di Elisabetta Granello Vicepresidente di Associazione Al Confine – Rete Alzheimer Comune di Milano – Gestione Alzheimer Cafè

La persona con deficit cognitivo ha gli stessi diritti di ciascun essere umano. Ovvio, i diritti della persona sono universali, uguali per tutti: giovani e vecchi, bianchi e neri, ricchi e poveri, onesti e mascalzoni, maschi e femmine, etero e omosessuali… Però, già in questa frase si apre una sottile frattura; senza neppure rendermene conto ho citato delle coppie di opposti, e i soggetti socialmente “forti” sono il primo termine di ogni coppia. Dietro l’affermazione teorica, di principio, sappiamo dunque bene che ci sono delle differenze, che le opportunità non sono uguali per tutti, che ci sono i deboli e i forti, i primi e gli ultimi. I diritti sono uguali, ma la loro concreta esperienza non lo è affatto. Che cosa fa la differenza? Quali comportamenti, credenze, procedure facilitano od ostacolano il quotidiano esercizio dei diritti? Non sono – evidentemente – domande nuove e ci sono molte autorevoli risposte; domande e risposte utili entrambe per migliorare la nostra esperienza di cura, attraverso un percorso di riflessione e sperimentazione intorno ad alcune parole chiave. 

La parola di oggi è socialità.

In questo periodo, quando abbiamo dovuto imparare a conoscere il “distanziamento sociale”, parlare di socialità può apparire una bizzarra coincidenza o quasi una provocazione. Forse invece è il momento giusto. 

Evento conclusivo del laboratorio teatrale intergenerazionale – Anziani dell’Alzheimer Cafè (Municipio 9 MILANO) e alunni della scuola media A. Graf

Una definizione molto rapida, ma credo adeguata, dice che il diritto alla socialità è il diritto ad essere  in una comunità, avendo in essa un ruolo e potendo costruire e mantenere relazioni significative. Sappiamo che la comparsa di una malattia dementigena comporta invece quasi sempre e quasi subito un importante rischio di isolamento. 

‘da quando c’è questa malattia neppure i miei fratelli vengono volentieri in casa nostra’; 

‘non vado più da nessuna parte perché non posso portare fuori la mamma’;

‘le mie amiche non mi telefonano più, dicono che non mi capiscono’, 

‘lascia perdere, è inutile spiegare, tanto non capisce’  

Frasi sentite spesso, ancora troppo spesso, nonostante le comunità amiche dei dementi, la cultura inclusiva, le carte dei servizi che mettono al centro la persona. 

Immaginiamo il nostro protagonista in uno spazio che mano a mano si impoverisce: le connessioni tra le cose, i ricordi, la finalità delle diverse azioni, gli stimoli si affievoliscono, scolorano e alla fine si perdono. Come posso raggiungerlo, o farmi raggiungere da lui, condividere i nostri mondi, farci ancora compagnia? Ecco qualche sentiero possibile, forse.

  • Riconoscere e ridurre le difficoltà fisiche e le barriere sensoriali: un buon apparecchio acustico o un paio di occhiali puliti sono banalità importanti; se sono lasciata sola in carrozzina davanti a una parete è difficile che “socializzi”;
  • Saper accogliere la malattia: un qualcosa che può essere nominato, di cui lui, il protagonista, ha diritto di sapere. La malattia, la fragilità, esistono, vanno riconosciute, ricordando una frase felice di M. Benasayag: La fragilità non è né una forza né una debolezza, ma una possibilità di vita condivisa.
  • Lo stigma, quel marchio sociale negativo che tutti condanniamo, non ci viene solo imposto dagli altri, dipende anche da noi.  La vergogna è una strana emozione: una gamba rotta è quasi esibita, un familiare che dice cose incoerenti o che ha bisogno di muoversi crea imbarazzo, ce ne scusiamo e alla fine lo isoliamo, lo teniamo quasi nascosto. 
  • Chiedere aiuto non è un disonore, provare rabbia o dolore è umano: vale per il protagonista, vale ancora di più per chi cura. Aiuto psicologico, ma anche una semplice condivisione, un tempo distratto alla preoccupazione e alla cura, un momento di gioia insieme. Il malato non è riducibile alla sua malattia e chi cura non è solo un curante: restano due persone, con molteplici volti.
  • Ognuno ha una storia, forse anche dimenticata, qualcosa da dire, una competenza da valorizzare, un’esperienza da condividere: ha diritto a un ruolo, in famiglia, in RSA, tra gli amici: un suo posto, una sua speciale presenza. Non è un bambino e non lo trattiamo da bambino.
  • ….

Ora tocca a voi lettori!

Questa rivista online è nata per condividere con tutti i lettori idee, speranze e progetti. Vi invitiamo quindi a interagire e a partecipare. 

Se volete, rileggete la vostra quotidiana esperienza: quali vie seguite per far valere il diritto di ciascuno alla socialità? 

 Quali ostacoli sono più difficili da superare?

Sempre se volete, condividete una storia, una situazione in cui questo diritto è in gioco, nel bene o nel male. Quanto vi riconoscete nel racconto che abbiamo fatto?

O ancora meglio: diteci se qualche cambiamento nell’organizzazione della cura è desiderabile/possibile per una vita più ricca di relazioni. 

