondere alle esigenze specifiche richieste dalle singole persone coinvolte perché, è chiaro, che non può esserci una risposta unica per tutti.
«Accompagnare una persona nel tratto finale della vita significa riconoscerne e raccoglierne l’unicità», spiega la Dottoressa Federica Ioppolo, psicologa della struttura, «creando uno spazio privo di giudizio in cui ciascuno possa esprimere emozioni, paure, desideri.
A volte il fine vita non è solo perdita, può essere anche generativo: un tempo in cui nascono desideri che prima non c’erano».
Per qualcuno il bisogno è di parlare, per altri è il silenzio.
C’è chi cerca i propri cari e chi preferisce rifugiarsi nei ricordi.
Ci sono famiglie che restano vicine, altre che non riescono o non possono esserci.
Gli operatori imparano a modulare la relazione su misura: una presenza che può essere fatta di dialogo oppure solo di sguardi o di una mano tenuta con delicatezza.
La Dottoressa Federica Lettieri, Coordinatrice dell’area Educativo-riabilitativa, lo racconta così:
«Con chi non è più lucido ci affidiamo ai sensi: la musica che amava, un profumo, la luce in camera.
Per chi, invece, conserva consapevolezza, lo spazio si apre al dialogo: paure, preoccupazioni per chi rimane, pensieri sul distacco.
In entrambi i casi, il filo resta quello della vicinanza».
Anche gli operatori sanitari riconoscono questo principio, come spiega la Dottoressa Paola Mega, Coordinatrice dell’hospice Il Nido, La Provvidenza
«La cura non vuol più dire guarigione, ma accompagnamento.
Ogni persona è diversa, e il nostro compito è personalizzare: gestire il sintomo disturbante, certo, ma anche garantire la presenza, il silenzio, la possibilità di esprimere le proprie paure».
La Dottoressa Giorgia Lorenzoli, Coordinatrice medico per la nostra RSA, aggiunge:
«la dignità di chi affronta la fine risiede nella possibilità di condividere, nella chiarezza con cui si spiega ciò che sta accadendo, evitando illusioni, ma sempre con delicatezza».
Anche i gesti quotidiani diventano linguaggio di unicità.
Elisabetta Berardi, OSS, ci indica la via alla quotidianità:
«A volte non si può andare oltre una carezza, un sorriso o il ricordo della loro vita.
Io considero ciascuno degli Anziani che mi sono affidati come fossero miei cari: li accarezzo, li bacio.
Voglio che non si sentano mai soli».
Così, nei corridoi e nelle stanze della nostra struttura, l’unicità diventa un principio concreto: ognuno è accolto per quello che è, con la propria storia, i propri tempi, i propri bisogni.
E ogni operatore, con professionalità e umanità, prova a dire in tante forme diverse: “Non ti lascio solo”.
Cure mediche e attenzioni quotidiane
«In questa fase, cura significa perseguire il massimo benessere possibile e garantire la dignità di ogni paziente», ribadisce Paola Mega. «Se resta un giorno o una settimana, quello che conta è che sia vissuto senza dolore, senza fiato corto, senza ansia.
È questo appunto che significa curare, in questa fase».
La gestione dei sintomi non è solo tecnica sanitaria, ma gesto profondamente umano.
Giorgia Lorenzoli sottolinea chiaramente che implica una profonda compassione agita:
«Non possiamo sempre togliere la sofferenza, ma possiamo ridurla.
E soprattutto dobbiamo garantire che nessuno si trovi ad affrontare questo passaggio da solo.
La cosa più dignitosa che possiamo fare è accompagnare in serenità e questo parte da una corretta condivisione delle informazioni alla Persona o, se il caso, al Familiare».
Accanto al lavoro medico, come si diceva, ci sono le attenzioni quotidiane che parlano un linguaggio altrettanto potente.
Elisabetta Berardi, di nuovo, lo racconta con semplicità:
«Se so che una signora amava truccarsi, le metto il rossetto anche negli ultimi giorni.
Se una persona teneva all’ordine della propria bocca, sto molto attenta a fare in modo che possa presentarsi in ordine anche quando non può farlo più da sola.
