- L’autodeterminazione della persona anziana, sopra ogni cosa
- Fuga dall’RSA, con danno
- Rosa scappa dall’RSA
- Il desiderio di Rosa
- Dirigere una RSA: un ruolo complesso
- Un direttore di RSA ha molti mandati
- L’autodeterminazione in RSA: partire dalla quotidianità
- Scegliere come se fossimo Rosa, per imparare tutti
Quando una signora anziana residente in RSA decide di uscire da sola e si fa male, si accende un dilemma etico e organizzativo: come rispettare l’autodeterminazione della persona anziana senza compromettere la sicurezza?
In quest’articolo a cura di Francesca Poletti, coordinatrice di servizi domiciliari della Cooperativa DiVittorio, e Roberta Betti, assistente sociale, si riporta un caso reale e le strategie multidisciplinari attuate per guardare alla Persona e aver cura della sua libertà.
L’autodeterminazione della persona anziana, sopra ogni cosa
Ci diamo un metodo, scegliendo la persona residente della RSA per affrontare in audit l’evento avverso cui si è resa protagonista, un tentativo di fuga.
Si uniscono le forze comuni dell’équipe, e si trovano strategie, cambi di rotta, multidisciplinarietà.
Solo in questo modo la nostra collega forse riesce a respirare, a non sentire solo il peso della scelta, a lavorare insieme, a non sentirsi profondamente sola.
Cerchiamo di accennare alle modalità di risoluzione dei vari conflitti, primo fra tutti quello con il gruppo degli operatori, che avanza giustificazioni difensive cui comunque va data risposta.
L’autodeterminazione della persona diventa il filo conduttore delle nostre scelte, prioritario rispetto ad ogni altra necessità, spesso solo organizzativa.Fuga dall’RSA, con danno
Sono prima di tutto un’assistente sociale, ma il mio spirito di appartenenza mi lega indissolubilmente alla cooperativa di cui sono socia, cui partecipo fattivamente alle decisioni e ai comportamenti.
Sono infine direttrice di RSA, con tutto il bagaglio di responsabilità e di implicazioni legali ed emotive, che questo ruolo si porta dietro.
L’ordine è puramente casuale, perché il mio mandato istituzionale s’intreccia, si scontra – s’incastra qualche volta – con il mandato sociale e con le altre prospettive.
Cerco quotidianamente di trovare un modo per uscire dalla scelta imposta, e coniugare le mie sfaccettature. Questo succede ancor di più di fronte a un evento avverso, e alla sua gestione.
Porterò come esempio il tentativo di fuga di una residente dalla struttura con danno, ossia caduta e trauma cranico.
Rosa scappa dall’RSA
Innumerevoli volte Rosa era uscita ed era stata “recuperata” facilmente perché ormai conosciuta dal vicinato.
Ma bastò una volta perché Rosa, uscita in ciabatte aperte sul retro, inciampasse, cadesse e subisse un trauma cranico.
L’ospedale invia una relazione molto negativa sull’operato della struttura, accusando di trascuratezza e mancata sorveglianza.
Gli operatori in turno relazionano l’accaduto dicendo che Rosa è uscita in una fascia oraria in cui loro non possono monitorare i movimenti dei residenti.
Aggiungono inoltre che Rosa è ingestibile, incontentabile, inquieta, che occupa loro molto tempo — nella somministrazione del pasto, nel momento dell’igiene personale, in cui devono assisterla per ottenere un risultato qualitativamente migliore e in minor tempo — quasi suggerendo una diminuzione delle sue autonomie.
Il gruppo si mette sulla difensiva sentendosi attaccato.
Rosa è mortificata dalla caduta e si sente non più in grado di esercitare il proprio potere decisionale.
Il desiderio di Rosa
La signora Rosa, soggetto attivo e firmatario di Progetto assistenziale Personalizzato (PaP), ultimamente espone la propria voglia di uscire, di farsi un giro, di sentirsi libera di scegliere.
Ha un amministratore di sostegno che conosce la situazione e concorda sulle uscite, in cui lei comunica e firma di lasciare la struttura per recarsi in posti definiti. Ma proprio questo a Rosa non piace.
Così, attende il cambio del turno in cui gli operatori sono occupati a lasciarsi le consegne per uscire furtivamente senza dire nulla a nessuno e senza firmare il registro.
Il cancello della struttura si apre al passaggio delle auto, quindi lei aspetta che la macchina passi e poi va, controllando che a bordo ci sia un parente e non operatori che la riconoscerebbero.
A niente vale l’invito a uscire con l’animatrice o con i volontari.
Rosa esce da sola.Dirigere una RSA: un ruolo complesso
La “fuga” di Rosa — che niente altro è se non una passeggiata — mi illumina sulle fragilità del ruolo complesso che ricopro.
