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L’arte nei luoghi di cura non è paragonabile al “cambiare le tende di casa”, ci dice Daniela Magnetti, che abbiamo intervistato per rivista CURA online: la sua funzione è tradurre un messaggio, favorire la comunicazione di quei luoghi

Daniela lei si è occupata di allestimenti di luoghi di cura attraverso opere d’arte, ci può dire di cosa si occupa e in che modo sono arte e cura sono connessi?

  
 Sono Daniela Magnetti e sono direttore di Palazzo Bricherasio di Torino dal 2009. Da diverso tempo insieme all’Asl ci occupiamo di portare l’arte nei luoghi di cura con lo scopo usarla come mezzo che facilita la comunicazione, dunque non per mero allestimento ma per una funzione pedagogica.


Daniela Magnetti è storica dell’arte e Direttore Artistico di Banca Patrimoni Sella&C.


 
Osservando i luoghi di cura ci siamo trovati di fronte a un’evidenza: spesso il linguaggio clinico è poco recepibile da parte dell’utente (familiare, utente o paziente) e ha sempre bisogno di una traduzione. Quella della medicina è solitamente una comunicazione afona, non capace di arrivare alle orecchie del paziente e di per sé non è in grado di farsi comprendere.
 
Abbiamo quindi capito che l’arte poteva servire a tradurre, a interpretare il linguaggio clinico proprio perché prevede l’utilizzo del linguaggio emozionale. Il tema della comunicazione è poco sviluppato nella formazione medica e il personale sanitario fa fatica a usare parole comprensibili al di là del linguaggio tecnico.
 
Pur essendo fondamentale per i luoghi di cura, non esiste un’attenzione concreta verso la comunicazione al loro interno. Noi siamo carenti sull’informazione sanitaria di base. Mi sono trovata spesso a spiegare cosa fosse il “triage” ai pazienti in sala di attesa in radiologia, cosa fosse una risonanza magnetica, una tac, una RX. Si dà per scontato che il paziente sia pronto a interagire in modo positivo, ma i pazienti sono spesso disinformati.
 
 
Faccio un esempio. Nelle scuole non facciamo educazione civica sull’ambito sanitario: questo significa che i ragazzi quando si trovano in pronto soccorso non capiscono i codici e non conoscono il significato dell’attesa. Questa è una delle criticità maggiori nella gestione del pronto soccorso. E infatti l’arte qui può entrare in gioco portando, ad esempio, le competenze della museografia, con gli allestimenti tipici dei musei che sono rivolti ad un pubblico molto ampio e che hanno caratteristiche comprensibili in modo universale. Quella del linguaggio museografico è una delle esperienze di inserimento dell’arte nei luoghi di cura.
 

Qual è la funzione specifica dell’arte nei luoghi di cura?

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Una cosa importante da dire è che il dovere dell’arte nei luoghi di cura è quello di svolgere una funzione sociale. L’arte ha sempre questo scopo quando esce dal suo ambito, cioè dal contesto museale. Questo vuol dire che deve attenersi alle esigenze di un luogo specifico. Quando vado nei reparti l’intenzione che ho non è quella di cambiare le tende o di arredare, ma ho una finalità diversa, che è quella di usare gli strumenti dell’arte in modo che possano essere utili agli utenti – pazienti, caregiver o anche al personale sanitario.


Abbiamo strutture sanitarie che hanno chilometri di corridoi che sono terra di nessuno e di cui nessuno si prende cura. Sono quindi destinati a ospitare messaggi che non hanno nessuna attinenza alle realtà di cura. Per esempio messaggi di vendita, a volte insulti. La cosa che manca è usare questi spazi ai fini di una comunicazione, di una didattica sanitaria. E ancora, parlare di comunicazione non significa solo riferirsi alla segnaletica, ma vuol dire anche saper fornire agli utenti messaggi che possano qualificare meglio i luoghi di cura in cui si trovano.

Per esempio nella chirurgia vascolare i pazienti talvolta non sono capaci di comprendere cosa significhi proprio l’etimologia del nome del reparto. Lì ci siamo resi conto della necessità di trasferire meglio le informazioni e della sanità nelle parti in cui è carente.
 