Sono piccoli gesti, che aggiungiamo alla cura giornaliera, ma restituiscono la persona a sé stessa, fino all’ultimo».
Federica Lettieri aggiunge che le attenzioni non sono mai neutre, ma profondamente personalizzate:
«In Provvidenza abbiamo creato un programma dedicato a questa fase, chiamato “Non ti lascio solo”, che si sviluppa in interventi quotidiani e con cui cerchiamo di perseguire il benessere sensoriale della Persona.
Con qualcuno leggiamo poesie, con altri ascoltiamo la loro musica preferita, con altri ancora basta la mano stretta.
A volte raccogliamo memorie in quaderni o album da donare ai familiari, perché resti qualcosa anche dopo.
Sono modi per dire: sei importante, la tua vita ha valore e noi la onoriamo fino all’ultimo respiro».
E anche quando il corpo non risponde più, la cura continua.
Non è un fare che salva, ma un fare che accompagna: lavare con delicatezza, sistemare una coperta, offrire silenzio.
Sono gesti che sembrano minimi ma che diventano il segno più autentico della presenza.
Le famiglie: tra amore, fatica e senso di colpa
Accanto alla Persona, c’è quasi sempre una famiglia che affronta il proprio percorso di accompagnamento.
E non è mai semplice.
«Per un familiare può essere molto difficile e faticoso accettare che non si possa più curare per guarire, ma solo curare per accompagnare.
Per esempio emerge spesso il pensiero: se non mangia, muore.
In realtà, è il contrario: non mangia perché il corpo si sta spegnendo.
Spiegare questo per noi è difficile, ma necessario» (Paola Mega).
Il senso di colpa è una presenza costante. Portare un genitore o un coniuge in RSA, vedere il declino, non poterci essere sempre: sono ferite che si riaprono nel momento del distacco.
Il dolore dei familiari si intreccia anche con la difficoltà a mantenere la relazione quando il proprio caro non risponde più.
Federica Ioppolo lo spiega così:
«Chi ha sempre comunicato con le parole deve reinventare un modo diverso di stare vicino: attraverso l’accudimento, mostrare fotografie, ascoltare musica insieme.
A volte la frustrazione è tanta, e qualcuno sceglie di ridurre le visite.
È doloroso, ma può essere un modo per proteggersi.
Il mio ruolo è aiutarli a trovare comunque un canale per mantenere il contatto, perché la relazione, fino alla fine, resta il bisogno più profondo».
E c’è anche chi, come Elisabetta Berardi, sceglie di farsi ponte quando i familiari non riescono ad esserci:
«Io provo a essere la figlia, la madre, tutto quello che serve in quel momento.
Non sempre i parenti possono stare accanto, allora ci siamo noi».
Il confine tra la presenza e la fatica è sottile.
In quell’intreccio fragile di amore, colpa, rabbia e gratitudine si gioca una parte essenziale dell’accompagnamento: aiutare i famigliari ad attraversare la separazione senza sentirsi soli e senza sentirsi inadeguati.
Gli operatori: tra dolore e lavoro di squadra
Stare accanto a chi muore non è mai neutro.
Ogni operatore porta con sé emozioni, fragilità, domande che non sempre hanno risposta.
«Anche per noi c’è dolore, c’è dispiacere, c’è fatica.
Io non riesco sempre a proteggermi.
Cerco sempre di sorridere, per non far percepire la tristezza alla persona, ma dentro porto il peso». (Elisabetta Berardi)
Federica Ioppolo, psicologa, descrive bene la tensione che attraversa l’équipe:
«I silenzi delle persone anziane, i loro sguardi, possono essere carichi di significato, ma per chi è abituato a fare, a intervenire, diventano frustrazione.
Il fisioterapista, l’educatore, l’infermiere: tutti hanno un ruolo legato all’azione.
Quando la malattia sottrae parole e gesti, resta la sensazione di non essere più efficaci.
È lì che dobbiamo aiutarci a rileggere quel silenzio: non come vuoto ma come comunicazione diversa».
Perché anche gli operatori hanno bisogno di sostegno. Prosegue Ioppolo:
«C’è il supporto formale – nelle supervisioni d’équipe – e quello informale: un caffè condiviso, una parola scambiata in corridoio.
