“Exameron” è il libro che racconta la creazione del mondo in sei giorni. Ma in che modo questo è collegato alla cura della persona con demenza? Ce lo ha spiegato l’ideatore del progetto Stefano Serenthà, il quale ci ha ricordato della necessità di concentrarci sulla persona e non sul combattere la malattia.

Stefano Serenthà è Geriatra, formatore e fondatore di Exameron.

Stefano ci puoi raccontare da dove nasce il tuo impegno nell’ambito della demenza?

Da geriatra, per forza di cose, ho incontrato la demenza molte volte. Ho anche avuto una esperienza personale: mio papà si è ammalato di demenza e, in quella fase, l’essere stato vicino a mia madre, che condivideva ogni minuto questa assistenza, mi ha aiutato a capire bene di cosa si trattasse. Oggi rivedo spesso nei miei pazienti, e nelle domande che mi fanno, un po’ di quello che ha vissuto mia madre all’epoca. Lì, non solo come medico, ma come individuo, ho capito quanto nessuna cura possa bastare senza uno sguardo globale sulla persona.

L’aspetto umano, in ogni caso, dovrebbe già essere parte della medicina, soprattutto di quella che si occupa degli anziani. L’aspetto puramente clinico e scientifico, da solo, porta a poco. Dico “dovrebbe” perché non è scontato che sia così. Una volta mi hanno presentato ad una associazione di familiari come “un medico talmente bravo che se lo sentite parlare non sembra nemmeno un medico”, come a dire: “i dottori pensano solo alle pastiglie”. Questa è un po’ l’idea che rimane mediamente fissa nell’immaginario comune. Eppure la medicina nasce come disciplina umanistica e tenere insieme la clinica e l’umano è assolutamente necessario e anche arricchente.

A volte penso che ci sia una specie di gelosia fra le professioni sanitarie, come una competizione per rivendicare ognuna il proprio apporto e la propria importanza, ma credo che l’aspetto umano ci dia punti di convergenza e ci faccia andare oltre le differenze fra gli ambiti di specializzazione. La componente umana è fondamentale soprattutto nella demenza, visto che la maggior parte dei casi non si risolve con la medicina.

Quindi la disciplina medica è vittima di pregiudizio?

Il fatto di vederla come disciplina puramente tecnica è una comodità, più che un vizio di forma. Oggi tutti sono iper-spcializzati su qualche ambito e questo rende le cose più facili perché ciascuno si occupa del proprio pezzo e non va oltre. Questo è chiaramente rischioso, perché rende ancora più complesso avere uno sguardo globale sulla persona. Uno dei rischi della medicina è di rinchiudersi nel tecnicismo, che non porta a quello che è il suo vero senso.

Credo inoltre che ci arrivino molti segnali distorti sulla medicina oggi e sul suo ruolo sociale, anche per quello che stiamo vedendo in epoca pandemica. Ci arriva infatti una sfiducia su quello che viene detto dalla medicina proprio perché si è sviluppata la tendenza a pensare che sotto il cappello della scienza ci siano interessi nascosti, più grandi. In concomitanza a tutto ciò si sono sviluppate medicine alternative, dove al centro viene posto l’ascolto: ecco, se la medicina non riesce a dare questo alla persona poi è più facile che si presti credito ad approcci assurdi. Dare quindi alla medicina il suo ruolo credo che sia vitale, a maggior ragione per quel che riguarda la medicina per anziani.

Da quale idea prende vita “Exameron“, il tuo progetto di formazione? E da dove nasce il tuo libro “Ricominciare con l’Alzheimer si può. Un percorso per la cura della persona con demenza attraverso i Sei Giorni della Creazione”?

Da un po’ di tempo stavo scrivendo un testo per favorire la relazione col familiare. Poi ho iniziato a meditare su un libro che riguarda i sei giorni della creazione – Exameron, appunto – scoperto grazie a una paziente. Man mano che meditavo sul testo di questo sacerdote romano, don Fabio Rosini, sentivo molte affinità rispetto a quello che stavo facendo io coi familiari, anche se si trattava di due ambiti che non c’entravano nulla l’uno con l’altro.

Allora ho provato a riscrivere quello a cui stavo lavorando, seguendo l’ottica laica dei sei giorni della creazione, che dava un grosso ordine ai pensieri e una grossa profondità al testo.Il primo elemento che mi ha illuminato dei sei giorni della creazione è stato il passaggio dal caos alla persona. Ecco, io vedo tantissimo come il momento della diagnosi della demenza sia vissuto proprio come un caos dalle persone, un istante in cui si trovano senza punti di riferimento.