Spesso ci sentiamo dire dalla sanità che “non c’è abbastanza tempo”. Ma questo tempo può essere recuperato solo dando informazioni più precise. Se gli utenti nell’arco della giornata fanno sempre le stesse domande, è evidente che il motivo è la carenza di informazioni ed è comprensibile che il personale non riesca a rispondere a tutte le richieste. Se le risposte alle domande “quando sono gli orari di visita?” o “quando posso parlare coi medici?” venissero scritte in modo adeguato, permetterebbero di far risparmiare tempo al personale sanitario.
 
La nostra sanità è vincolata a esporre il regolamento in ogni camera di ospedale che, di solito, viene stampato in una carta formato A4 con una scritta piccolissima che nessuno legge mai. In questo modo assolviamo al dovere di esporre un regolamento senza però raggiungere il nostro scopo, che è dare informazioni, orientare le persone.
 
Se dal regolamento venissero estrapolate frasi chiave ed esposte in modo graficamente accattivante in tutto il reparto, si riuscirebbe a far circolare meglio i messaggi della sanità senza un costante intervento del personale. Abbiamo molte evidenze del funzionamento di questa comunicazione nei reparti.
 
Un’altra attività che facciamo attraverso l’arte è quella di rendere leggibile ed esteticamente piacevole il luogo di cura. Abbiamo la percezione che questi luoghi siano abbandonati e che non abbiano un riguardo estetico, come se l’estetica non fosse importante.
 
Una volta in un reparto di otorino-laringoiatria abbiamo scelto una camera campione che abbiamo allestito con delle foglie verdi, in modo da circondare il letto del paziente dal soffitto fino alle pareti. Dopo alcuni giorni la caposala del reparto raccontò che molti pazienti chiedevano espressamente di essere ricoverati in quella stanza perché il piacere estetico li faceva sentire meglio accolti. L’estetica fa bene all’anima e alla mente di un paziente perché lo aiuta a sentirsi meno estraneo in un posto che non conosce e nel quale dovrà stazionare per un po’, per motivi che non sono quasi mai piacevoli.
 

Altri esempi di come usare l’arte nei luoghi di cura?


C’è anche una parte più nascosta che chiamo “le comunicazioni nel cassetto”. Molte volte i pazienti lasciano testimonianze positive in reparto, le quali vengono conservate dal personale. Una cosa che abbiamo fatto è stata quella di introdurre un allestimento museale usando pannelli in sughero per le pareti e inserendo tutti i biglietti che il reparto aveva raccolto nel corso degli anni.

Questo pannello aveva la funzione di comunicare qualcosa di quel reparto che i pazienti desideravano ascoltare. I nuovi pazienti, infatti, erano felici di sapere come si fossero trovati quelli prima di loro, che cosa avessero vissuto. Le testimonianze diventavano fondamentali per loro, ma anche per i curanti, che potevano avere un riscontro dei loro gesti.
 
Questi biglietti diventavano anche una sorta di intrattenimento, perché i pazienti nel pomeriggio uscivano appositamente dalle loro camere per andarli a leggere e a commentare. Questo ci ha fatto capire quanto un allestimento possa fare la differenza nei luoghi di cura. Pochi giorni dopo l’inserimento dei pannelli, sono apparsi altri biglietti attaccati con lo scotch. Questa esperienza ci ha fatto capire l’importanza del testimoniare, dello scrivere e infatti abbiamo avviato successivamente un progetto che si chiama “scrivere sui muri” per rafforzare quei messaggi e fare in modo che perdurassero nel tempo.


Quando chiediamo al personale sanitario di raccontare l’aspetto umano della loro professione le reazioni sono di spaesamento, perché il linguaggio clinico è protetto da uno scudo di tecnicismo che difficilmente consente di relazionarsi in modo umano ed emozionale con l’utente.
 
Le esperienze fatte durante il periodo Covid hanno rafforzato le nostre consapevolezze su quello che avevamo già fatto precedentemente nei reparti.
 