E quando la fatica è troppa, ricordiamo che siamo una rete: se un collega non ce la fa, un altro prende il suo posto.
Non è un segno di debolezza, ma di forza».
La perdita, per chi lavora in RSA, non riguarda mai un singolo: è un lutto collettivo.
È anche in questo che riconosciamo il nostro essere una comunità, un luogo protetto e da proteggere dove gli operatori trovano la forza per continuare a svolgere il proprio compito se supportati: l’àncora che permette a ciascuno di reggere l’impatto emotivo, mantenendo intatta la capacità di prendersi cura con autenticità.
Il senso concreto della dignità
Cos’è, dunque, la dignità, quando si arriva all’ultimo passaggio?
Le risposte raccolte sono diverse, ma tutte riconducono a un filo comune: il rispetto profondo della persona, nella sua interezza.
E per i medici, dignità è anche una questione di chiarezza:
«Non illudere, non fingere che non stia accadendo ciò che accade.
Riconoscere quel momento significa dargli valore» (Giorgia Lorenzoli).
Dignità, allora, è un insieme di gesti e di scelte: alleviare il dolore, rispettare i desideri, mantenere cura e bellezza, accettare i silenzi e non lasciare mai soli.
È uno sguardo che accompagna senza anticipare, che riconosce la vita fino all’ultimo respiro, senza nascondere la morte, ma trasformandola in un passaggio condiviso.
E per i medici, dignità è anche una questione di chiarezza:
«Non illudere, non fingere che non stia accadendo ciò che accade.
Riconoscere quel momento significa dargli valore».
(Giorgia Lorenzoli, coordinatrice medico)
Dignità, allora, è un insieme di gesti e di scelte: alleviare il dolore, rispettare i desideri, mantenere cura e bellezza, accettare i silenzi e non lasciare mai soli.
È uno sguardo che accompagna senza anticipare, che riconosce la vita fino all’ultimo respiro, senza nascondere la morte, ma trasformandola in un passaggio condiviso.
Un tempo tutto umano
Dalle parole di chi ogni giorno accompagna le persone nel tratto finale della loro vita emerge una certezza: la cura non si interrompe mai.
Cambia forma, cambia ritmo, ma resta costante.
Non è più una cura che mira alla guarigione, ma una cura che diventa vicinanza, ascolto, presenza, rispetto.
Educatori, medici, psicologi, operatori: ciascuno con il proprio sguardo ha raccontato che l’accompagnamento fino alla fine è fatto di gesti semplici e profondi, di scelte rispettate, di silenzi condivisi.
È fatto di mani che si stringono, di parole sussurrate, di attenzioni che mantengono viva la dignità della persona anche quando il corpo non risponde più.
E accanto alla Persona ci sono le famiglie, con il loro amore e le loro fatiche, sostenute da un’équipe che sa trasformare il dolore in un percorso condiviso.
Nessuno resta solo, né chi ci lascia, né chi accompagna, né chi lavora ogni giorno in questa realtà.
Il fine vita può essere – e noi pensiamo debba essere interpretato così – un tempo prezioso in cui si può continuare a generare cura, senso, e persino bellezza.
il tempo in cui riconosciamo l’umanità che ci lega, fino all’ultimo respiro.
VECCHIAIA
Eventi e Cultura

Semi di CURA
NEWSLETTER
Esiste un significato profondo nel lavoro di CURA e una ricchezza nascosta in RSA?
La newsletter
«Semi di CURA»
indaga questo e lo racconta ogni ultimo venerdì del mese.
Si ringraziano Elisabetta Berardi, Federica Ioppolo, Federica Lettieri, Giorgia Lorenzoli e Paola Mega per la disponibilità dimostrata e per la profonda e umana generosità offerta durante le chiacchierate che hanno portato alla raccolta del materiale utile alla stesura di questo articolo.
Nel ringraziare loro, intendiamo anche ringraziare tutte le operatrici e gli operatori di Provvidenza per il lavoro quotidiano che offre cura e assistenza di alta qualità a quasi mille Anziani fragili del nostro territorio.
Accompagnare fino all’ultimo respiro
L’ultimo respiro non è mai soltanto un fatto biologico: è un atto umano, carico di significati, che chiama alla presenza e alla cura.
