L’ingresso in RSA del sig. C. lo ricordo molto bene. Settant’anni appena e una diagnosi di Alzheimer ad esordio giovanile.
C. non riconosce nessuno dei suoi familiari, non parla ed è completamente apatico.
Ha una figlia e una moglie, estremamente attiva, data la giovane età, ma anche estremamente dolce.
A Natale, alla mia domanda: “Come stai?”, la moglie mi risponde: “Mi manca, è il primo Natale senza di lui e la casa è vuota”.
Ma è un paio di mesi fa che la sua risposta mi spiazza.
Le prendo il braccio, è così magra e piccina, e le dico il solito, banalissimo: “Come va?”
Mi risponde:
“Non so Linda, spero che il signore guardi giù. Tanto… non è più lui. Non è più mio marito”.
La sua risposta mi intristisce e mi fa anche molto riflettere.
La moglie del sig. C. sta vivendo un lutto, quello che in termini tecnici viene definito lutto da diagnosi (o lutto anticipatorio).
Lutto anticipatorio e demenza
Il lutto è generalmente inteso come la “risposta psicologica alla rottura di una relazione di attaccamento significativo attraverso la morte o la perdita” (1)
Se il lutto è, per definizione, legato alla perdita, il lutto da diagnosi si caratterizza per la particolarità di essere vissuto anche se la persona cara non se ne è ancora andata; è il caso delle malattie terminali e degenerative.
In questi casi però, spesso, c’è la possibilità di approfittare del tempo rimanente per continuare a vivere la relazione, consolidarla o, aspetto ancora più importante, ricucire rapporti che, nel tempo, si erano allentati.
Si tratta di una condizione sospesa tra presenza e perdita, che può però portare a un riavvicinamento tra la persona malata e i suoi cari.
Il lutto da diagnosi nel caso di Alzheimer, demenza o altre patologie che afferiscono al disturbo neurocognitivo maggiore ha delle caratteristiche ancora più particolari.
La sospensione tra presenza e perdita è ancora più in disequilibrio perché la presenza, in questo caso, è già venuta meno.
La persona malata infatti, spesso, già non riconosce chi le sta attorno.
Diventa inoltre estremamente complicato, a causa, appunto, dei disturbi cognitivi presenti (es. la perdita della memoria o le difficoltà nel linguaggio), qualsiasi tentativo di riavvicinamento, per le difficoltà che incorrono nella comunicazione.
Alla diagnosi di disturbo neurocognitivo maggiore si affianca spesso una condizione di non autosufficienza che porta, in molti casi, all’ingresso in RSA.
Ecco quindi che, quando succede, si intrecciano nel caregiver due dimensioni: il lutto anticipatorio e il senso di colpa per l’ingresso in Struttura.
Nei panni del coniuge
La maggior parte delle volte, il ruolo del caregiver è incarnato dai figli.
Sono loro che, durante i colloqui per l’inserimento, accolgo con maggior frequenza e che affidano, alla Struttura, il proprio genitore.
Sempre più spesso, però, mi capita di accogliere persone che, oltre ai figli, hanno ancora il coniuge (dato anche l’esordio precoce della malattia). In questi casi è proprio quest’ultimo che, essendone il caregiver principale a domicilio, ne diviene il punto di riferimento principale durante la permanenza in Struttura.
Ed è proprio il coniuge che si ritrova a vivere questo lutto in una forma particolare, molto più intensa rispetto ai figli.
La sindrome del nido vuoto
Prendiamo il caso citato all’inizio.
C. ha una figlia molto presente ma, ad oggi, ha un nucleo familiare tutto suo. Ha un compagno, dei figli, un lavoro.
Quando il padre si è ammalato lei era già fuori casa. Ed è fisiologico che fosse così. La sua età sociale (ovvero l’aspettativa che la società ha rispetto alla sua età anagrafica), è pienamente rispettata e accettata.
Diverso è invece il caso del coniuge.
La moglie di C. ha vissuto l’allontanamento della figlia come una conseguenza naturale, come una trasformazione fisiologica del suo ruolo di madre.
Ma è il suo ruolo di moglie a non aver seguito la naturale evoluzione.
Questa signora sta vivendo una enorme solitudine e, dalle sue parole, emerge quella che potremmo definire una sfumatura particolare del lutto all’interno del disturbo neurocognitivo: la sindrome del “nido vuoto”.
“La casa” – mi dice infatti con enorme tristezza – “è vuota senza di lui”.
Tra ruoli perduti e percezione di sé
Se il figlio sa che, nonostante il dolore, è fisiologico che un genitore possa andarsene prima, l’idea del coniuge è quella di restare insieme.