Dare maggiore consapevolezza agli utenti di un reparto su ciò che si stanno approcciando a fare, fa tutta la differenza sul tipo di esperienza che faranno. Io sono anche antropologa e dunque per me l’osservazione di quel che avviene nelle sale di attesa è molto importante prima di intervenire. Osservando e ascoltando quello che i pazienti si dicevano in una sala di attesa di un reparto di radiologia, ho riscontrato che questi avevano una percezione strana rispetto agli esami che andavano a fare.

Questo vuol dire che i pazienti non avevano la minima conoscenza della diagnostica e non sapevano che cosa si sarebbe visto con una RX o cosa sarebbe servito esattamente fare quell’esame. Non conoscendo la tipologia degli esami, molti pazienti hanno paura di affrontarli, perché per loro sono un mistero o perché ne hanno sentito parlare in modo non tranquillizzante.


In questa sala di radiologia abbiamo quindi preso delle opere d’arte per far capire alle persone cosa si sarebbe visto con gli esami di radiografia o di risonanza magnetica.  Se noi prendiamo un’opera di Caravaggio, che lavorava col bianco di piombo, e facciamo una RX del quadro, otterremo un’immagine in bianco e nero dell’opera del Caravaggio. Caravaggio usava la biacca che, essendo radiopaca, permette di far emergere la figura completa di quello che stiamo analizzando.

Se invece facessimo una risonanza magnetica del quadro di Caravaggio non vedremmo assolutamente nulla. Queste due immagini sono state impattanti sul paziente, intanto perché si trattava di una immagine molto famosa e riconoscibile, ma anche perché così riusciva a comprendere cosa una RX fosse in grado di riportare. La radiografia ha la necessità di trovare qualcosa di radiopaco, dunque non verrà fatta non sui nostri tessuti molli sul nostro scheletro.
 
Abbiamo fatto la stessa cosa con una mummia e le abbiamo fatto una RX per mostrare che dall’esame non sarebbe emerso nulla. Quando invece abbiamo fatto la risonanza magnetica sulla mummia abbiamo visto che potevamo penetrare all’interno delle parti molli e osservarle. In questo modo abbiamo spiegato come si applica la risonanza.
 
 
La medicina e l’arte sono legate al di là dell’intrattenimento; la medicina non a caso si chiamava “ars medica”. Per gli antichi queste due discipline erano indissolubilmente legate. Oggi si è perso questo legame e si è persa anche la relazione fra curante e curato.

L’arte oggi può tornare a rompere il silenzio di una medicina afona e che non trova le parole corrette, per soddisfare le esigenze emozionali dei pazienti.

In che modo l’arta favorisce la comunicazione?


Questo uso dell’arte per favorire la relazione di cura passa per le emozioni, ma passa anche per la ricerca di una terminologia adeguata. Servono infatti competenze linguistiche diverse per far comprendere il linguaggio medicale. Per la medicina questa ricerca è fondamentale perché altrimenti non raggiunge il suo scopo, che è quello di prendersi cura globalmente delle persone. Non basta la sola clinica, serve veicolare un messaggio e serve anche verificare che questo messaggio arrivi al destinatario.


La cura e la comunicazione funzionano quando sono in grado di portare un cambiamento, se il messaggio non arriva a destinazione io non ho prodotto nessun cambiamento e ho lasciato la persona uguale a prima.
 
È necessaria quindi una formazione sul linguaggio. Faccio un esempio pratico su come lavoriamo: noi partiamo dalla visione di un quadro, per esempio un quadro di Tabusso. Se su questa immagine io faccio una serie di domande, per esempio chiedo di provare a raccontarlo con 21 parole, dalla “A” alla “Z” in modo oggettivo, ottengo delle descrizioni tipo “A come aria”, “C come cielo”, “L come labbra”, ecc. Se chiedo invece di fare una lettura soggettiva, senza l’uso di sostantivi ma solo con aggettivi, le cose cambiano.


 
Non è facile per le persone riuscire a descrivere in chiave emozionale e spesso si riscontrano carenze del nostro vocabolario. Ci sono differenze di linguaggio fra gli anziani e i giovani e la medicina dovrebbe essere in grado di adattarsi a chi ha di fronte. Spesso, come dicevo, il suo messaggio è afono e l’arte cerca di lavorare su questo silenzio.

