Di frequente la persona con demenza non riconosce più i familiari o anche sé stessa allo specchio. La psicologa ed ex caregiver Sara Sabbadin ci spiega con grande chiarezza come dobbiamo comportarci


Che la tua mamma o il tuo papà, tuo marito, tua moglie, tua sorella, persone con cui ha vissuto tutta la tua vita, possano non riconoscerti credo sia tra i sintomi più difficili da accettare.

“Per quanto mi sforzi di cercare un senso, non riesco a trovarlo. Il fatto che mia madre non mi riconosca per me è senza senso. Lo so che è l’Alzheimer. Ma davvero, non lo posso accettare…”

Come darle torto.  Voglio dire, è qualcosa di inconcepibile.

E che fa male, molto molto male.

Non si tratta di una semplice dimenticanza

Tutti noi avremo sperimentato almeno un’occasione (per i più molto più di una!) dove ci è capitato di incontrare qualcuno che ci ha salutato con fare amichevole ma che noi non abbiamo riconosciuto, oppure sapevamo di conoscerlo ma non riuscivamo a ricordare il nome…il classico ce l’ho sulla punta della lingua! Oppure ci sarà capitato di provare quel senso di familiarità davanti a qualcuno, un sentore di averlo già visto da qualche parte ma di non ricordare proprio dove.

Si tratta di piccoli fallimenti cognitivi che capitano a tutti. Aumentano in frequenza con l’età e se il nostro cervello è affaticato da stanchezza o stress, ma non rappresentano di per sé segnali di demenza. Sono la normale amministrazione di un cervello che funziona ma deve gestire tantissime informazioni allo stesso momento e qualcosa finisce per perdersi inevitabilmente per strada.


Quello che capita nella mente di un malato di Alzheimer è ben altro. La persona affetta da malattia neurodegenerativa può arrivare a non riconoscere più i propri cari o anche se stessa se si guarda allo specchio. Può succedere che tratti il figlio come un estraneo, o che scambi la figlia per la moglie, la moglie per una dottoressa; può succedere che parli allo specchio come se fosse in presenza di un’altra persona, o anche che si spaventi, perché si sente spiato da quell’individuo che continua a fissarlo.

Perché non mi riconosce?

Tra i settori del cervello dove l’Alzheimer fa più danni ci sono i centri della memoria e del riconoscimento. Potrebbe aver perso i ricordi di parte della sua vita o pensare di trovarsi in un tempo che non corrisponde al nostro.

È frequente che i malati di demenza ricordino meglio gli anni passati rispetto a quelli più recenti: la memoria viene meno secondo un gradiente temporale. Molti sono convinti di essere molto più giovani di quanto non siano in realtà e quindi, se ci pensiamo, è coerente che ricordino di avere figli piccoli (che magari cercano anche con angoscia…) e non uomini e donne adulti. Oppure la loro mente potrebbe essere ferma a quando vivevano con i genitori da signorine e quell’uomo anziano che dice di essere loro marito proprio non riescono a capire chi sia.

Lo stesso ragionamento vale per il riconoscimento del proprio riflesso: se sono convinto di essere più giovane, magari ancora ragazzo, come posso riconoscermi in quel vecchio che mi guarda allo specchio?

Che fare?

Prima di tutto…calma e gesso! In cima, come regola aurea da applicarsi in ogni caso, con ogni persona, in ogni momento complicato che l’Alzheimer ci mette davanti: tira un bel sospiro e mantieni la calma. Nei momenti di agitazione chi ha la demenza fatica enormemente a capire le parole ma le emozioni le sente forti e chiare. Ricorda che la tua agitazione amplifica la sua.

Tristezza e rabbia sono emozioni frequenti nei caregiver. E normali.

Vengono da quel groviglio di senso di impotenza, smarrimento e frustrazione che coglie in questi momenti. Dal senso di perdita e ingiustizia prepotenti che senti davanti ad una mamma, un papà, un marito che non ti riconoscono. È importante ricordare che non sei sbagliato se provi queste emozioni, sono reazioni umane, proporzionali al dolore e alla fatica di confrontarsi con una malattia che ruba identità e ricordi.

Non combattere contro i mulini a vento

La prima risposta che viene, quella più spontanea, è correggere. Ma è anche quella che aiuta meno, sia te che lui.

Ma sono io! Sono tuo marito! Viviamo assieme da 50 anni!”

“Mamma sono Franca, sono tua figlia! Come puoi non riconoscermi?”

“Anna sei tu quella allo specchio! Non è un’altra che ti guarda! Sei tu!”

Parti dal presupposto che se non ti riconosce, se non si riconosce, ogni tentativo di riportarlo alla ragione non farà che aumentare lo stato di angoscia e smarrimento che prova. E più angoscia di solito genera anche più confusione, come un gatto che si morde la coda.

Stai con lui lì dove riesce ad arrivare, senza pretendere che arrivi dove non può, senza cedere alla tentazione di tirarlo verso una realtà che appare ovvia ai tuoi occhi, ma che lui non riesce a vedere.

Un buon suggerimento viene dal metodo Validation ideato da Naomi Feil:  è molto più efficace stare sulle emozioni anziché sulle parole, cercando di validare cosa provano, cosa c’è sotto l’apparente assurdità delle parole. È probabile che ci sia una mamma, un papà, un marito spaventato, che annaspa nel tentativo di dare un senso a volti e ambienti che sente che dovrebbe conoscere ma che non riconosce. È una brutta sensazione per loro.