Per fare un parallelismo: il primo giorno della creazione il mondo era tenebra e abisso, che è un po’ quello che vivono i familiari. La terra era informe e deserta e anche quando si ha a che fare con una diagnosi di demenza so vive quel senso di aridità e di informità. In quel momento il rischio che si corre è che si vorrebbe avere subito un quadro chiaro di informazioni, di percorsi di cura, ma si dovrebbe invece prendere atto che è inevitabile fare i conti con quel deserto e con quel caos.


Quello è il momento in cui si apre il discorso sul bisogno dell’accettazione della malattia, sulla necessità di stare nella confusione, senza la necessità di comprendere tutto.
Nei familiari si sente questo bisogno di risolvere in fretta: “dottore mi dia qualche pillola per farlo dormire”; “devo capire perché non mi riconosce più, non c’è una medicina per la memoria?”. Spesso accade che in quelle situazioni si vada subito alla ricerca di una soluzione esterna: di una brava badante, di una struttura che tratti bene la persona. Invece dovremmo iniziare un percorso in modo intelligente, nel senso etimologico del termine intus legere, che vuol dire “leggere dentro”, “collegare”.

Ecco perché i sei giorni della creazione mi sembravano una metafora buona: perché sono un cammino, dal buio alla luce, dall’apparizione delle piante fino alla comparsa dell’uomo. Io credo che la cosa bella nella cura della demenza sia quando dal caos, piano piano, si chiarifica il percorso fino a quel momento in cui non diciamo più “non è più più lui” ma “è ancora lui”.

Il secondo aspetto che mi è piaciuto dei sei giorni della creazione è stato quello che mi ha portato al passaggio dal “combattere la malattia”, al “relazionarmi con la persona”.

Curiosamente tutti i racconti della creazione del mondo (da quelli persiani, a quelli babilonesi) sono tutti racconti di guerra e anche noi spesso andiamo in guerra contro l’Alzheimer.
Ho provato un giorno a raccogliere tutte le parole che usiamo per descrivere la malattia: “affrontare”, che richiama il fronte, “combattere”, “resistere”. Quante volte poi diciamo che siamo “sfiancati”, che non ci “arrendiamo”. Sono tutti termini ed espressioni militari. E ancora: “sii forte”, “la malattia non vincerà”, “dobbiamo debellarla (letteralmente “togliere la guerra da”), dobbiamo “trovare alleati”, “adottare una strategia”, “la malattia colpisce”, “dobbiamo stare attenti ai campanelli di allarme”, “non ho tregua”.

In questa guerra ci concentriamo sulle armi che, fuor di metafora, sono i farmaci per sconfiggere la malattia (la stessa dinamica l’abbiamo vista anche durante il Covid, parlando del vaccino come “arma” per “sconfiggere” la pandemia). Abbiamo poi i soldati, le badanti, e lo stratega, che spesso è il medico.

Però bisogna pensare al fatto che una guerra è sempre dannosa, anche per chi vince, perché il terreno rimane comunque devastato e quel che resta è una cultura di terrore. In guerra non c’è spazio di investimento per la crescita, si resta sul fronteggiamento, sull’emergenza.

E poi c’è da dire che, in questi termini, con l’Alzheimer la guerra non la possiamo vincere, perché non esiste una cura risolutiva. Ecco, di fronte a questo racconto di guerra, la Genesi risulta straordinaria, perché risponde con la parola che crea. Dio disse: “sia luce” e “luce fu”. Disse: “si separino le acque” e queste si separarono. È la parola che crea il mondo, non c’è una lotta fra due elementi. La parola può essere quindi lo strumento principe nella relazione e la relazione può essere il nostro focus straordinario che ci consente di passare dal caos alla persona.

Il percorso di Exameron per l’Alzheimer vuole quindi porre l’accento sul prendersi cura della persona e non sullo sconfiggere la malattia. Il cuore deve diventare la persona, non la guerra. È chiaro che così è molto più complicato perché, tornando alla metafora bellica, la diplomazia è una strada molto più difficile dell’uso delle armi. Però valorizza l’umano e nel nostro caso conferisce dignità non solo alla persona di cui ci prendiamo cura, ma anche a noi che ci prendiamo cura di lei, perché ci dona un’immagine più umana di noi stessi e meno di soldati.

Ecco, allora non ci resta che trovare la persona in ogni dove, stanarla, sedurla invece che concentrarci sulla lotta. È come il grano e la zizzania: è inutile togliere la zizzania perché altrimenti togliamo anche quel che c’è di buono, piuttosto: lasciamola crescere e alla fine seminiamo più grano. Seminiamo fiori invece dell’erba cattiva.

Io vedo la signora Maria con l’Alzheimer. Lei è il soggetto, la signora Maria, con un attributo, la malattia di Alzheimer. Non vedo la “paziente”, la “demente”, la “malata”, altrimenti vedo solo la malattia.