Scrivi a info@rivistacura.it

Pubblicheremo la tua opinione e ti faremo omaggio di uno sconto del 50 % sull’abbonamento alla rivista cartacea CURA

 

About the Author: Cinzia Siviero

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Formatrice Validation® certificata – Responsabile di AGAPE AVO organizzazione Validation® autorizzata.

di Elisabetta Granello Vicepresidente di Associazione Al Confine – Rete Alzheimer Comune di Milano – Gestione Alzheimer Cafè

La persona con deficit cognitivo ha gli stessi diritti di ciascun essere umano. Ovvio, i diritti della persona sono universali, uguali per tutti: giovani e vecchi, bianchi e neri, ricchi e poveri, onesti e mascalzoni, maschi e femmine, etero e omosessuali… Però, già in questa frase si apre una sottile frattura; senza neppure rendermene conto ho citato delle coppie di opposti, e i soggetti socialmente “forti” sono il primo termine di ogni coppia. Dietro l’affermazione teorica, di principio, sappiamo dunque bene che ci sono delle differenze, che le opportunità non sono uguali per tutti, che ci sono i deboli e i forti, i primi e gli ultimi. I diritti sono uguali, ma la loro concreta esperienza non lo è affatto. Che cosa fa la differenza? Quali comportamenti, credenze, procedure facilitano od ostacolano il quotidiano esercizio dei diritti? Non sono – evidentemente – domande nuove e ci sono molte autorevoli risposte; domande e risposte utili entrambe per migliorare la nostra esperienza di cura, attraverso un percorso di riflessione e sperimentazione intorno ad alcune parole chiave. 

La parola di oggi è socialità.

In questo periodo, quando abbiamo dovuto imparare a conoscere il “distanziamento sociale”, parlare di socialità può apparire una bizzarra coincidenza o quasi una provocazione. Forse invece è il momento giusto. 

Evento conclusivo del laboratorio teatrale intergenerazionale – Anziani dell’Alzheimer Cafè (Municipio 9 MILANO) e alunni della scuola media A. Graf

Una definizione molto rapida, ma credo adeguata, dice che il diritto alla socialità è il diritto ad essere  in una comunità, avendo in essa un ruolo e potendo costruire e mantenere relazioni significative. Sappiamo che la comparsa di una malattia dementigena comporta invece quasi sempre e quasi subito un importante rischio di isolamento. 

‘da quando c’è questa malattia neppure i miei fratelli vengono volentieri in casa nostra’; 

‘non vado più da nessuna parte perché non posso portare fuori la mamma’;

‘le mie amiche non mi telefonano più, dicono che non mi capiscono’, 

‘lascia perdere, è inutile spiegare, tanto non capisce’  

Frasi sentite spesso, ancora troppo spesso, nonostante le comunità amiche dei dementi, la cultura inclusiva, le carte dei servizi che mettono al centro la persona. 

Immaginiamo il nostro protagonista in uno spazio che mano a mano si impoverisce: le connessioni tra le cose, i ricordi, la finalità delle diverse azioni, gli stimoli si affievoliscono, scolorano e alla fine si perdono. Come posso raggiungerlo, o farmi raggiungere da lui, condividere i nostri mondi, farci ancora compagnia? Ecco qualche sentiero possibile, forse.

  • Riconoscere e ridurre le difficoltà fisiche e le barriere sensoriali: un buon apparecchio acustico o un paio di occhiali puliti sono banalità importanti; se sono lasciata sola in carrozzina davanti a una parete è difficile che “socializzi”;
  • Saper accogliere la malattia: un qualcosa che può essere nominato, di cui lui, il protagonista, ha diritto di sapere. La malattia, la fragilità, esistono, vanno riconosciute, ricordando una frase felice di M. Benasayag: La fragilità non è né una forza né una debolezza, ma una possibilità di vita condivisa.
  • Lo stigma, quel marchio sociale negativo che tutti condanniamo, non ci viene solo imposto dagli altri, dipende anche da noi.  La vergogna è una strana emozione: una gamba rotta è quasi esibita, un familiare che dice cose incoerenti o che ha bisogno di muoversi crea imbarazzo, ce ne scusiamo e alla fine lo isoliamo, lo teniamo quasi nascosto. 
  • Chiedere aiuto non è un disonore, provare rabbia o dolore è umano: vale per il protagonista, vale ancora di più per chi cura. Aiuto psicologico, ma anche una semplice condivisione, un tempo distratto alla preoccupazione e alla cura, un momento di gioia insieme. Il malato non è riducibile alla sua malattia e chi cura non è solo un curante: restano due persone, con molteplici volti.
  • Ognuno ha una storia, forse anche dimenticata, qualcosa da dire, una competenza da valorizzare, un’esperienza da condividere: ha diritto a un ruolo, in famiglia, in RSA, tra gli amici: un suo posto, una sua speciale presenza. Non è un bambino e non lo trattiamo da bambino.
  • ….

Ora tocca a voi lettori!

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Se volete, rileggete la vostra quotidiana esperienza: quali vie seguite per far valere il diritto di ciascuno alla socialità? 

 Quali ostacoli sono più difficili da superare?

Sempre se volete, condividete una storia, una situazione in cui questo diritto è in gioco, nel bene o nel male. Quanto vi riconoscete nel racconto che abbiamo fatto?

O ancora meglio: diteci se qualche cambiamento nell’organizzazione della cura è desiderabile/possibile per una vita più ricca di relazioni. 

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