Quando la demenza ti obbliga a “salpare”, puoi avere bisogno di una bussola in mezzo al mare dei problemi quotidiani. La riflessione di una psicologa, ex caregiver

Parla potabile

Me lo diceva sempre mio nonno, poca scuola e una vita passata a lavorare. Era il suo modo per spiegarmi che se volevo che ci capissimo sul serio – o meglio – se volevo che lui mi ascoltasse realmente, dovevo usare parole che lui potesse comprendere.

È la versione liquida del popolare “Parla come mangi” o, se vogliamo, del più raffinato “Bisogna sempre usare il linguaggio del paziente”. Sembra una banalità, eppure su questo aspetto si incastrano buona parte delle relazioni umane e molto spesso anche quelle di cura. Una delle sue tante – preziose – lezioni di vita.

La seconda è che se pensi di sapere, probabilmente non sai davvero. L’ho capito quando ho incontrato la sua demenza. Io, che le demenze le stavo studiando all’Università, pensavo di aver compreso perfettamente che cosa fosse un’amnesia, all’esame di neuropsicologia avevo descritto senza problemi i sintomi di una prosopoagnosia ed ero sinceramente convinta di conoscere il funzionamento dei servizi. Mi sbagliavo.

Che schiaffo in faccia quando non mi ha riconosciuta, io che ho vissuto a fianco a loro, con loro, per tutta la mia vita.

Che sconcerto vederlo cercare di infilare un braccio nella gamba del pantalone.

E come descrivere lo sconforto di essere rimbalzata da un ambulatorio all’altro, alla ricerca di improbabili soluzioni per allucinanti notti insonni? Mentre nelle case a fianco i vicini dormivano beati, lui cercava le sue scarpe per andare a lavorare, vedeva animali in giro per la stanza, ci accusava di avergli rubato non si sa bene cosa, e noi svegli con lui a provare a metterci una toppa, in qualche modo.

Sono stati anni duri

Non solo per la stanchezza fisica. È la stanchezza psicologica che ti atterra, sono l’assenza di riferimenti a cui chiedere aiuto, la povertà di informazioni che ricevi all’inizio. È la sensazione drammatica di essere soli a combattere una lotta impari.

E mentre mio nonno scendeva lentamente verso un mondo buio in cui nessuno di noi riusciva ad accendere una luce, io mi chiedevo come dare un senso a questo groviglio in cui stavamo vivendo tutti quanti. Perché la demenza non è solo affare del malato, è una malattia di sistema, che avvolge tutti i membri coinvolti nella cura e li trascina lontani dal resto del mondo che la demenza non ce l’ha.

Ti senti solo anche in mezzo alla gente

La solitudine è una costante nella vita del caregiver. Se chiediamo a un familiare che si occupa di una persona con demenza di quali aiuti avrebbe maggior bisogno, le risposte più frequenti sono più informazioni e una rete di supporto a cui appoggiarsi per alleviare il carico.

Perché se è vero che la rete dei servizi socio-sanitari è migliorata negli anni, ancora oggi la maggior parte delle famiglie si trova sola con la diagnosi, con poche informazioni su cosa stanno affrontando e ancora meno risorse su come farvi fronte.

È la conseguenza di un drammatico incrocio tra l’esponenziale crescita del numero di demenze e la poco lungimirante programmazione delle risorse socio-sanitarie ospedaliere e territoriali da destinare a questa fetta della popolazione. Una pericolosa combinazione che i familiari, le associazioni e gli stessi operatori che lavorano nel settore denunciano da tempo, ahimè ancora per lo più inascoltati, salvo casi particolarmente virtuosi sparsi qui e lì lungo lo Stivale.

Serve una bussola in mezzo al mare

Mi sono chiesta se avremmo gestito in modo diverso i primi tempi con qualche informazione in più.

Penso di si.

C’è una finestra di tempo preziosissima nella vita di ogni caregiver e sono i primi tempi, quelli in cui i sintomi cominciano ma non sono ancora dirompenti: quando mamma non riesce più a fare il ragù da sola ma ci riconosce ancora tutti, quando nonno comincia a non gestire bene le situazioni affollate, ma ancora dorme bene e partecipa alla routine quotidiana.

È la fase del sospetto, quando inizi a bussare alle porte dei dottori e finisci per ritrovarti la parola demenza scritta sul referto, con la testa piena di interrogativi su cosa sta succedendo e, soprattutto, su cosa succederà.

In quel momento il terreno è particolarmente fertile per far maturare consapevolezza e buone prassi, perché nonostante il dolore hai ancora tempo e risorse per capire, ascoltare i suggerimenti dei professionisti su come gestire i momenti difficili e provare a metterli in pratica. La stanchezza che viene dopo, il logorio dei continui tentativi di gestione andati male, negli anni inaridisce quel terreno e rende molto più difficile cambiare abitudini e schemi d’azione errati ma ormai consolidati.

Una fatica che potremmo risparmiare almeno in parte con una buona psico-educazione fatta all’inizio a tutte quelle famiglie che approdano nei nostri servizi, con la diagnosi di demenza ancora calda in mano e la sensazione di aver appena preso una tegola in testa. Serve una bussola alle famiglie per evitare loro di perdersi nella tempesta.

Dare un senso aiuta. Sempre.

Oggi mio nonno non c’è più e io sono passata dall’altra parte della scrivania.

Ma non ho dimenticato cosa significa sedere sulla sedia di fronte.

Avevamo iniziato un viaggio che meritava di trovare un punto di arrivo.

E così è nata l’idea di un progetto di divulgazione dedicato ai caregiver, dove parlare di demenza in modo potabile. Siamo partite con una collega, realizzando un libretto informativo fatto di poche parole e tante immagini, ricco di consigli su come affrontare il percorso quotidiano con una malattia difficile da capire e da accettare ma non impossibile da affrontare.

Da lì poi sono salpata in un progetto di divulgazione condiviso con un collega geriatra e costruito su due pilastri: ridurre la distanza tra “l’esperto” e il caregiver, consapevoli che se hai la demenza in casa, di questa malattia si diventa esperti in fretta, e parlare un linguaggio pratico, utile al quotidiano, spogliato da tecnicismi, certamente utili quando parliamo tra professionisti ma spesso vuoti di senso per il caregiver che ci ascolta.

La divulgazione su temi di salute è ancora troppo spesso costruita su un modello top down.

Il professionista – che sa – parla, il pubblico – che non sa – ascolta. Al più poi fa domande alla fine, se trova il coraggio.

Ma l’obiettivo dell’informazione deve essere quello di avvicinare, incuriosire al punto da catturare la sua attenzione, dargli l’impressione che stai parlando proprio di qualcosa che lo riguarda. Il sapere scientifico deve imparare a muoversi sul terreno del senso comune per essere davvero utile nella quotidianità di chi ascolta.

Una buona divulgazione, o per lo meno una divulgazione che produca il prezioso effetto di far uscire dalla stanza con l’idea di saperne qualcosa in più, deve costruirsi su basi comuni, addentrarsi nell’esperienza pratica e dedicare spazio ai sentimenti. Tanto spazio ai sentimenti. Perché anche se la malattia è frutto di un danno cerebrale, gli effetti sono un vortice di emozioni da cui spesso senza aiuto si fatica a scendere.

Di demenza e buone strategie, della fatica di accudire e della straordinaria resilienza che il caregiving fa fiorire, di libri utili e buone idee nel mondo per una cura davvero a misura di malato e famiglie ne parlo tutti i giorni nella pagina facebook I miei giorni con te – In viaggio con la demenza.

Ci vediamo li!


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About the Author: Sara Sabbadin

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