Che funzione ha avuto l’arte nei luoghi di cura durante la pandemia?


L’arte compensa il silenzio a lavora sulle possibilità narrative. In piena pandemia abbiamo usato le opere d’arte per ricostruire un linguaggio emotivo che, specialmente nelle prime fasi, era scomparso e che si voleva proprio nascondere, come a volersi proteggere.
 
Siamo arrivati in reparti non originariamente ospedalieri che erano stati adibiti a reparti Covid. Si trattava di “luoghi non luoghi” privi di finestre e quindi di luce. Chi viveva questi spazi perdeva la concezione del tempo. Questo è un elemento comune a molti pronto soccorso nei quali i pazienti si sentono completamente disorientati.
 
L’aver portato le opere d’arte nei reparti Covid ha sconvolto la percezione quotidiana di medici e pazienti. Siamo riusciti a ovviare alle difficoltà burocratiche che conseguono gli spostamenti delle opere, potendo contare sulla gentilezza di collezionisti privati che le hanno messe a disposizione.

Quando abbiamo fatto didattica su quelle opere abbiamo visto stupiti che molte persone del personale sanitario, anche dopo turni estenuanti, decidevano di restare perché volevano imparare nuove forme di comunicazione e perché potevano trovare un antidoto contro lo stress in prevenzione del burnout. L’arte è servita moltissimo in questi casi, così come negli allestimenti degli hub vaccinali.
 
Il grande problema di quei posti è che spesso gli anziani non riuscivano a rispettare il tempo di attesa post vaccino e questo creava problemi di gestione al personale di cura.
 
Abbiamo istituito vere e proprie mostre che hanno intrattenuto gli anziani e consentito al personale di gestire meglio gli hub. Inoltre, questa attività consentiva agli anziani di interagire a al personale sanitario di monitorare meglio la salute degli utenti, perché un anziano che parla e si muove sta bene. Oltre a ciò i quadri rendevano gli hub dei luoghi estremamente più gradevoli.
 
I nostri luoghi di cura devono imparare a prendersi cura prima di tutto di loro stessi. Il luogo di cura è il primo biglietto da visita e se questo è uno spazio che spaventa, nel quale non si sta volentieri, la persona non sarà ben predisposta e noi non avremo fatto un buon servizio.
 


L’estetica del luogo è il primo messaggio di accoglienza. Se non c’è cura dei luoghi di cura non può esserci completa fiducia da parte degli utenti.


 
La porta di ingresso del luogo è il primo passo di un percorso nel quale abbiamo la responsabilità di accogliere, informare. Noi abbiamo diversi ordini di comunicazione da rispettare: la comunicazione sanitaria, quella necessaria per il paziente; l’informazione generale e la segnaletica.
 
 
 
Ci sono anche luoghi come i poliambulatori dove gli anziani passano molto tempo e tutti questi luoghi hanno bisogno di essere trasformati dal punto di vista estetico.
Spesso questa trasformazione avviene per la buona volontà delle persone che ci lavorano, che aggiungono qualche elemento artigianale. Però il punto è che si tratta sempre di luoghi di cura, che non possono dare l’impressione di essere degli asili. I luoghi di cura hanno delle regole di tipo logistico e sanitario ma hanno anche regole estetiche, di tipo cromatico ad esempio. Anche l’uso dei font è importante, perché se scriviamo in modo illeggibile facciamo fatica a far arrivare i messaggi.
 
Noi abbiamo allestito un poliambulatorio all’interno del quale c’era una parte dedicata a persone con disturbi psichiatrici la quale non riusciva a interagire con il resto della popolazione seduta vicino. Il contesto architettonico era lo stesso ma i due luoghi avevano come una sorta di barriera e non interagivano fra loro. Quindi abbiamo chiesto agli utenti del servizio di salute mentale di creare delle opere d’arte per allestire il poliambulatorio. Questo è stato allestito di tutto punto con opere varie. Gli anziani del quartiere, da quel momento, hanno cominciato a vivere quel luogo non solo come luogo di cura, ma andavano lì appositamente per ammirare i quadri, per mostrarli a qualcuno.

