In quest’articolo curato da Francesca Poletti, coordinatrice di servizi domiciliari della Cooperativa DiVittorio, e Roberta Betti, assistente sociale, compaiono tre figure solo all’apparenza immaginarie: l’operatrice socio-solitaria, il grunco e il coordina-solo. Si tratta di tre esempi umani significativi che ci invitano a riflettere sul delicato equilibrio tra solitudine e lavoro in équipe con cui il coordinatore, in particolare, deve fare i conti quotidianamente. 

Essere coordinatore nella Cura

Sono una coordinatrice da 20 anni, con più o meno difficoltà, e con un bel bagaglio di esperienze.

Oggi so che quasi tutte le decisioni che prendo, è meglio se le faccio ben capire a chi lavora con me, altrimenti saranno oggetto di pubblica mia derisione, o, addirittura, non verranno prese in considerazione.

Spesso, quando un’OSS è in un momento di difficoltà, c’è un’organizzazione che si cura di lei e del suo malessere.

Ma una brava coordinatrice difficilmente può permettersi il lusso di mostrare debolezza (“avete notato? ci sarà qualcosa che non va? sarà meglio controllare gli orari, non vorrei che sbagliasse… sarà innamorata?”).

Essere coordinatore nella Cura significa muoversi in un equilibrio delicato tra solitudine e dinamiche di gruppo.

In quest’articolo proviamo a raccontare tre esempi significativi di dinamiche umane che possono rendere difficile la vita del coordinatore nei contesti di cura.

Oltre alle mille intemperie e imprevisti quotidiani, esistono infatti ai miei occhi almeno 3 esempi significativi di come l’ambiente organizzativo possa diventare il terreno paludoso della trascuratezza, della noncuranza, e persino, alla lunga, del mal-trattamento.

Per fortuna – mi dico sempre – riusciamo ancora a riconoscere e a cercare di migliorare, di tenere i piedi “fuori dalla palude” o tendere una mano a chi sta per affondare.

L’operatrice socio-solitaria

Incontro spesso comportamenti simili a quelli di Edwige, l’operatrice socio-solitaria.

Edwige è un’esecutrice, convinta che ci sia poco altro oltre la sua prestazione; è una che “fa il suo“. Infatti formalmente non le si può dire nulla.

Lei legge le consegne quando ce la fa – perché lei “ha una vita” –  e se riceve un’osservazione da un familiare, non spende energie per condividerla nel gruppo: lo leggerà chi verrà.

Non pensa se le cose che sta dicendo alla madre dell’assistito, vengano veramente recepite: “io l’ho detto”, pensa.

Edwige è un fantasma nel gruppo: non interviene quasi mai per dire la sua, si isola, si estranea, pensa non sia necessario. Con quel pizzico di superiorità, non si confonde.

Lei perlopiù è una “presenzialista”: si contano sulle dita della mano le sue assenze dal lavoro. E questo ritiene sia un pregio del suo comportamento professionale: lei vale, su di lei si può contare.

Disponibile ai rientri, ma mai espressamente solidale a una collega che chiede aiuto.

Se contattata direttamente dal coordinamento, lei dice sì, ma se nasce nel gruppo una discussione su una modalità possibilmente da modificare – ad esempio “la spesa dovremmo farla più vicino casa” – lei non ne capisce il motivo (abbiamo sempre fatto così!).

E anzi che entrare in conflitto, preferisce, come deciso, andare sotto casa e dire all’assistito che nulla è cambiato.

Tende a non essere presente alle riunioni e a dirlo dopo, ovvero quando le viene ricordato che c’era un incontro, sminuendo così il significato del lavoro di équipe.

Tutto questo auto-isolamento, questo lavoro in solitaria, è inversamente proporzionale all’energia spesa a domicilio degli assistiti: quasi mai dell’Operatrice socio-solitaria si riceve un reclamo, un “non me la mandi più“; difficile uno scontro diretto.

Lei fornisce l’impressione di esserci. In realtà, però, non c’è veramente; lei non pensa al puzzle costruitosi intorno alla persona in cui ognuno è un pezzetto, lei compresa.

