Slagy è un’operatrice sociosanitaria che ha sentito fin da subito che l’RSA era il luogo di Cura in cui avrebbe desiderato lavorare. Una cosa è per lei fondamentale nel suo lavoro quotidiano: la comunicazione, a ogni livello, attraverso ogni mezzo e con ogni persona (anziani, familiari e colleghi). La sua storia parte da lontano, ma arriva dritta al cuore di tutti coloro che amano il proprio lavoro di cura e che dentro o “attorno” l’RSA, in qualche modo, si sentono a casa.
In fuga dalla guerra
È il 1993 e in Italia ci sono famiglie che si danno da fare per accogliere i profughi della Bosnia-Erzegovina, che da più di un anno è al centro della guerra di dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Iugoslavia.
Tra le braccia di una di queste famiglie, a Palazzago (provincia di Bergamo), viene accolta anche Slagy, insieme ai nonni, la mamma e le due sorelle.
Sono in fuga dal Natale 1992 e l’ultimo ricordo che conservano è la loro Casa che viene data alle fiamme dai Serbi.
Ora, quasi un anno dopo, Slagy e le sue sorelle – tutte e tre giovani adolescenti – possono ritrovare il calore di una casa, aiutate anche da questa famiglia, numerosa e accogliente, a inserirsi nel nostro Paese e a imparare pian piano la nostra lingua.
Un sogno di Cura spezzato
Slagy non è la sorella maggiore, ma quella “di mezzo”; anche per questo, forse, non riesce a spiegarsi come mai sia l’unica tra loro a sentire dentro di sé la forte spinta a prendersi cura e ad aiutare gli altri.
Da bambina, per esempio, le veniva spontaneo aiutare e stare accanto al papà, del quale – dice – riusciva a sentire comunque l’amore, nonostante i suoi comportamenti problematici correlati all’alcol; così come le veniva istintivo prendersi cura dei nonni, anche attraverso piccoli e semplici gesti.
È così che, gesto piccolo dopo gesto piccolo, comprende che il suo sogno è quello di diventare infermiera.
Un sogno però spezzato da un primo percorso di vita troppo difficile, che trova degna sintesi nelle parole di sua madre:
“non puoi andare a fare l’infermiera, hai già sofferto abbastanza”.
Nulla accade per caso
Mettendo da parte i suoi sogni, lavorerà infatti prima come operaia in un’azienda e, successivamente, come signora delle pulizie nelle case di privati.
Ma è proprio in alcune di queste case che, per caso, sentirà parlare di un “corso per diventare OSS”.
Curiosa e interessata, inizia a indagare e a chiedersi se potrebbe essere la sua strada.
Sente che lo è, ma il problema è il costo; il marito la ferma:
“non possiamo permettercelo”.
Prosegue quindi con le pulizie, mettendo da parte questa volta, oltre al suo sogno, anche un po’ di denaro, poco alla volta.
E poi arriva il 2020 e con lui la pandemia: non è più possibile entrare nelle Case degli altri.
Mentre il mondo si ferma, si crea lo spazio-tempo giusto per il cuore di Slagy: finalmente può iscriversi alla scuola e studiare per diventare OSS.
La comunicazione sopra ogni cosa
Fin da subito saprà che il luogo di Cura dove desidera lavorare come OSS è l’RSA:
“perché mi sembrava il luogo che più poteva favorire la comunicazione con le persone; più dell’ospedale, dove è sempre più forte il rischio che tutti siano visti solo come numeri. Entrare in una RSA, invece, significa entrare in una Casa, o almeno così dovrebbe essere”.
La comunicazione, a ogni livello e con ogni persona coinvolta nella Cura, è infatti ciò che più conta per Slagy.
Secondo la sua sensibilità, la comunicazione è ciò che permette alla Cura di realizzarsi e passa non solo attraverso i nostri linguaggi, ma anche attraverso i nostri sensi e i nostri gesti.
Prima ancora delle parole, infatti, per Slagy viene lo sguardo:
“I colleghi con cui lavoro meglio sono quelli con i quali basta uno sguardo per comprendersi reciprocamente.
Io in verità ringrazio la mascherina, perché coprendo naso e bocca, ci ha dato modo di concentrarci meglio sugli occhi delle altre persone, che dicono tantissimo”.
L’incontro tra sguardi diventa importante, per esempio, per dettare i giusti tempi nella relazione con le persone affette da disfagia, che hanno bisogno di essere imboccate con pazienza e capite nella loro difficoltà a deglutire; o per mantenere l’adeguata delicatezza nel varcare la soglia delle parti intime dell’Altro, per aver cura della sua igiene; o ancora, per interpretare le esigenze e i desideri di tutti quegli anziani che, purtroppo, non sono più in grado di utilizzare la parola.