Mi chiedo più volte quanto cozzi il concetto di umanizzazione delle cure con la parametrizzazione pura dell’assistenza, come se le “2,2384 ore per ospite non-auto” siano degne, giuste.
Come se il concetto di assistenza comprendesse il solo e unico impegno di espletare le quotidiane abluzioni.
Io nella mia quotidianità non progetto la mia vita sulla base del tempo che posso dedicare al raggiungimento di un determinate obiettivo.
Io mi pongo l’obiettivo e mi concedo non il minimo, ma il massimo del tempo a disposizione per raggiungerlo.
Un direttore di RSA ha molti mandati
Quando Rosa esce e si fa male avevo appena ridotto le ore assistenziali per uscita di 2 residenti dalla RSA: ho l’impressione che i parametri spersonalizzino la cura e livellino l’assistenza.
Fatico a sentirmi facilitatore di reti come vorrei. Più spesso mi sento contabile, problem solver, una ballerina senza punta a danzare su piani diversi, instabili.
Sento tutto il peso della precarietà, e in questo modo ho difficoltà a trasmettere solidità.
Qui si intersecano i famosi piani.
Il mandato istituzionale
Mi sento investita di una forte responsabilità.
Controllo la verifica del PaP, le firme dei partecipanti, il fatto che si rilevi ancora una volta il desiderio di uscita autonoma, cosa per altro naturale e per nulla deviante.
Mi chiedo se al cancello debba essere messa una forma più alta di controllo entrate/uscite, un colore rosso che fermi le intenzioni, una telecamera.
Il mandato sociale
Voglio riconoscere e tutelare la libertà individuale di Rosa.Propongo quindi di mettere un laccio sul retro delle sue ciabatte preferite, studiando con lei colore e stoffa.
Invito tutti i caregiver a reincontrarci e a raffrontarci sul fatto che forse rischiare la caduta accidentale è meno desolante che “contenere”, delimitare gli spazi, controllare Rosa.
Qualsiasi tentativo di confinare i residenti otterrebbe effetti contrari.
Suggerisco di trovare espedienti per rendere la sua giornata più sicura — tra cui spostare il passaggio di consegne vicino alla camera di Rosa – ma anche di potenziare i suoi momenti di autonomia, per alleviare la sua rabbia e la sua voglia di evasione.
Il mandato politico
Sento forte il desiderio di migliorare la qualità di vita nella mia RSA.
Coinvolgo l’equipe, ma anche le colleghe del servizio sociale e del Dipartimento di salute mentale che segue Rosa per avere un suggerimento, per seguire una linea comune, al fine di trasformare la giornata di Rosa in modo che lei sia meno smaniosa di cercare una porta.
Il mandato professionale
Accolgo le osservazioni degli operatori sulla carenza di personale che rende difficile la sorveglianza nonché il tempo necessario per seguire dal punto di vista relazionale le esigenze di Rosa e di altri come lei.
Allo stesso tempo penso sia necessario organizzare un focus formativo per gli operatori, motivandone le capacità, ma orientando le azioni solo sull’interesse centrato sulla persona, che non è da considerarsi “ingestibile”, ma assolutamente autodeterminata.
L’autodeterminazione in RSA: partire dalla quotidianità
All’ospedale invio la nostra relazione dell’accaduto e di tutto il percorso fatto con Rosa, chiedendo la sospensione del giudizio su un operato non conosciuto.
Anche questo cozza con l’evidente lacuna che ho riscontrato nel comportamento degli operatori e il loro voler determinare, gestire, Rosa.
Ogni azione intrapresa è quindi condivisa con Rosa, che, come mille altre persone, non tollera il numerino sulle sue camicette a Fiori, le porte chiuse, i divieti incomprensibili.
Scegliere come se fossimo Rosa, per imparare tutti
Alla fine scelgo di non scegliere.
Scelgo Rosa, mi chiedo io cosa vorrei al posto suo.
Ogni giorno diventerà una scoperta in più su quello che tutti noi scopriremo di lei: dalla pulizia della sua stanza – dove calibreremo gli orari a seconda dei suoi ritmi e non viceversa – fino alla somministrazione della terapia. E capiremo anche se quella casa lei se la sente casa, o solo un posto dove vivere.
Immersa tra tutte le sfaccettature del ruolo complesso che ricopro, mi soffermo sulla persona, sulla storia.
Somministrare per esempio la terapia dopo pranzo – anziché durante il pasto – le permetteva un sonnellino riparatore che copriva il delicato momento del passaggio consegne.
Mangiare e lavarsi da sola, la rendeva più felice.
Rosa da piccola amava intrecciare margherite: organizziamo un appuntamento pomeridiano di raccolta fiori all’esterno, da sola, in sicurezza.