Un letto ordinato con cura, una carezza silenziosa, una preghiera sussurrata: sono piccoli segni che, in Provvidenza, raccontano come si può “accompagnare fino all’ultimo respiro”.
Perché tra queste mura il morire non è solo un evento clinico, ma un tempo abitato da relazioni, attenzioni e dignità.
Vi proponiamo un coro di voci di chi, ogni giorno, attraversa questo confine.
Saranno le loro parole e il loro sguardo a condurci in un viaggio delicato e sensibile.
Il valore dell’unicità
Ogni persona vive il fine vita in modo irripetibile.
È questo il primo grande insegnamento che emerge dalle voci degli operatori dell’Istituto La Provvidenza: esistono protocolli che subiscono adeguamenti per rispondere alle esigenze specifiche richieste dalle singole persone coinvolte perché, è chiaro, che non può esserci una risposta unica per tutti.
«Accompagnare una persona nel tratto finale della vita significa riconoscerne e raccoglierne l’unicità», spiega la Dottoressa Federica Ioppolo, psicologa della struttura, «creando uno spazio privo di giudizio in cui ciascuno possa esprimere emozioni, paure, desideri.
A volte il fine vita non è solo perdita, può essere anche generativo: un tempo in cui nascono desideri che prima non c’erano».
Per qualcuno il bisogno è di parlare, per altri è il silenzio.
C’è chi cerca i propri cari e chi preferisce rifugiarsi nei ricordi.
Ci sono famiglie che restano vicine, altre che non riescono o non possono esserci.
Gli operatori imparano a modulare la relazione su misura: una presenza che può essere fatta di dialogo oppure solo di sguardi o di una mano tenuta con delicatezza.
La Dottoressa Federica Lettieri, Coordinatrice dell’area Educativo-riabilitativa, lo racconta così:
«Con chi non è più lucido ci affidiamo ai sensi: la musica che amava, un profumo, la luce in camera.
Per chi, invece, conserva consapevolezza, lo spazio si apre al dialogo: paure, preoccupazioni per chi rimane, pensieri sul distacco.
In entrambi i casi, il filo resta quello della vicinanza».
Anche gli operatori sanitari riconoscono questo principio, come spiega la Dottoressa Paola Mega, Coordinatrice dell’hospice Il Nido, La Provvidenza
«La cura non vuol più dire guarigione, ma accompagnamento.
Ogni persona è diversa, e il nostro compito è personalizzare: gestire il sintomo disturbante, certo, ma anche garantire la presenza, il silenzio, la possibilità di esprimere le proprie paure».
La Dottoressa Giorgia Lorenzoli, Coordinatrice medico per la nostra RSA, aggiunge:
«la dignità di chi affronta la fine risiede nella possibilità di condividere, nella chiarezza con cui si spiega ciò che sta accadendo, evitando illusioni, ma sempre con delicatezza».
Anche i gesti quotidiani diventano linguaggio di unicità.
Elisabetta Berardi, OSS, ci indica la via alla quotidianità:
«A volte non si può andare oltre una carezza, un sorriso o il ricordo della loro vita.
Io considero ciascuno degli Anziani che mi sono affidati come fossero miei cari: li accarezzo, li bacio.
Voglio che non si sentano mai soli».
Così, nei corridoi e nelle stanze della nostra struttura, l’unicità diventa un principio concreto: ognuno è accolto per quello che è, con la propria storia, i propri tempi, i propri bisogni.
E ogni operatore, con professionalità e umanità, prova a dire in tante forme diverse: “Non ti lascio solo”.
Cure mediche e attenzioni quotidiane
«In questa fase, cura significa perseguire il massimo benessere possibile e garantire la dignità di ogni paziente», ribadisce Paola Mega. «Se resta un giorno o una settimana, quello che conta è che sia vissuto senza dolore, senza fiato corto, senza ansia.
È questo appunto che significa curare, in questa fase».
La gestione dei sintomi non è solo tecnica sanitaria, ma gesto profondamente umano.
Giorgia Lorenzoli sottolinea chiaramente che implica una profonda compassione agita:
«Non possiamo sempre togliere la sofferenza, ma possiamo ridurla.