“Ti sento spaventata…”

“Anna sono qui, ti aiuto io…”

Sono risposte che fanno sentire compresi nella difficoltà ma anche sostenuti. E di fronte a sintomi che non possiamo eliminare, questa è davvero la cura migliore.

Ricorda che spesso sono sintomi fluttuanti, soprattutto all’inizio ci sono giorni buoni in cui ti riconoscono e giorni meno buoni. Per lo più si tratta di seguire la corrente, navigare a vista con loro.

L’esperienza in struttura negli anni, a contatto con tanti familiari addolorati davanti a genitori, coniugi, fratelli, nonni che non li riconoscevano più, mi ha dato numerose occasioni di osservare come, pur in assenza di un riconoscimento consapevole, i legami affettivi e familiari sopravvivono sotto pelle in una grande varietà di forme e modi.

Ricordo una signora che non riconosceva la figlia già da molto tempo prima di entrare in struttura. Quando venne ricoverata non sapeva proprio dire chi era quella signorina gentile che l’aveva accompagnata e si rammaricava anche nel vederla piangere.

La salutò cortesemente ma prima di entrare in salone si girò e le chiese se sarebbe tornata a trovarla presto. C’erano anche altri familiari quel giorno e anche l’operatrice era stata molto gentile con lei, ma la signora lo chiese solo alla figlia, anche se in principio l’aveva salutata con la stessa cortesia distaccata con cui aveva salutato tutti gli altri. 

Certo Giulia, tornerò a trovarti prestissimo…” : le aveva risposto, evitando di chiamarla mamma, consapevole che in quel momento la mamma non sapeva di essere la sua mamma. Che fatica aveva fatto, e che sorriso le aveva fatto la mamma prima di voltarsi.

Intervieni se serve

Se non si riconosce allo specchio ma questo non lo turba non fare nulla. Nemmeno se ti accorgi che parla con il suo riflesso. Se la cosa non genera angoscia, lasciala com’è. Ma se ti rendi conto che il riflesso lo agita, meglio coprire le superfici riflettenti ed eliminare il problema alla radice.

Indubbiamente tutto questo è una grande fatica per il familiare. Ricordo quanto dolore ho provato quando mia nonna, la stessa nonna che per anni tutti i pomeriggi mi aveva preparato il caffè, quella nonna con cui vivevo gomito a gomito, mi ha guardato per la prima volta senza vedermi davvero. è stata una sensazione orribile, che non dimenticherò mai.

Pensa anche a te

Se senti che la fatica di affrontare questa malattia ti sta schiacciando, chiedi aiuto in tutti i modi possibili. Spesso si è soli oltre che impreparati davanti alla demenza. Ci sono famiglie che si stringono e fanno squadra nella gestione, ma ci sono anche tantissimi caregiver che tirano avanti da soli.

E da soli è faticoso due volte in più. Un sostegno psicologico aiuta a costruire nuovi pensieri, trovare risorse, prendere decisioni complicate. Chiedi aiuto ad uno psicologo se senti di averne bisogno.

Tempo fa il figlio di un signore con demenza mi raccontava di come il giorno di Natale, finché era a pranzo dai genitori, il padre lo avesse trattato con la cortesia che si usa ad un estraneo. Nonostante il dolore enorme, straziante nel non essere riconosciuto, egli aveva anche trovato una chiave di lettura che in qualche modo lo stava aiutando.

L’ha condivisa con me regalandomi una riflessione che non ho più dimenticato e che condivido con voi (con il suo consenso) perché rappresenta il traguardo di un doloroso percorso di accettazione che l’ha portato a trovare un senso, nonostante tutto.

A volte vorrei entrare dentro la sua testa per aggiustarla. Vorrei obbligarlo a ricordare. Vorrei urlargli che sono io, suo figlio, e che non è giusto che non mi riconosca. Non è giusto! Ma la verità è che non posso impedirgli di dimenticare. Questa è l’unica cosa che ho capito davvero di questa maledetta malattia.

Però posso aiutarlo a ricostruire dove mancano pezzi. Quello lo posso fare. La malattia si è portata via la sua capacità di ricordare, ma non i ricordi che abbiamo costruito assieme.
E così questo Natale a papà ho regalato un vecchio album di fotografie di famiglia. E dopo pranzo l’abbiamo sfogliato assieme.

Credo che anche in quel momento non sapesse chi ero, continuava a parlarmi con quella gentilezza che si riserva agli estranei. Ma guardava le foto di me da bambino e mi raccontava di suo figlio, di come era bravo a scuola, di come era bravo a pallone. Parlava da papà orgoglioso. E intanto io pensavo che c’ero. Ero nei suoi ricordi, perso nella nebbia che affolla la sua mente, sbiadito dalla confusione che lo avvolge, ma c’ero, ero lì e quel pensiero mi ha fatto bene”.


Per chi desiderasse avere altri suggerimenti quotidiani, può seguire la pagina facebook dell’autrice: I miei giorni con te – In viaggio con la demenza. O leggere i suoi articoli già usciti qui su CURA:

Come fare il bagno a una persona con demenza: 8 consigli di vita quotidiana

«Voglio andare a casa mia!». 4 consigli per aiutare l’anziano che non riconosce la propria casa

La ricerca della mamma nella persona malata di Alzheimer: che fare?

About the Author: Sara Sabbadin

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