È diventato quindi un luogo di vita e la vita è la miglior cura.
 
Molte persone hanno cominciato ad apprezzare le opere fino a volerle comprare. L’allestimento ha avvicinato il centro di salute mentale col resto del poliambulatorio, ha abbattuto il muro di separazione. Quindi anche quella diffidenza e quella paura che viene associata a quei posti, insieme allo stigma che spesso si portano dietro. Questa esperienza è stata una bella commistione fra arte, attività di laboratorio, artigianato e allestimento degli spazi che sono diventati belli, piacevoli e inclusivi.
 
 
Uno dei luoghi più brutti che abbia visto è stata la sala d’attesa davanti il reparto di chirurgia di un ospedale pediatrico. In questa sala d’attesa erano state dipinte delle scene di cartoni animati, sopra le quali i genitori avevano iniziato a lasciare testimonianze delle loro emozioni e percezioni mentre attendevano i loro figli in sala operatoria.

Tutto era ricoperto di graffiti in tutte le lingue. La sensazione era quella di essere in una stazione della metropolitana molto degradata. I messaggi erano forti e toccanti e come antropologa ne ho studiato il contenuto. Ho visto che i messaggi si ripetevano periodicamente, dunque ho constatato che le persone si trovavano plurime volte nel tempo.

Ho chiesto il perché non venissero ripuliti dal personale di cura e mi fu risposto che se anche li avessero tolti, si sarebbero ripresentati lo stesso dopo poco. Mi è quindi venuto da pensare che c’era una grande carenza di comunicazione e una grande voglia di comunicare emozioni e che questo non poteva essere ignorato nel progettare e pensare i luoghi di cura.
 
 

Come è nato progetto Va.sa.ri con l’Associazione “La Piazzetta” di Ivrea?




 
L’Associazione “La Piazzetta” ha la sua sede nel polo universitario infermieristico di Ivrea col quale collaboro su progetti riguardo l’estetica e l’arte nei luoghi di cura.
 L’origine dell’esperienza di interazione fra musei e Alzheimer risale a un’iniziativa del MOMA di New York di circa vent’anni fa, che è partita creando percorsi didattici per persone affette da demenza e per i loro caregiver.


Questi percorsi avevano lo scopo di regalare un momento di quotidianità piacevole alla persona con Alzheimer e al suo accompagnatore. Proprio perché l’arte non ha regole di fruizione, consente di emozionarsi e di tirare fuori contenuti totalmente soggettivi. Non esiste un solo giallo e non esiste un solo verde per tutti, ma esistono molti gialli e molti verdi. Ecco, questa molteplicità di linguaggi all’interno dell’opera d’arte è stata molto utile per favorire la comunicazione nell’ambito di questi percorsi legati alla demenza.
 
Il corridoio Va.sa.ri a Ivrea ha fatto una cosa diversa: ha portato riproduzioni di opere d’arte all’interno di spazi condivisi da studenti e dai familiari che frequentavano lo stesso spazio al sabato pomeriggio.
 
 
L’idea era quella di usare le opere d’arte come punto di partenza per uno scopo comunicativo. Siamo partiti dalla testa di Medusa di Caravaggio che ci ha consentito di tirare fuori quelle parole legate alla demenza che spesso soffochiamo per stigmi culturali. Quell’urlo della testa di Medusa era proprio quel grido dal quale volevamo partire per stimolare un linguaggio nascosto, per tirare fuori le parole che si soffocano in gola, quelle che si vorrebbero dire ma che non si riescono a pronunciare.

Attraverso l’arte queste parole sgorgano e dissipano gli stigmi culturali. Quindi l’arte facilita questo linguaggio e permette anche una lettura trasversale di opere molto famose, quasi una loro reinterpretazione.
 
Si costruisce così un linguaggio d’arte che non è quello dello storico, ma è un linguaggio emozionale che è insito in ognuno di noi. Si tratta di quelle “parole in libertà”, come dicevano i futuristi, che devono restare in libertà e che consentono di favorire il dialogo interiore e quello fra una persona con demenza e i suoi caregiver.