In questa “guerra” dobbiamo anche stare attenti a chi chiamiamo “eroi”. A tal proposito mi è rimasto molto impresso l’intervento della moglie dell’ambasciatore Attanasio, assassinato in Congo l’anno scorso, che, quando le hanno chiesto se suo marito fosse un eroe disse: “non so se fosse un eroe, a me piace pensarlo come un angelo che stava vicino alle persone”.

Ecco, io credo che ci sia richiesto questo: non di essere eroi, ma di essere persone capaci di stare a fianco ad altre persone, vicine a loro e alla loro debolezza. Eroico è il fare, ma qui ci viene richiesto di “essere”. L’essere è ciò che infatti nella creazione ritorna di più: “sia la luce”, “siano le acque”.

La parola che crea è questa cosa qui: cercare di far esistere qualcosa nel qui e ora. La guerra, invece, nasce sempre dal cercare qualcosa che non c’è: voglio annettere, conquistare qualcosa che non è mio oppure voglio riconquistare qualcosa che c’era prima. “Riconquistare” nel senso dell’Alzheimer significa voler ripristinare una situazione precedente che, proprio in quanto passata, cessa di esistere. Andare in guerra così è improduttivo. E allora porsi di fronte alla persona vuol dire essere in relazione con lei per come è nel qui ed ora. Io penso sia la cosa più bella che possiamo fare di fronte alla persona con demenza.

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Il primo nucleo del libro era quello di mettere giù qualche aiuto pratico per i gruppi di mutuo-aiuto, ma poi è venuto fuori che anche gli operatori avessero un gran bisogno di questo tipo di sostegno per assistere le persone con demenza. Allora ho pensato di mettere insieme i consigli per i caregiver familiari a quelli per gli operatori, perché abbiamo tutti necessità di imparare. Si parla tanto di demenza ma in effetti non abbiamo davvero le idee chiare, per questo il lavoro che mi sono proposto era proprio quello di tenere insieme, da un lato, la parte teorica e fondante, dall’altro quella pratica, più operativa.

Per me era importante che si evitasse di parlare di Alzheimer in modo semplificato, tipo “le dieci regole per fare stare meglio la persona”, e dall’altro sentivo il bisogno di non parlarne come dentro a un trattati iper teorico di stampo medicale. Quando poi ti trovi ad andare a casa delle persone, tutte quelle ricerche belle e importanti non hanno nessuna presa nel quotidiano. Io da professionista ho vissuto questa schizofrenia e quindi ho sentito il bisogno di far convergere la parte pratica con un orizzonte di senso che aiutasse a capire la malattia e la persona che ne è affetta.

Senza un orizzonte teorico i consigli pratici non trovano sostegno. È infatti necessario sapere il “perché” accadono certe cose e il “che cosa” posso fare. Questi due aspetti non dovrebbero essere divisi ma camminare insieme. Tutto ciò che ha a che fare con l’Alzheimer va sperimentato, vissuto e non può solo essere letto. Se il libro in qualche modo, combinando la teoria e la pratica, restituisce un po’ un assaggio di come si possa vivere a fianco alla persona con demenza, allora ha raggiunto il suo scopo.

In base alla tua esperienza anche di formatore, hai visto un’evoluzione degli approcci di cura per la demenza? E a livello culturale vedi un cambiamento?

A livello di approccio farmacologico non ci sono grosse novità. O meglio, le novità sembrano esserci, fanno il loro ingresso nella comunità scientifica in pompa magna ma poi si rivelano inconsistenti. Negli ultimi decenni abbiamo appurato quanto poco ci si debba aspettare di trovare una pillola magica di per sé curativa.


A livello culturale se ne parla molto di più: ci sono tanti metodi, tanti approcci, molte iniziative, associazioni. Quando ero all’università si parlava di Alzheimer in termini di “epidemia silente”, perché non ne parlava nessuno. Adesso non è più così, se ne parla molto e questo è un bene, ma può essere anche un rischio perché diventa un centro di interessi. C’è il rischio che ci si occupi di Alzheimer solo per il fatto che sia al centro dell’attenzione. Per cui l’equilibrio è delicato.

Negli ultimi 25 anni c’è stato uno sviluppo importante a livello culturale: da Tom Kitwood in poi, che ha posto l’accento non solo sugli aspetti organici e clinici ma su quelli sociali. Forse questo sviluppo culturale non è però riuscito ad attecchire alla base, parlo dei familiari e del territorio. Perché da medico la cosa che mi sento chiedere di più ancora oggi sono i farmaci. Quando si prova a proporre ai familiari un percorso di aiuto si fa sempre molta fatica a farlo attecchire.

Parlando specificatamente di formazione, un rischio che vedo è quello di concentrarci solo sulla proposta, sul fatto che il proprio metodo sia meglio degli altri, non sulla persona.

Le potenzialità ci sono ma vanno portate avanti con umiltà e con l’idea di metterle al servizio. È quasi più importante, a mio avviso, il solo fatto che una persona tenti un approccio rispetto a quale approccio scelga.