E se Rosa “fuggirà” di nuovo, stavolta avrà scarpe adatte, e la consapevolezza di ognuno di noi.
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Quando una signora anziana residente in RSA decide di uscire da sola e si fa male, si accende un dilemma etico e organizzativo: come rispettare l’autodeterminazione della persona anziana senza compromettere la sicurezza?
In quest’articolo a cura di Francesca Poletti, coordinatrice di servizi domiciliari della Cooperativa DiVittorio, e Roberta Betti, assistente sociale, si riporta un caso reale e le strategie multidisciplinari attuate per guardare alla Persona e aver cura della sua libertà.
L’autodeterminazione della persona anziana, sopra ogni cosa
Ci diamo un metodo, scegliendo la persona residente della RSA per affrontare in audit l’evento avverso cui si è resa protagonista, un tentativo di fuga.
Si uniscono le forze comuni dell’équipe, e si trovano strategie, cambi di rotta, multidisciplinarietà.
Solo in questo modo la nostra collega forse riesce a respirare, a non sentire solo il peso della scelta, a lavorare insieme, a non sentirsi profondamente sola.
Cerchiamo di accennare alle modalità di risoluzione dei vari conflitti, primo fra tutti quello con il gruppo degli operatori, che avanza giustificazioni difensive cui comunque va data risposta.
L’autodeterminazione della persona diventa il filo conduttore delle nostre scelte, prioritario rispetto ad ogni altra necessità, spesso solo organizzativa.Fuga dall’RSA, con danno
Sono prima di tutto un’assistente sociale, ma il mio spirito di appartenenza mi lega indissolubilmente alla cooperativa di cui sono socia, cui partecipo fattivamente alle decisioni e ai comportamenti.
Sono infine direttrice di RSA, con tutto il bagaglio di responsabilità e di implicazioni legali ed emotive, che questo ruolo si porta dietro.
L’ordine è puramente casuale, perché il mio mandato istituzionale s’intreccia, si scontra – s’incastra qualche volta – con il mandato sociale e con le altre prospettive.
Cerco quotidianamente di trovare un modo per uscire dalla scelta imposta, e coniugare le mie sfaccettature. Questo succede ancor di più di fronte a un evento avverso, e alla sua gestione.
Porterò come esempio il tentativo di fuga di una residente dalla struttura con danno, ossia caduta e trauma cranico.
Rosa scappa dall’RSA
Innumerevoli volte Rosa era uscita ed era stata “recuperata” facilmente perché ormai conosciuta dal vicinato.
Ma bastò una volta perché Rosa, uscita in ciabatte aperte sul retro, inciampasse, cadesse e subisse un trauma cranico.
L’ospedale invia una relazione molto negativa sull’operato della struttura, accusando di trascuratezza e mancata sorveglianza.
Gli operatori in turno relazionano l’accaduto dicendo che Rosa è uscita in una fascia oraria in cui loro non possono monitorare i movimenti dei residenti.
Aggiungono inoltre che Rosa è ingestibile, incontentabile, inquieta, che occupa loro molto tempo — nella somministrazione del pasto, nel momento dell’igiene personale, in cui devono assisterla per ottenere un risultato qualitativamente migliore e in minor tempo — quasi suggerendo una diminuzione delle sue autonomie.
Il gruppo si mette sulla difensiva sentendosi attaccato.
Rosa è mortificata dalla caduta e si sente non più in grado di esercitare il proprio potere decisionale.
Il desiderio di Rosa
La signora Rosa, soggetto attivo e firmatario di Progetto assistenziale Personalizzato (PaP), ultimamente espone la propria voglia di uscire, di farsi un giro, di sentirsi libera di scegliere.
Ha un amministratore di sostegno che conosce la situazione e concorda sulle uscite, in cui lei comunica e firma di lasciare la struttura per recarsi in posti definiti. Ma proprio questo a Rosa non piace.
Così, attende il cambio del turno in cui gli operatori sono occupati a lasciarsi le consegne per uscire furtivamente senza dire nulla a nessuno e senza firmare il registro.
Il cancello della struttura si apre al passaggio delle auto, quindi lei aspetta che la macchina passi e poi va, controllando che a bordo ci sia un parente e non operatori che la riconoscerebbero.
A niente vale l’invito a uscire con l’animatrice o con i volontari.
Rosa esce da sola.Dirigere una RSA: un ruolo complesso
La “fuga” di Rosa — che niente altro è se non una passeggiata — mi illumina sulle fragilità del ruolo complesso che ricopro.
Mi chiedo più volte quanto cozzi il concetto di umanizzazione delle cure con la parametrizzazione pura dell’assistenza, come se le “2,2384 ore per ospite non-auto” siano degne, giuste.