“E se per caso dovessi dare una responsabilità a qualcuno, per favore non a me

“Se detengo le chiavi di casa dell’assistito, preferisco riportarle in ufficio a fine turno”.

È molto abile a passare la palla (e dentro la testa del coordinatore nuota il pensiero “ma a casa ci devo andare io?”…).

Edwige è l’OSS della consegna “del vigile urbano”.

Quella che, se le chiedi informazioni su un servizio che non conosci, e ti aspetti approcci fortunati, caratteristiche personali, gusti e predilezioni, avrai solo:

“Abita in via Rossi e si fa igiene il mercoledi”.

L’operatore socio-solitario, stagnato e impaludato nelle sue stesse torbide acque, è l’incubo delle persone proattive: di quelle che vogliono la risposta chiara e sincera, l’autenticità, anche lo scontro se serve.

Quando si pone un confronto, invece, stai sicuro che Edwige è online… ma non risponderà.

Il gruppo-branco, ovvero il grunco

Quando un gruppo di lavoro diventa un branco, agisce a protezione: nessuno sembra avere responsabilità diretta e personale (“siamo andati tutti“).

Il grunco è uno degli aspetti del mio lavoro che più mi spaventa.

Mi spaventa per esempio quando non è previsto il riordino a domicilio di Adelaide, ma un operatore inizia a farlo, e a seguire tutti lo fanno. E quando chiedi:

come mai non viene più seguito il progetto pattuito di far esercitare nella lettura Adelaide, 100 anni e un sol desiderioleggere da sola“? E viene invece occupato il tempo a pulire ogni giorno pavimenti?

Nessuno sa perché.

Mancava la luce, lei ne aveva bisogno, la casa ne aveva bisogno, non aveva voglia di leggere (o io di aiutarla?)… non se ne arriva a capo; neanche con un’investigazione a ritroso, neanche con un atteggiamento aperto e non colpevolizzante, neanche con uno spirito processuale di tutto punto.

Niente.

Il grunco tende a cautelarsi e perpetra le anomalie, venendo meno al mandato originario, ovvero la ratio dell’intervento stesso: si sposta l’attenzione, si appannano gli occhiali degli operatori che prestano assistenza, il neon è acceso sulle abitudini consolidate e sulle giustificazioni.

Il grunco protegge i suoi pesci, ahimè intrappolandoli nella sua rete.

L’indifferenza del coordina-solo

Infine, quella che più mi preoccupa non diventare è la figura di chi muove i fili, da dietro il sipario: la faccia del servizio, quello che “ha da dimostrare” a più persone quotidianamente le proprie capacità gestionali; quello che potrebbe essere sacrificato se il servizio dovesse subire lamentele (oppure se il grunco lo rigettasse e lui avesse perso il significato di continuare a dimostrare).

Personalmente mi piace stimolare i pensieri, far circolare informazioni, supportare la crescita di nuove idee, cambiare le carte in gioco in ogni progetto che va avanti; ma ogni tanto mi chiedo, che cosa accadrebbe se avessi un momento di stanchezza, o un sovraccarico di lavoro che non mi permettesse di essere così sul pezzo?

Mi chiedo per esempio:

che fine farebbero gli 11 telini di scorrimento che puntualmente mi scrivo dove vanno portati (e se non lascio un promemoria è raro che a fine servizio ce lo si ricordi)?

Perché solo alcune OSS trovano la bellezza di scrivere su taccuini colorati le emozioni suscitate dalla doll therapy a domicilio?

perché si pensa che io debba ricordarmi tutto, appuntarmi tutto, mentre se un’OSS non legge una consegna… “le sarà sfuggito“?

Ecco, qui nasce a volte il coordina-solo: il leader che fa lo stretto necessario.

Non inventa moduli nuovi che debbano comunque poi essere avallati, non scavalca, non ricorda, non sogna.

Non ci tiene proprio a chiedere teli di scorrimento, non è compito suo.

Non lascia taccuini colorati (non è mica un animatore!).

Non ricorda tutto, e appunta solo nel suo orario di lavoro. Il resto si perde: si vede che l’organizzazione ha una falla, si dice tra sé e sé.