Salgy è dunque una persona che ha bisogno di osservare prima di parlare con le persone, ma al contempo è aperta e desiderosa di comunicare – ovvero, letteralmente, di “mettersi in comune” – con tutti.
E in questo “tutti” sono comprese tanto le persone anziane, quanto le famiglie.
Nei riguardi di quest’ultime, per esempio, lei trova fondamentale imparare i nomi di tutti:
“se viene il figlio di una persona che assisto, io devo assolutamente salutarlo con il suo nome. Per me è fondamentale memorizzare i nomi di tutti i parenti, è una forma di rispetto verso di loro”.
Così come è per lei imprescindibile usare sempre verso i parenti “piccoli gesti – come portare un caffè – o due parole di conforto”, soprattutto quando i loro cari si avvicinano alla fine della vita.
Ribellarsi alla paura
D’altra parte, ciò che la colpisce quando muove i suoi primi passi da OSS in RSA è la reticenza di molti suoi colleghi a dialogare con i parenti:
“C’è talmente tanta paura diffusa di parlare con i familiari. E io mi chiedo: perché? Non sono ancora riuscita a darmi risposta a questa domanda. Nessuno ci proibisce di farlo. C’è forse scritto nel mio contratto che devo limitare la comunicazione con i parenti?”
Ma forse è proprio quella fatica ad aprirsi alla sofferenza che tiene molte persone “un passo indietro”.
Ed è forse la sua capacità di convivere con la sofferenza, di cui si diceva all’inizio, che le permette di ribellarsi agli schemi di comportamento diffusi in alcuni contesti di cura.
Portare gli altri con sé
Ribellarsi, in alcuni contesti, significa proprio ritagliarsi il proprio spazio di libertà per seguire autenticamente la Cura che si sente dentro.
A Slagy lo spirito di sana ribellione non manca, e ci sono molti aneddoti che possono confermarlo.
Per esempio quello dei “due cuori” di stoffa, a lei donati da due residenti poco prima che lei cambiasse struttura:
“Non volevo lasciarli nello zaino o nell’armadietto, volevo vivere questi due cuori, era un modo per portarmi con me le due persone che me li avevano regalati.
E così li ho cuciti sulla divisa, e senza chiedere il permesso a nessuno, sono entrata così a lavorare nella nuova Casa.
Sono loro che mi hanno dato la forza di affrontare tutta la nuova organizzazione”.
L’RSA è Casa mia
È infatti prima di tutto il rapporto con le persone anziane a dare senso al suo lavoro.
“E non si tratta affatto di dare una compressa o 15 gocce in più per calmare la persona, ma di stare con lei, di dialogare, di imparare a conoscerla…
di capire che molte volte basta davvero poco per cambiare la loro giornata in meglio; e di capire che non sono bambini, ma persone adulte che sono invecchiate e che hanno i loro desideri, piccoli e grandi, da rispettare sempre.
Siamo noi che dobbiamo capire, per esempio, che se una signora vuole che il suo anello stia in uno specifico posto, è giusto così, e noi dobbiamo fare la massima attenzione a non spostarlo mai…”.
L’unico rammarico di Slagy è di non essere sempre capita, in questa sua passione per la Cura, dalle persone che le sono accanto nella vita quotidiana:
“La mia gioia più grande infatti è stare dentro l’RSA, viverci dentro”.
E questa è spesso una gioia difficile da spiegare, soprattutto a chi non conosce l’RSA.
“L’RSA non è una realtà facile, devi saperla vivere; e per viverla devi ricordarti sempre che è la Casa delle persone anziane… e per me, onestamente, è come una seconda Casa”.
Fortunatamente, esistono altre persone che condividono i suoi stessi sentimenti e che lei ha avuto il privilegio di incontrare.
Esistono, si chiamano “RSA lovers” e sono un gruppo informale, coordinato da Barbara Picchio, che ha tra i suoi obiettivi anche quello di informare e sensibilizzare tutti i cittadini sul mondo delle RSA:
“Grazie alla signora Barbara ho modo di passare del tempo con professionisti, familiari e volontari che conoscono questo mondo, che ne capiscono le fatiche e la bellezza.
Ecco sì, è anche con loro che io mi sento a Casa”.