L’idea della moglie di C., quell’idea romanticizzata di “invecchiare insieme”, è stata stravolta.
Non solo: il suo ruolo di moglie non esiste più perché lui non la riconosce.
Se il suo ruolo di madre si è inevitabilmente trasformato, il suo ruolo di moglie non si è semplicemente modificato, ha totalmente cessato di esistere. Non è più moglie e, forse, viene meno anche il suo riconoscersi donna, perché, di fianco a colui che era stato il suo compagno di vita, lei non è più riconosciuta come tale.
Charles Cooley, sociologo, nel 1902 elaborava la teoria del looking glass self theory, definendo, in un certo senso, proprio questo meccanismo.
Secondo questa teoria, la percezione di noi stessi passa attraverso un riflesso.
E quel riflesso è definito dalla percezione di come crediamo che gli altri ci vedano.
La percezione di chi siamo passa quindi attraverso il modo in cui ci percepisce l’altro.
E la moglie di C., in questo momento, non ha più il suo ruolo “riflesso”.
Cosa significano per il coniuge alcuni disturbi
Alla sofferenza davanti a un ruolo che viene meno, c’è spesso, anche, tutta una serie di difficoltà legate alla malattia.
Il sig. C. è apatico e non intesse relazioni con atre persone, ma non sempre è così.
Capita spesso che la malattia sviluppi, oltre alla compromissione di alcuni domini cognitivi, anche il disturbo comportamentale.
Pensiamo a quanto una moglie o un marito possa soffrire, e trovarsi in imbarazzo, di fronte ai comportamenti disinibiti del proprio coniuge, nei confronti di altri anziani o operatori.
I professionisti sanno leggere questi comportamenti e adottare le giuste strategie, ma per il coniuge diventa estremamente complicato.
Anche il disturbo di memoria porta con sé strascichi di difficile gestione.
Succede frequentemente che, nei casi di disturbo neuro cognitivo, la persona fermi i suoi ricordi a quando aveva circa 40 anni.
È quella infatti l’età della realizzazione personale, in cui si consolida la vita lavorativa e relazionale.
Pensiamo a un anziano in Struttura convinto di essere in quella precisa fase. Dal momento che riceve la visita della moglie, coetanea, sarà impossibile per lui riconoscerla come tale.
Capita invece che la figlia, spesso esattamente di quell’età e magari anche somigliante alla madre, diventi, agli occhi dell’anziano, lei stessa la moglie.
Anche in questo caso i professionisti sanno leggere il comportamento e, per prassi, sanno di dover tenere il più possibile un atteggiamento convalidante, ovvero che dà valore a ciò che la persona sta esperendo e sentendo in quel momento.
Un caso emblematico in RSA
E proprio l’idea delle difficoltà nel riconoscimento, mi fa pensare ad un altro caso, avvenuto circa un anno fa nell’RSA in cui lavoro.
F. è una signora allegra. Sorride, cammina, partecipa alle attività; ma il disturbo di memoria è molto grave e la diagnosi in fase avanzata.
M., suo marito, la viene a trovare ogni settimana, accompagnato dalla figlia. Quando viene è sempre elegante. Indossa spesso una camicia chiara che, probabilmente, stira con cura prima di arrivare.
Ci sono però dei giorni in F., sua moglie, è convinta che suo marito sia un anziano che è con lei in reparto e, spesso, lo prende per mano e passeggia con lui per il corridoio.
Quella mattina, fatalità, è proprio uno di quei giorni.
E quando M. arriva, in accordo con la figlia, decidiamo di proteggerlo.
“Tua moglie sta facendo il bagno” – gli diciamo – “Ti va di passare un’altra volta?”
Il caso di M. è emblematico rispetto a tutto ciò su cui abbiamo riflettuto e ci aiuta a entrare a fondo nei panni del coniuge.
M. è anziano. Vive solo. Il suo ruolo di marito non esiste più. Il suo progetto con la moglie è svanito e la figlia, a cui è legato, ha una sua vita dai ritmi serrati, con un lavoro e un nipote in arrivo.
Quella mattina abbiamo preso la decisione di proteggere M., quel marito il cui lutto è iniziato molto tempo prima, con la diagnosi della moglie.
E che continua ogni settimana, quando viene a trovarla e lei non lo riconosce.
E ogni giorno, nel suo “nido vuoto”; nella sua casa che, da quando F. è in RSA è, deve essere, come ha sostenuto tristemente la moglie di C., terribilmente vuota.