Non cambia gli orari degli assistiti: gli orari sono quelli, occorre adeguarsi.

Non si pone mille domande (mica è un terapeuta!).

Quella del coordina-solo è un’organizzazione precisa, limpida, sicura, fatta di pochi lineari tasselli, con poche falle e scarsa possibilità di errore.

Se le OSS hanno un dubbio, non sarà certo lui a cercare per loro il protocollo specifico (Non le abbiamo assunte con una professionalità?).

Ritrovare il senso di essere coordinatore

Ogni tanto mi piace giocare al coordina-solo: mi da sicurezza, mi fa sentire in pari.

Poi però quasi sempre e quasi subito torno a sognare. E per sognare servono fantasia, voglia, motivazione, passione e una massiccia dose di errori da cui imparare:  tutte cose che il coordina-solo ha perso nel viaggio.

il coordina-solo, infatti, può essere pericoloso a lungo andare.

Può smantellare le buone prassi costituitesi nei periodi floridi, può voltarsi di fronte a un’incuria, non ricercare bellezza nella sua organizzazione; potrà usare senza remore parole taglienti come “nonnini” o “facciamo un bagnetto“.

Tenere alta l’attenzione, la voglia, la passione, l’ardente fuoco dei coordinatori non è cosa da poco.

E ancora una volta, estromessa la base del minimum che serve (formazione/tempi/carico di lavoro ragionevole), avanza solo una cosa, quella che ti fa lavorare felice, pensare a cose nuove, progettare il bello e allontanare le brutture: saper sognare.

In quei momenti in cui mi riapproprio dei miei significati di senso, prendendo le distanze dal coordina-solo che prova a tentarmi, ritrovo il motivo vero che mi spinge a scegliere ogni giorno questo lavoro, e allora apro la mente.

Agli errori, alle critiche, agli Operatori socio-solitari e alle paludi dei grunchi.

Mi faccio strada ed è così che, pian piano, mi libero dei pesi nel mio zainetto di sassi.

About the Author: Francesca Poletti

Coordinatrice servizi domiciliare Apuane, Cooperativa G. Di Vittorio

In quest’articolo curato da Francesca Poletti, coordinatrice di servizi domiciliari della Cooperativa DiVittorio, e Roberta Betti, assistente sociale, compaiono tre figure solo all’apparenza immaginarie: l’operatrice socio-solitaria, il grunco e il coordina-solo. Si tratta di tre esempi umani significativi che ci invitano a riflettere sul delicato equilibrio tra solitudine e lavoro in équipe con cui il coordinatore, in particolare, deve fare i conti quotidianamente. 

Essere coordinatore nella Cura

Sono una coordinatrice da 20 anni, con più o meno difficoltà, e con un bel bagaglio di esperienze.

Oggi so che quasi tutte le decisioni che prendo, è meglio se le faccio ben capire a chi lavora con me, altrimenti saranno oggetto di pubblica mia derisione, o, addirittura, non verranno prese in considerazione.

Spesso, quando un’OSS è in un momento di difficoltà, c’è un’organizzazione che si cura di lei e del suo malessere.

Ma una brava coordinatrice difficilmente può permettersi il lusso di mostrare debolezza (“avete notato? ci sarà qualcosa che non va? sarà meglio controllare gli orari, non vorrei che sbagliasse… sarà innamorata?”).

Essere coordinatore nella Cura significa muoversi in un equilibrio delicato tra solitudine e dinamiche di gruppo.

In quest’articolo proviamo a raccontare tre esempi significativi di dinamiche umane che possono rendere difficile la vita del coordinatore nei contesti di cura.

Oltre alle mille intemperie e imprevisti quotidiani, esistono infatti ai miei occhi almeno 3 esempi significativi di come l’ambiente organizzativo possa diventare il terreno paludoso della trascuratezza, della noncuranza, e persino, alla lunga, del mal-trattamento.

Per fortuna – mi dico sempre – riusciamo ancora a riconoscere e a cercare di migliorare, di tenere i piedi “fuori dalla palude” o tendere una mano a chi sta per affondare.

L’operatrice socio-solitaria

Incontro spesso comportamenti simili a quelli di Edwige, l’operatrice socio-solitaria.