Puoi conoscere gli RSA lovers e ascoltare le loro parole di Cura in questo video:
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Slagy è un’operatrice sociosanitaria che ha sentito fin da subito che l’RSA era il luogo di Cura in cui avrebbe desiderato lavorare. Una cosa è per lei fondamentale nel suo lavoro quotidiano: la comunicazione, a ogni livello, attraverso ogni mezzo e con ogni persona (anziani, familiari e colleghi). La sua storia parte da lontano, ma arriva dritta al cuore di tutti coloro che amano il proprio lavoro di cura e che dentro o “attorno” l’RSA, in qualche modo, si sentono a casa.
In fuga dalla guerra
È il 1993 e in Italia ci sono famiglie che si danno da fare per accogliere i profughi della Bosnia-Erzegovina, che da più di un anno è al centro della guerra di dissoluzione della Repubblica Socialista Federale di Iugoslavia.
Tra le braccia di una di queste famiglie, a Palazzago (provincia di Bergamo), viene accolta anche Slagy, insieme ai nonni, la mamma e le due sorelle.
Sono in fuga dal Natale 1992 e l’ultimo ricordo che conservano è la loro Casa che viene data alle fiamme dai Serbi.
Ora, quasi un anno dopo, Slagy e le sue sorelle – tutte e tre giovani adolescenti – possono ritrovare il calore di una casa, aiutate anche da questa famiglia, numerosa e accogliente, a inserirsi nel nostro Paese e a imparare pian piano la nostra lingua.
Un sogno di Cura spezzato
Slagy non è la sorella maggiore, ma quella “di mezzo”; anche per questo, forse, non riesce a spiegarsi come mai sia l’unica tra loro a sentire dentro di sé la forte spinta a prendersi cura e ad aiutare gli altri.
Da bambina, per esempio, le veniva spontaneo aiutare e stare accanto al papà, del quale – dice – riusciva a sentire comunque l’amore, nonostante i suoi comportamenti problematici correlati all’alcol; così come le veniva istintivo prendersi cura dei nonni, anche attraverso piccoli e semplici gesti.
È così che, gesto piccolo dopo gesto piccolo, comprende che il suo sogno è quello di diventare infermiera.
Un sogno però spezzato da un primo percorso di vita troppo difficile, che trova degna sintesi nelle parole di sua madre:
“non puoi andare a fare l’infermiera, hai già sofferto abbastanza”.
Nulla accade per caso
Mettendo da parte i suoi sogni, lavorerà infatti prima come operaia in un’azienda e, successivamente, come signora delle pulizie nelle case di privati.
Ma è proprio in alcune di queste case che, per caso, sentirà parlare di un “corso per diventare OSS”.
Curiosa e interessata, inizia a indagare e a chiedersi se potrebbe essere la sua strada.
Sente che lo è, ma il problema è il costo; il marito la ferma:
“non possiamo permettercelo”.
Prosegue quindi con le pulizie, mettendo da parte questa volta, oltre al suo sogno, anche un po’ di denaro, poco alla volta.
E poi arriva il 2020 e con lui la pandemia: non è più possibile entrare nelle Case degli altri.
Mentre il mondo si ferma, si crea lo spazio-tempo giusto per il cuore di Slagy: finalmente può iscriversi alla scuola e studiare per diventare OSS.
La comunicazione sopra ogni cosa
Fin da subito saprà che il luogo di Cura dove desidera lavorare come OSS è l’RSA:
“perché mi sembrava il luogo che più poteva favorire la comunicazione con le persone; più dell’ospedale, dove è sempre più forte il rischio che tutti siano visti solo come numeri. Entrare in una RSA, invece, significa entrare in una Casa, o almeno così dovrebbe essere”.
La comunicazione, a ogni livello e con ogni persona coinvolta nella Cura, è infatti ciò che più conta per Slagy.
Secondo la sua sensibilità, la comunicazione è ciò che permette alla Cura di realizzarsi e passa non solo attraverso i nostri linguaggi, ma anche attraverso i nostri sensi e i nostri gesti.
Prima ancora delle parole, infatti, per Slagy viene lo sguardo:
“I colleghi con cui lavoro meglio sono quelli con i quali basta uno sguardo per comprendersi reciprocamente.
Io in verità ringrazio la mascherina, perché coprendo naso e bocca, ci ha dato modo di concentrarci meglio sugli occhi delle altre persone, che dicono tantissimo”.