Note
(1) In Alice Maier. La demenza come lutto per il caregiver, p. 4
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L’ingresso in RSA del sig. C. lo ricordo molto bene. Settant’anni appena e una diagnosi di Alzheimer ad esordio giovanile.
C. non riconosce nessuno dei suoi familiari, non parla ed è completamente apatico.
Ha una figlia e una moglie, estremamente attiva, data la giovane età, ma anche estremamente dolce.
A Natale, alla mia domanda: “Come stai?”, la moglie mi risponde: “Mi manca, è il primo Natale senza di lui e la casa è vuota”.
Ma è un paio di mesi fa che la sua risposta mi spiazza.
Le prendo il braccio, è così magra e piccina, e le dico il solito, banalissimo: “Come va?”
Mi risponde:
“Non so Linda, spero che il signore guardi giù. Tanto… non è più lui. Non è più mio marito”.
La sua risposta mi intristisce e mi fa anche molto riflettere.
La moglie del sig. C. sta vivendo un lutto, quello che in termini tecnici viene definito lutto da diagnosi (o lutto anticipatorio).
Lutto anticipatorio e demenza
Il lutto è generalmente inteso come la “risposta psicologica alla rottura di una relazione di attaccamento significativo attraverso la morte o la perdita” (1)
Se il lutto è, per definizione, legato alla perdita, il lutto da diagnosi si caratterizza per la particolarità di essere vissuto anche se la persona cara non se ne è ancora andata; è il caso delle malattie terminali e degenerative.
In questi casi però, spesso, c’è la possibilità di approfittare del tempo rimanente per continuare a vivere la relazione, consolidarla o, aspetto ancora più importante, ricucire rapporti che, nel tempo, si erano allentati.
Si tratta di una condizione sospesa tra presenza e perdita, che può però portare a un riavvicinamento tra la persona malata e i suoi cari.
Il lutto da diagnosi nel caso di Alzheimer, demenza o altre patologie che afferiscono al disturbo neurocognitivo maggiore ha delle caratteristiche ancora più particolari.
La sospensione tra presenza e perdita è ancora più in disequilibrio perché la presenza, in questo caso, è già venuta meno.
La persona malata infatti, spesso, già non riconosce chi le sta attorno.
Diventa inoltre estremamente complicato, a causa, appunto, dei disturbi cognitivi presenti (es. la perdita della memoria o le difficoltà nel linguaggio), qualsiasi tentativo di riavvicinamento, per le difficoltà che incorrono nella comunicazione.
Alla diagnosi di disturbo neurocognitivo maggiore si affianca spesso una condizione di non autosufficienza che porta, in molti casi, all’ingresso in RSA.
Ecco quindi che, quando succede, si intrecciano nel caregiver due dimensioni: il lutto anticipatorio e il senso di colpa per l’ingresso in Struttura.
Nei panni del coniuge
La maggior parte delle volte, il ruolo del caregiver è incarnato dai figli.
Sono loro che, durante i colloqui per l’inserimento, accolgo con maggior frequenza e che affidano, alla Struttura, il proprio genitore.
Sempre più spesso, però, mi capita di accogliere persone che, oltre ai figli, hanno ancora il coniuge (dato anche l’esordio precoce della malattia). In questi casi è proprio quest’ultimo che, essendone il caregiver principale a domicilio, ne diviene il punto di riferimento principale durante la permanenza in Struttura.
Ed è proprio il coniuge che si ritrova a vivere questo lutto in una forma particolare, molto più intensa rispetto ai figli.
La sindrome del nido vuoto
Prendiamo il caso citato all’inizio.
C. ha una figlia molto presente ma, ad oggi, ha un nucleo familiare tutto suo. Ha un compagno, dei figli, un lavoro.
Quando il padre si è ammalato lei era già fuori casa. Ed è fisiologico che fosse così. La sua età sociale (ovvero l’aspettativa che la società ha rispetto alla sua età anagrafica), è pienamente rispettata e accettata.
Diverso è invece il caso del coniuge.
La moglie di C. ha vissuto l’allontanamento della figlia come una conseguenza naturale, come una trasformazione fisiologica del suo ruolo di madre.
Ma è il suo ruolo di moglie a non aver seguito la naturale evoluzione.
Questa signora sta vivendo una enorme solitudine e, dalle sue parole, emerge quella che potremmo definire una sfumatura particolare del lutto all’interno del disturbo neurocognitivo: la sindrome del “nido vuoto”.
“La casa” – mi dice infatti con enorme tristezza – “è vuota senza di lui”.
Tra ruoli perduti e percezione di sé
Se il figlio sa che, nonostante il dolore, è fisiologico che un genitore possa andarsene prima, l’idea del coniuge è quella di restare insieme.