Ci sono metodi che dicono cose opposte l’uno all’altro, quindi diventa difficile scegliere. Ma ancora prima di dire “questa è la strada giusta” credo si debba provare a dire “divento anche io artefice, attore e protagonista della cura della persona”. C

Come familiare, quando inizio a seguire un metodo dovrei cercare di concentrarmi sul cosa dico, sul cosa faccio, guardare quello che succede e stare attento, essere consapevole e ricominciare a mettere al centro la persona, non il metodo. Questo dovrebbe valere allo stesso modo anche per gli operatori, che fanno formazioni anche diverse fra loro sui vari metodi. Ecco, non è importante quale sia quello applicato, ma il fatto di applicarsi con la giusta attenzione. Se ci si applica così, fosse anche un metodo non proprio adatto alla persona, l’operatore trova lo stesso i risultati.

Ritorniamo a essere protagonisti e non vittime, facciamo in modo che nel percorso di cura abbia un peso maggiore il modo in cui ti parlo, in mi muovo. Perché questo vuol dire rendere la persona protagonista nel percorso di assistenza alla malattia e se agisco in questo modo cambio anche l’evoluzione della malattia stessa.

Per me, concludendo, “formazione” vuol dire dare forma a qualcosa, riuscire a porsi di fronte a qualcosa e cambiarla. Alla fine di ogni giornata di formazione chiedo a tutti di individuare una cosa, anche piccola, in cui si sentono diversi rispetto a prima. Se non è cambiato nulla, allora non è servita. Quando un formatore, un operatore, compie un percorso di questo tipo si sente più ricco ed è anche maggiormente soddisfatto di sé.

I servizi attuali secondo te sono in grado di accogliere le persone con demenza? Quali carenze rilevi?

Parto da una frustrazione: io ho lavorato per più di 20 anni nei centri specifici per le demenze e ho fatto molta fatica, avevo tempi limitati perché vedevo le persone per 40 minuti ogni tre/quattro mesi. In quei 40 minuti non ci si può prendere carico di una malattia come la demenza. Vedevo il bisogno di intervenire su così tanti aspetti che come servizio ambulatoriale non era possibile considerare. Già è cambiato molto quando nella RSA dove lavoravo è stato aperto un gruppo di auto-mutuo-aiuto. Lì ho capito che le cose cambiano se hai una rete a cui appoggiarti, su cui contare.

Io non credo che manchino i servizi, credo che siano estemporanei. Dipendono dai luoghi, dai tempi e sono poco coordinati. Credo che il problema sia che ognuno faccia il suo e allora più che un servizio in più servirebbero spazi di condivisione, di formazione, di supporto.
Il problema è la mancanza di riferimenti perché quando ci si trova di fronte la diagnosi di demenza non si sa cosa fare, a chi rivolgersi, né si sa inscrivere quello che si sta vivendo all’interno di un contesto di senso. Penso al ruolo delle RSA che stanno in parte diventando sempre meno luoghi chiusi. Hanno un potenziale altissimo e nonostante questo sono ancora considerati luoghi di abbandono.

Anche lo snellimento della burocrazia e delle procedure non sarebbe una cosa da sottovalutare, perché il tempo speso per far fronte a quelle potrebbe essere meglio speso per prendersi cura delle persone.

Dunque, sia a livello di attivazione di spazi di condivisione, sia a livello di valorizzazione delle RSA penso che si possa fare molto. Quindi penso che più che un servizio in più meglio un ponte in più fra questi.

In rivista Cura stiamo lavorando al tema della “rinascita”: qual è la tua idea di rinascita per il settore sociosanitario?

Il libro che ho scritto si chiama “Ricominciare con l’Alzheimer” e ci tengo che l’accento venga posto proprio sulla parola “ricominciare” e non sul “ripartire”, come spesso si usa dire. “Ripartire” vuol dire che siamo arrivati fino ad un certo punto e che da lì dobbiamo tirare avanti. “Ricominciare” invece vuol dire rimettere in ordine le cose: è bello pensare che riparto dall’inizio perché ci voglio vedere chiaro, perché voglio mettere in ordine le cose.

È il senso del libro della creazione, che è stato scritto dal popolo ebraico dopo l’esilio, quando dovevano ricostruire il loro popolo. Dà proprio l’idea di un paradigma da coniugare: se io ho paradigma lo applico ai luoghi, alle persone. Tirare avanti non è abbastanza, bisogna invece prendere tutti gli elementi, dall’apparenza caotici, e creare nuove forme di configurazione, nuove prospettive e nuove ottiche. Sui servizi, sul territorio, su tutti gli elementi della cura possiamo fare lo stesso discorso. Serve meno immagine e più sostanza: il gioco è tutto questo.

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