L’incontro tra sguardi diventa importante, per esempio, per dettare i giusti tempi nella relazione con le persone affette da disfagia, che hanno bisogno di essere imboccate con pazienza e capite nella loro difficoltà a deglutire; o per mantenere l’adeguata delicatezza nel varcare la soglia delle parti intime dell’Altro, per aver cura della sua igiene; o ancora, per interpretare le esigenze e i desideri di tutti quegli anziani che, purtroppo, non sono più in grado di utilizzare la parola.
Salgy è dunque una persona che ha bisogno di osservare prima di parlare con le persone, ma al contempo è aperta e desiderosa di comunicare – ovvero, letteralmente, di “mettersi in comune” – con tutti.
E in questo “tutti” sono comprese tanto le persone anziane, quanto le famiglie.
Nei riguardi di quest’ultime, per esempio, lei trova fondamentale imparare i nomi di tutti:
“se viene il figlio di una persona che assisto, io devo assolutamente salutarlo con il suo nome. Per me è fondamentale memorizzare i nomi di tutti i parenti, è una forma di rispetto verso di loro”.
Così come è per lei imprescindibile usare sempre verso i parenti “piccoli gesti – come portare un caffè – o due parole di conforto”, soprattutto quando i loro cari si avvicinano alla fine della vita.
Ribellarsi alla paura
D’altra parte, ciò che la colpisce quando muove i suoi primi passi da OSS in RSA è la reticenza di molti suoi colleghi a dialogare con i parenti:
“C’è talmente tanta paura diffusa di parlare con i familiari. E io mi chiedo: perché? Non sono ancora riuscita a darmi risposta a questa domanda. Nessuno ci proibisce di farlo. C’è forse scritto nel mio contratto che devo limitare la comunicazione con i parenti?”
Ma forse è proprio quella fatica ad aprirsi alla sofferenza che tiene molte persone “un passo indietro”.
Ed è forse la sua capacità di convivere con la sofferenza, di cui si diceva all’inizio, che le permette di ribellarsi agli schemi di comportamento diffusi in alcuni contesti di cura.
Portare gli altri con sé
Ribellarsi, in alcuni contesti, significa proprio ritagliarsi il proprio spazio di libertà per seguire autenticamente la Cura che si sente dentro.
A Slagy lo spirito di sana ribellione non manca, e ci sono molti aneddoti che possono confermarlo.
Per esempio quello dei “due cuori” di stoffa, a lei donati da due residenti poco prima che lei cambiasse struttura:
“Non volevo lasciarli nello zaino o nell’armadietto, volevo vivere questi due cuori, era un modo per portarmi con me le due persone che me li avevano regalati.
E così li ho cuciti sulla divisa, e senza chiedere il permesso a nessuno, sono entrata così a lavorare nella nuova Casa.
Sono loro che mi hanno dato la forza di affrontare tutta la nuova organizzazione”.
L’RSA è Casa mia
È infatti prima di tutto il rapporto con le persone anziane a dare senso al suo lavoro.
“E non si tratta affatto di dare una compressa o 15 gocce in più per calmare la persona, ma di stare con lei, di dialogare, di imparare a conoscerla…
di capire che molte volte basta davvero poco per cambiare la loro giornata in meglio; e di capire che non sono bambini, ma persone adulte che sono invecchiate e che hanno i loro desideri, piccoli e grandi, da rispettare sempre.
Siamo noi che dobbiamo capire, per esempio, che se una signora vuole che il suo anello stia in uno specifico posto, è giusto così, e noi dobbiamo fare la massima attenzione a non spostarlo mai…”.
L’unico rammarico di Slagy è di non essere sempre capita, in questa sua passione per la Cura, dalle persone che le sono accanto nella vita quotidiana:
“La mia gioia più grande infatti è stare dentro l’RSA, viverci dentro”.
E questa è spesso una gioia difficile da spiegare, soprattutto a chi non conosce l’RSA.
“L’RSA non è una realtà facile, devi saperla vivere; e per viverla devi ricordarti sempre che è la Casa delle persone anziane… e per me, onestamente, è come una seconda Casa”.
Fortunatamente, esistono altre persone che condividono i suoi stessi sentimenti e che lei ha avuto il privilegio di incontrare.
Esistono, si chiamano “RSA lovers” e sono un gruppo informale, coordinato da Barbara Picchio, che ha tra i suoi obiettivi anche quello di informare e sensibilizzare tutti i cittadini sul mondo delle RSA:
“Grazie alla signora Barbara ho modo di passare del tempo con professionisti, familiari e volontari che conoscono questo mondo, che ne capiscono le fatiche e la bellezza.
Ecco sì, è anche con loro che io mi sento a Casa”.
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