Edwige è un’esecutrice, convinta che ci sia poco altro oltre la sua prestazione; è una che “fa il suo“. Infatti formalmente non le si può dire nulla.

Lei legge le consegne quando ce la fa – perché lei “ha una vita” –  e se riceve un’osservazione da un familiare, non spende energie per condividerla nel gruppo: lo leggerà chi verrà.

Non pensa se le cose che sta dicendo alla madre dell’assistito, vengano veramente recepite: “io l’ho detto”, pensa.

Edwige è un fantasma nel gruppo: non interviene quasi mai per dire la sua, si isola, si estranea, pensa non sia necessario. Con quel pizzico di superiorità, non si confonde.

Lei perlopiù è una “presenzialista”: si contano sulle dita della mano le sue assenze dal lavoro. E questo ritiene sia un pregio del suo comportamento professionale: lei vale, su di lei si può contare.

Disponibile ai rientri, ma mai espressamente solidale a una collega che chiede aiuto.

Se contattata direttamente dal coordinamento, lei dice sì, ma se nasce nel gruppo una discussione su una modalità possibilmente da modificare – ad esempio “la spesa dovremmo farla più vicino casa” – lei non ne capisce il motivo (abbiamo sempre fatto così!).

E anzi che entrare in conflitto, preferisce, come deciso, andare sotto casa e dire all’assistito che nulla è cambiato.

Tende a non essere presente alle riunioni e a dirlo dopo, ovvero quando le viene ricordato che c’era un incontro, sminuendo così il significato del lavoro di équipe.

Tutto questo auto-isolamento, questo lavoro in solitaria, è inversamente proporzionale all’energia spesa a domicilio degli assistiti: quasi mai dell’Operatrice socio-solitaria si riceve un reclamo, un “non me la mandi più“; difficile uno scontro diretto.

Lei fornisce l’impressione di esserci. In realtà, però, non c’è veramente; lei non pensa al puzzle costruitosi intorno alla persona in cui ognuno è un pezzetto, lei compresa.

“E se per caso dovessi dare una responsabilità a qualcuno, per favore non a me

“Se detengo le chiavi di casa dell’assistito, preferisco riportarle in ufficio a fine turno”.

È molto abile a passare la palla (e dentro la testa del coordinatore nuota il pensiero “ma a casa ci devo andare io?”…).

Edwige è l’OSS della consegna “del vigile urbano”.

Quella che, se le chiedi informazioni su un servizio che non conosci, e ti aspetti approcci fortunati, caratteristiche personali, gusti e predilezioni, avrai solo:

“Abita in via Rossi e si fa igiene il mercoledi”.

L’operatore socio-solitario, stagnato e impaludato nelle sue stesse torbide acque, è l’incubo delle persone proattive: di quelle che vogliono la risposta chiara e sincera, l’autenticità, anche lo scontro se serve.

Quando si pone un confronto, invece, stai sicuro che Edwige è online… ma non risponderà.

Il gruppo-branco, ovvero il grunco

Quando un gruppo di lavoro diventa un branco, agisce a protezione: nessuno sembra avere responsabilità diretta e personale (“siamo andati tutti“).

Il grunco è uno degli aspetti del mio lavoro che più mi spaventa.

Mi spaventa per esempio quando non è previsto il riordino a domicilio di Adelaide, ma un operatore inizia a farlo, e a seguire tutti lo fanno. E quando chiedi:

come mai non viene più seguito il progetto pattuito di far esercitare nella lettura Adelaide, 100 anni e un sol desiderioleggere da sola“? E viene invece occupato il tempo a pulire ogni giorno pavimenti?

Nessuno sa perché.

Mancava la luce, lei ne aveva bisogno, la casa ne aveva bisogno, non aveva voglia di leggere (o io di aiutarla?)… non se ne arriva a capo; neanche con un’investigazione a ritroso, neanche con un atteggiamento aperto e non colpevolizzante, neanche con uno spirito processuale di tutto punto.

Niente.