E soprattutto dobbiamo garantire che nessuno si trovi ad affrontare questo passaggio da solo.
La cosa più dignitosa che possiamo fare è accompagnare in serenità e questo parte da una corretta condivisione delle informazioni alla Persona o, se il caso, al Familiare».
Accanto al lavoro medico, come si diceva, ci sono le attenzioni quotidiane che parlano un linguaggio altrettanto potente.
Elisabetta Berardi, di nuovo, lo racconta con semplicità:
«Se so che una signora amava truccarsi, le metto il rossetto anche negli ultimi giorni.
Se una persona teneva all’ordine della propria bocca, sto molto attenta a fare in modo che possa presentarsi in ordine anche quando non può farlo più da sola.
Sono piccoli gesti, che aggiungiamo alla cura giornaliera, ma restituiscono la persona a sé stessa, fino all’ultimo».
Federica Lettieri aggiunge che le attenzioni non sono mai neutre, ma profondamente personalizzate:
«In Provvidenza abbiamo creato un programma dedicato a questa fase, chiamato “Non ti lascio solo”, che si sviluppa in interventi quotidiani e con cui cerchiamo di perseguire il benessere sensoriale della Persona.
Con qualcuno leggiamo poesie, con altri ascoltiamo la loro musica preferita, con altri ancora basta la mano stretta.
A volte raccogliamo memorie in quaderni o album da donare ai familiari, perché resti qualcosa anche dopo.
Sono modi per dire: sei importante, la tua vita ha valore e noi la onoriamo fino all’ultimo respiro».
E anche quando il corpo non risponde più, la cura continua.
Non è un fare che salva, ma un fare che accompagna: lavare con delicatezza, sistemare una coperta, offrire silenzio.
Sono gesti che sembrano minimi ma che diventano il segno più autentico della presenza.
Le famiglie: tra amore, fatica e senso di colpa
Accanto alla Persona, c’è quasi sempre una famiglia che affronta il proprio percorso di accompagnamento.
E non è mai semplice.
«Per un familiare può essere molto difficile e faticoso accettare che non si possa più curare per guarire, ma solo curare per accompagnare.
Per esempio emerge spesso il pensiero: se non mangia, muore.
In realtà, è il contrario: non mangia perché il corpo si sta spegnendo.
Spiegare questo per noi è difficile, ma necessario» (Paola Mega).
Il senso di colpa è una presenza costante. Portare un genitore o un coniuge in RSA, vedere il declino, non poterci essere sempre: sono ferite che si riaprono nel momento del distacco.
Il dolore dei familiari si intreccia anche con la difficoltà a mantenere la relazione quando il proprio caro non risponde più.
Federica Ioppolo lo spiega così:
«Chi ha sempre comunicato con le parole deve reinventare un modo diverso di stare vicino: attraverso l’accudimento, mostrare fotografie, ascoltare musica insieme.
A volte la frustrazione è tanta, e qualcuno sceglie di ridurre le visite.
È doloroso, ma può essere un modo per proteggersi.
Il mio ruolo è aiutarli a trovare comunque un canale per mantenere il contatto, perché la relazione, fino alla fine, resta il bisogno più profondo».
E c’è anche chi, come Elisabetta Berardi, sceglie di farsi ponte quando i familiari non riescono ad esserci:
«Io provo a essere la figlia, la madre, tutto quello che serve in quel momento.
Non sempre i parenti possono stare accanto, allora ci siamo noi».
Il confine tra la presenza e la fatica è sottile.
In quell’intreccio fragile di amore, colpa, rabbia e gratitudine si gioca una parte essenziale dell’accompagnamento: aiutare i famigliari ad attraversare la separazione senza sentirsi soli e senza sentirsi inadeguati.
Gli operatori: tra dolore e lavoro di squadra
Stare accanto a chi muore non è mai neutro.
Ogni operatore porta con sé emozioni, fragilità, domande che non sempre hanno risposta.
«Anche per noi c’è dolore, c’è dispiacere, c’è fatica.
Io non riesco sempre a proteggermi.
Cerco sempre di sorridere, per non far percepire la tristezza alla persona, ma dentro porto il peso». (Elisabetta Berardi)
Federica Ioppolo, psicologa, descrive bene la tensione che attraversa l’équipe:
«I silenzi delle persone anziane, i loro sguardi, possono essere carichi di significato, ma per chi è abituato a fare, a intervenire, diventano frustrazione.