Quando parliamo di arte ci riferiamo sempre a un qualcosa di nicchia. Cosa dovremmo fare per farla uscire e renderla più alla portata di tutti?


Intanto parlarne di più e non soltanto quando si tagliano i nastri durante le inaugurazioni di nuovi reparti. Sembra quasi che, quando la associamo ai luoghi di cura, l’arte sia comparabile al cambio delle tende in casa. Non è questa la sua funzione e quindi dovremmo parlarne in modo più adeguato, secondo il suo reale scopo, che è quello sociale.
 


L’arte non è propria dei luoghi di cura, ma conquista i luoghi di cura, se ne appropria e li rende accessibili.

Abbellire non è lo scopo dell’arte. Se viene proposta un’opera all’interno di un luogo di cura questa dovrà far capire a chi la guarda il perché è lì.
 
Possiamo avere uno spazio “bello” senza usare le opere d’arte. Usare le opere d’arte non trasforma il luogo di cura in un museo, perché un luogo di cura deve restare tale. L’arte si deve adattare allo spazio in cui viene introdotta, quindi deve avere un motivo, deve esserci un progetto che la sostenga.
 
Ho visto l’uso di opere d’arte che non avevano dietro un motivo di comunicazione specifico, ma erano lì per il gusto di qualcuno. E visto che non a tutti piacciono le stesse tende o lo stesso colore, a mio avviso si tratta di una forma di prepotenza.
 
L’arte ha finalità aggregative, per cui decidere quali opere si mettono sui reparti deve avere un senso condiviso dietro. Se stiamo allestendo spazi comuni l’arte non può essere fine a se stessa, ma deve rispondere a un “perché” comune.
 
Mi viene in mente un esempio positivo di un allestimento d’arte: in un poliambulatorio di oculistica sono stati inseriti dei dettagli di occhi tratti dalle maggiori opere della storia dell’arte, dalle sculture egizie fino alle opere contemporanee. In questi dettagli di occhi si potevano cogliere le emozioni, ma si potevano anche riscontrare alcune patologie.

Tante volte l’arte è stata capace di raccontare la medicina. Spesso si vedevano forme di artrite reumatoide nelle mani delle modelle che facevano le Madonne per molti artisti. Quando utilizzavano la stessa modella nell’arco del tempo si poteva vedere la deformazione delle sue mani, le cui dita si andavano separando man mano.
 


L’arte ha spiegato tante volte la malattia e non ha mai cercato di nasconderla.

Questa infatti non solo può essere ritratta, ma può essere affiancata alla parola “bello”. Tante volte noi vediamo la bellezza in opere d’arte con soggetti che hanno patologie e magari non lo sappiamo perché non siamo in grado di riconoscerle. Questo aiuta a prendere coscienza di come non esista una sola accezione del bello, perché l’arte lo ha declinato in tante forme. E ci aiuta anche nel caso dovessimo vedere trasformarsi il nostro corpo per qualche patologia, perché il bello non è qualcosa di definito, ma può essere letto diversamente da ognuno di noi.
 
Abbiamo una serie infinita di aiuti che ci vengono dall’arte. Per esempio durante le Olimpiadi di Londra ricordo di un artista che aveva sofferto per una patologia ad una gamba e per la quale aveva subito un’amputazione. Ad un certo punto questa si era dedicata alla costruzione di protesi che lei stessa lavorava come opere d’arte. Quello fu un momento molto importante perché a Londra ci fu un primo momento di esposizione di quelle protesi e perché diede inizio a una serie di iniziative simili.

Grazie Daniela per averci introdotto nel mondo dell’arte e per averci fatto comprendere quali possibilità enormi abbia per rendere i luoghi di cura più simili a luoghi di vita.


La rivista CURA ha dedicato all’arte il numero 7 di settembre 2021 il cui titolo è “La demenza è un’opera d’arte“.

About the Author: Adriana Tidona

Ufficio Stampa di Editrice Dapero

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