Il grunco tende a cautelarsi e perpetra le anomalie, venendo meno al mandato originario, ovvero la ratio dell’intervento stesso: si sposta l’attenzione, si appannano gli occhiali degli operatori che prestano assistenza, il neon è acceso sulle abitudini consolidate e sulle giustificazioni.

Il grunco protegge i suoi pesci, ahimè intrappolandoli nella sua rete.

L’indifferenza del coordina-solo

Infine, quella che più mi preoccupa non diventare è la figura di chi muove i fili, da dietro il sipario: la faccia del servizio, quello che “ha da dimostrare” a più persone quotidianamente le proprie capacità gestionali; quello che potrebbe essere sacrificato se il servizio dovesse subire lamentele (oppure se il grunco lo rigettasse e lui avesse perso il significato di continuare a dimostrare).

Personalmente mi piace stimolare i pensieri, far circolare informazioni, supportare la crescita di nuove idee, cambiare le carte in gioco in ogni progetto che va avanti; ma ogni tanto mi chiedo, che cosa accadrebbe se avessi un momento di stanchezza, o un sovraccarico di lavoro che non mi permettesse di essere così sul pezzo?

Mi chiedo per esempio:

che fine farebbero gli 11 telini di scorrimento che puntualmente mi scrivo dove vanno portati (e se non lascio un promemoria è raro che a fine servizio ce lo si ricordi)?

Perché solo alcune OSS trovano la bellezza di scrivere su taccuini colorati le emozioni suscitate dalla doll therapy a domicilio?

perché si pensa che io debba ricordarmi tutto, appuntarmi tutto, mentre se un’OSS non legge una consegna… “le sarà sfuggito“?

Ecco, qui nasce a volte il coordina-solo: il leader che fa lo stretto necessario.

Non inventa moduli nuovi che debbano comunque poi essere avallati, non scavalca, non ricorda, non sogna.

Non ci tiene proprio a chiedere teli di scorrimento, non è compito suo.

Non lascia taccuini colorati (non è mica un animatore!).

Non ricorda tutto, e appunta solo nel suo orario di lavoro. Il resto si perde: si vede che l’organizzazione ha una falla, si dice tra sé e sé.

Non cambia gli orari degli assistiti: gli orari sono quelli, occorre adeguarsi.

Non si pone mille domande (mica è un terapeuta!).

Quella del coordina-solo è un’organizzazione precisa, limpida, sicura, fatta di pochi lineari tasselli, con poche falle e scarsa possibilità di errore.

Se le OSS hanno un dubbio, non sarà certo lui a cercare per loro il protocollo specifico (Non le abbiamo assunte con una professionalità?).

Ritrovare il senso di essere coordinatore

Ogni tanto mi piace giocare al coordina-solo: mi da sicurezza, mi fa sentire in pari.

Poi però quasi sempre e quasi subito torno a sognare. E per sognare servono fantasia, voglia, motivazione, passione e una massiccia dose di errori da cui imparare:  tutte cose che il coordina-solo ha perso nel viaggio.

il coordina-solo, infatti, può essere pericoloso a lungo andare.

Può smantellare le buone prassi costituitesi nei periodi floridi, può voltarsi di fronte a un’incuria, non ricercare bellezza nella sua organizzazione; potrà usare senza remore parole taglienti come “nonnini” o “facciamo un bagnetto“.

Tenere alta l’attenzione, la voglia, la passione, l’ardente fuoco dei coordinatori non è cosa da poco.

E ancora una volta, estromessa la base del minimum che serve (formazione/tempi/carico di lavoro ragionevole), avanza solo una cosa, quella che ti fa lavorare felice, pensare a cose nuove, progettare il bello e allontanare le brutture: saper sognare.

In quei momenti in cui mi riapproprio dei miei significati di senso, prendendo le distanze dal coordina-solo che prova a tentarmi, ritrovo il motivo vero che mi spinge a scegliere ogni giorno questo lavoro, e allora apro la mente.

Agli errori, alle critiche, agli Operatori socio-solitari e alle paludi dei grunchi.

Mi faccio strada ed è così che, pian piano, mi libero dei pesi nel mio zainetto di sassi.

About the Author: Francesca Poletti

Coordinatrice servizi domiciliare Apuane, Cooperativa G. Di Vittorio

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