Come se il concetto di assistenza comprendesse il solo e unico impegno di espletare le quotidiane abluzioni.
Io nella mia quotidianità non progetto la mia vita sulla base del tempo che posso dedicare al raggiungimento di un determinate obiettivo.
Io mi pongo l’obiettivo e mi concedo non il minimo, ma il massimo del tempo a disposizione per raggiungerlo.
Un direttore di RSA ha molti mandati
Quando Rosa esce e si fa male avevo appena ridotto le ore assistenziali per uscita di 2 residenti dalla RSA: ho l’impressione che i parametri spersonalizzino la cura e livellino l’assistenza.
Fatico a sentirmi facilitatore di reti come vorrei. Più spesso mi sento contabile, problem solver, una ballerina senza punta a danzare su piani diversi, instabili.
Sento tutto il peso della precarietà, e in questo modo ho difficoltà a trasmettere solidità.
Qui si intersecano i famosi piani.
Il mandato istituzionale
Mi sento investita di una forte responsabilità.
Controllo la verifica del PaP, le firme dei partecipanti, il fatto che si rilevi ancora una volta il desiderio di uscita autonoma, cosa per altro naturale e per nulla deviante.
Mi chiedo se al cancello debba essere messa una forma più alta di controllo entrate/uscite, un colore rosso che fermi le intenzioni, una telecamera.
Il mandato sociale
Voglio riconoscere e tutelare la libertà individuale di Rosa.Propongo quindi di mettere un laccio sul retro delle sue ciabatte preferite, studiando con lei colore e stoffa.
Invito tutti i caregiver a reincontrarci e a raffrontarci sul fatto che forse rischiare la caduta accidentale è meno desolante che “contenere”, delimitare gli spazi, controllare Rosa.
Qualsiasi tentativo di confinare i residenti otterrebbe effetti contrari.
Suggerisco di trovare espedienti per rendere la sua giornata più sicura — tra cui spostare il passaggio di consegne vicino alla camera di Rosa – ma anche di potenziare i suoi momenti di autonomia, per alleviare la sua rabbia e la sua voglia di evasione.
Il mandato politico
Sento forte il desiderio di migliorare la qualità di vita nella mia RSA.
Coinvolgo l’equipe, ma anche le colleghe del servizio sociale e del Dipartimento di salute mentale che segue Rosa per avere un suggerimento, per seguire una linea comune, al fine di trasformare la giornata di Rosa in modo che lei sia meno smaniosa di cercare una porta.
Il mandato professionale
Accolgo le osservazioni degli operatori sulla carenza di personale che rende difficile la sorveglianza nonché il tempo necessario per seguire dal punto di vista relazionale le esigenze di Rosa e di altri come lei.
Allo stesso tempo penso sia necessario organizzare un focus formativo per gli operatori, motivandone le capacità, ma orientando le azioni solo sull’interesse centrato sulla persona, che non è da considerarsi “ingestibile”, ma assolutamente autodeterminata.
L’autodeterminazione in RSA: partire dalla quotidianità
All’ospedale invio la nostra relazione dell’accaduto e di tutto il percorso fatto con Rosa, chiedendo la sospensione del giudizio su un operato non conosciuto.
Anche questo cozza con l’evidente lacuna che ho riscontrato nel comportamento degli operatori e il loro voler determinare, gestire, Rosa.
Ogni azione intrapresa è quindi condivisa con Rosa, che, come mille altre persone, non tollera il numerino sulle sue camicette a Fiori, le porte chiuse, i divieti incomprensibili.
Scegliere come se fossimo Rosa, per imparare tutti
Alla fine scelgo di non scegliere.
Scelgo Rosa, mi chiedo io cosa vorrei al posto suo.
Ogni giorno diventerà una scoperta in più su quello che tutti noi scopriremo di lei: dalla pulizia della sua stanza – dove calibreremo gli orari a seconda dei suoi ritmi e non viceversa – fino alla somministrazione della terapia. E capiremo anche se quella casa lei se la sente casa, o solo un posto dove vivere.
Immersa tra tutte le sfaccettature del ruolo complesso che ricopro, mi soffermo sulla persona, sulla storia.
Somministrare per esempio la terapia dopo pranzo – anziché durante il pasto – le permetteva un sonnellino riparatore che copriva il delicato momento del passaggio consegne.
Mangiare e lavarsi da sola, la rendeva più felice.
Rosa da piccola amava intrecciare margherite: organizziamo un appuntamento pomeridiano di raccolta fiori all’esterno, da sola, in sicurezza.
E se Rosa “fuggirà” di nuovo, stavolta avrà scarpe adatte, e la consapevolezza di ognuno di noi.
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