L’idea della moglie di C., quell’idea romanticizzata di “invecchiare insieme”, è stata stravolta.
Non solo: il suo ruolo di moglie non esiste più perché lui non la riconosce.
Se il suo ruolo di madre si è inevitabilmente trasformato, il suo ruolo di moglie non si è semplicemente modificato, ha totalmente cessato di esistere. Non è più moglie e, forse, viene meno anche il suo riconoscersi donna, perché, di fianco a colui che era stato il suo compagno di vita, lei non è più riconosciuta come tale.
Charles Cooley, sociologo, nel 1902 elaborava la teoria del looking glass self theory, definendo, in un certo senso, proprio questo meccanismo.
Secondo questa teoria, la percezione di noi stessi passa attraverso un riflesso.
E quel riflesso è definito dalla percezione di come crediamo che gli altri ci vedano.
La percezione di chi siamo passa quindi attraverso il modo in cui ci percepisce l’altro.
E la moglie di C., in questo momento, non ha più il suo ruolo “riflesso”.
Cosa significano per il coniuge alcuni disturbi
Alla sofferenza davanti a un ruolo che viene meno, c’è spesso, anche, tutta una serie di difficoltà legate alla malattia.
Il sig. C. è apatico e non intesse relazioni con atre persone, ma non sempre è così.
Capita spesso che la malattia sviluppi, oltre alla compromissione di alcuni domini cognitivi, anche il disturbo comportamentale.
Pensiamo a quanto una moglie o un marito possa soffrire, e trovarsi in imbarazzo, di fronte ai comportamenti disinibiti del proprio coniuge, nei confronti di altri anziani o operatori.
I professionisti sanno leggere questi comportamenti e adottare le giuste strategie, ma per il coniuge diventa estremamente complicato.
Anche il disturbo di memoria porta con sé strascichi di difficile gestione.
Succede frequentemente che, nei casi di disturbo neuro cognitivo, la persona fermi i suoi ricordi a quando aveva circa 40 anni.
È quella infatti l’età della realizzazione personale, in cui si consolida la vita lavorativa e relazionale.
Pensiamo a un anziano in Struttura convinto di essere in quella precisa fase. Dal momento che riceve la visita della moglie, coetanea, sarà impossibile per lui riconoscerla come tale.
Capita invece che la figlia, spesso esattamente di quell’età e magari anche somigliante alla madre, diventi, agli occhi dell’anziano, lei stessa la moglie.
Anche in questo caso i professionisti sanno leggere il comportamento e, per prassi, sanno di dover tenere il più possibile un atteggiamento convalidante, ovvero che dà valore a ciò che la persona sta esperendo e sentendo in quel momento.
Un caso emblematico in RSA
E proprio l’idea delle difficoltà nel riconoscimento, mi fa pensare ad un altro caso, avvenuto circa un anno fa nell’RSA in cui lavoro.
F. è una signora allegra. Sorride, cammina, partecipa alle attività; ma il disturbo di memoria è molto grave e la diagnosi in fase avanzata.
M., suo marito, la viene a trovare ogni settimana, accompagnato dalla figlia. Quando viene è sempre elegante. Indossa spesso una camicia chiara che, probabilmente, stira con cura prima di arrivare.
Ci sono però dei giorni in F., sua moglie, è convinta che suo marito sia un anziano che è con lei in reparto e, spesso, lo prende per mano e passeggia con lui per il corridoio.
Quella mattina, fatalità, è proprio uno di quei giorni.
E quando M. arriva, in accordo con la figlia, decidiamo di proteggerlo.
“Tua moglie sta facendo il bagno” – gli diciamo – “Ti va di passare un’altra volta?”
Il caso di M. è emblematico rispetto a tutto ciò su cui abbiamo riflettuto e ci aiuta a entrare a fondo nei panni del coniuge.
M. è anziano. Vive solo. Il suo ruolo di marito non esiste più. Il suo progetto con la moglie è svanito e la figlia, a cui è legato, ha una sua vita dai ritmi serrati, con un lavoro e un nipote in arrivo.
Quella mattina abbiamo preso la decisione di proteggere M., quel marito il cui lutto è iniziato molto tempo prima, con la diagnosi della moglie.
E che continua ogni settimana, quando viene a trovarla e lei non lo riconosce.
E ogni giorno, nel suo “nido vuoto”; nella sua casa che, da quando F. è in RSA è, deve essere, come ha sostenuto tristemente la moglie di C., terribilmente vuota.
Note
(1) In Alice Maier. La demenza come lutto per il caregiver, p. 4
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