Il fisioterapista, l’educatore, l’infermiere: tutti hanno un ruolo legato all’azione.
Quando la malattia sottrae parole e gesti, resta la sensazione di non essere più efficaci.
È lì che dobbiamo aiutarci a rileggere quel silenzio: non come vuoto ma come comunicazione diversa».
Perché anche gli operatori hanno bisogno di sostegno. Prosegue Ioppolo:
«C’è il supporto formale – nelle supervisioni d’équipe – e quello informale: un caffè condiviso, una parola scambiata in corridoio.
E quando la fatica è troppa, ricordiamo che siamo una rete: se un collega non ce la fa, un altro prende il suo posto.
Non è un segno di debolezza, ma di forza».
La perdita, per chi lavora in RSA, non riguarda mai un singolo: è un lutto collettivo.
È anche in questo che riconosciamo il nostro essere una comunità, un luogo protetto e da proteggere dove gli operatori trovano la forza per continuare a svolgere il proprio compito se supportati: l’àncora che permette a ciascuno di reggere l’impatto emotivo, mantenendo intatta la capacità di prendersi cura con autenticità.
Il senso concreto della dignità
Cos’è, dunque, la dignità, quando si arriva all’ultimo passaggio?
Le risposte raccolte sono diverse, ma tutte riconducono a un filo comune: il rispetto profondo della persona, nella sua interezza.
E per i medici, dignità è anche una questione di chiarezza:
«Non illudere, non fingere che non stia accadendo ciò che accade.
Riconoscere quel momento significa dargli valore» (Giorgia Lorenzoli).
Dignità, allora, è un insieme di gesti e di scelte: alleviare il dolore, rispettare i desideri, mantenere cura e bellezza, accettare i silenzi e non lasciare mai soli.
È uno sguardo che accompagna senza anticipare, che riconosce la vita fino all’ultimo respiro, senza nascondere la morte, ma trasformandola in un passaggio condiviso.
E per i medici, dignità è anche una questione di chiarezza:
«Non illudere, non fingere che non stia accadendo ciò che accade.
Riconoscere quel momento significa dargli valore».
(Giorgia Lorenzoli, coordinatrice medico)
Dignità, allora, è un insieme di gesti e di scelte: alleviare il dolore, rispettare i desideri, mantenere cura e bellezza, accettare i silenzi e non lasciare mai soli.
È uno sguardo che accompagna senza anticipare, che riconosce la vita fino all’ultimo respiro, senza nascondere la morte, ma trasformandola in un passaggio condiviso.
Un tempo tutto umano
Dalle parole di chi ogni giorno accompagna le persone nel tratto finale della loro vita emerge una certezza: la cura non si interrompe mai.
Cambia forma, cambia ritmo, ma resta costante.
Non è più una cura che mira alla guarigione, ma una cura che diventa vicinanza, ascolto, presenza, rispetto.
Educatori, medici, psicologi, operatori: ciascuno con il proprio sguardo ha raccontato che l’accompagnamento fino alla fine è fatto di gesti semplici e profondi, di scelte rispettate, di silenzi condivisi.
È fatto di mani che si stringono, di parole sussurrate, di attenzioni che mantengono viva la dignità della persona anche quando il corpo non risponde più.
E accanto alla Persona ci sono le famiglie, con il loro amore e le loro fatiche, sostenute da un’équipe che sa trasformare il dolore in un percorso condiviso.
Nessuno resta solo, né chi ci lascia, né chi accompagna, né chi lavora ogni giorno in questa realtà.
Il fine vita può essere – e noi pensiamo debba essere interpretato così – un tempo prezioso in cui si può continuare a generare cura, senso, e persino bellezza.
il tempo in cui riconosciamo l’umanità che ci lega, fino all’ultimo respiro.

Semi di CURA
NEWSLETTER
Esiste un significato profondo nel lavoro di CURA e una ricchezza nascosta in RSA?
La newsletter
«Semi di CURA»
indaga questo e lo racconta ogni ultimo venerdì del mese.






