Cosa hanno in comune animatore, caregiver e operatore? Un ruolo chiave nel sostegno affettivo e psichico dell’anziano

di Mauro Cauzer (psicoterapeuta)

Con il supporto dell’Ente di formazione Selform, vogliamo definire il ruolo delle persone impegnate nella cura dell’anziano, dall’animatore sociale, definito qui “attivatore”, al caregiver o operatore, per cercare di individuare i tratti comuni che queste figure hanno nella relazione con l’anziano.

Iniziamo dall’Animatóre (-trice); si tratta, letteralmente di una persona che anima, che dà vita, impulso, movimento, che organizza attività all’interno all’interno di comunità sociali, di quartieri, di scuole, oppure una persona specializzata nell’assistere e guidare i bambini nelle loro attività creative, oppure chi, nei villaggi turistici, ha il compito di organizzare giochi, tornei, feste, spettacoli per rendere più gradevole il soggiorno degli ospiti.


Per meglio definire ciò di cui vogliamo occuparci è stato necessario aggiungere l’aggettivo sociale per cui l’animatore sociale è un operatore che svolge diverse attività finalizzate a sviluppare le potenzialità di singole persone o di gruppi, promuovendo processi di prevenzione del disagio e favorendone l’inserimento e la partecipazione sociale.


Ad oggi non esiste un titolo di studio che abiliti a diventare animatore sociale, ma esistono corsi e qualifiche che permettono di intraprendere regolarmente tale professione. Tra le competenze richieste è necessario che un animatore sociale abbia molta pazienza e creatività e che sia in grado di rapportarsi con le diverse tipologie di utenti (anziani, minori in difficoltà, disabili). Con questi, dovrà essere in grado di organizzare e creare delle attività come laboratori artistici, spettacoli teatrali, attività ludiche e così via.


Ma ciò che distingue un animatore sociale da un qualsiasi altro animatore (per esempio quello del settore turistico) è la sua capacità di valutare attentamente le competenze residuali di ogni utente e quindi creare dei programmi individualizzati. Per il settore anziani infatti l’ obiettivo finale del suo lavoro sarebbe quello di stimolare e/o migliorare le capacità residue di ogni paziente e di ottenere cambiamenti significativi nella sfera fisica e psichica. Allora, come si vede, si tratterebbe di un “attivatore“.

E di conseguenza dovrebbe sparire quella brutta parola “Animazione” che spesso campeggia come un vanto nelle varie offerte delle residenze per anziani e che spesso consiste nel fare dei giochi che si fanno con i bambini.


Poi abbiamo la figura del caregiver, di solito un familiare che occupa un ruolo informale di cura, supporto e di vicinanza, che è partecipe dell’esperienza di malattia della persona e che si impegna nelle attività quotidiane di cura.

Un Minimo Comune Denominatore: il setting interno

Sicuramente il processo di senescenza psichica è caratterizzato da una diminuzione più o meno marcata delle funzioni cognitive, ma anche gli aspetti emotivo-affettivi, che risentono dei cambiamenti intrinsechi a questa stagione della vita, hanno una notevole influenza.

Questo periodo è spesso segnato da situazioni di perdita e da abbandoni e, di conseguenza, queste carenze affettive rendono la persona sempre più depressa, più distante dalla realtà, portandola in un mondo interiore pieno dei fantasmi del passato, nel quale si ricreano esperienze già vissute, rapporti antichi con figure parentali importanti, gioie e dolori provati che hanno segnato un’esistenza.


Ecco perché il sistema relazionale dell’anziano con i caregiver è spesso caratterizzato da incomprensioni, contrasti e conflitti che rendono difficile una tranquilla convivenza e la riempiono di emozioni negative che sono vissute sia dal soggetto, sia dal caregiver stesso. Questi atteggiamenti non sono ben compresi da parte delle persone vicine che possono destabilizzarsi di fronte a dei comportamenti cosi poco razionali e lineari.

Queste alterazioni talmente grossolane nelle loro manifestazioni quotidiane possono invece avere un loro senso se comprendiamo cosa avviene nel profondo della psiche dell’anziano stesso. Allora possono essere considerate come gli effetti evidenti di cause non facilmente individuabili dai caregiver o coloro che li osservano (Cauzer et al., 2003).
Possiamo affermare che la natura del declino senile può essere attribuita a due fattori principali. L’uno di natura organica, che significa una perdita di sostanza cerebrale (l’invecchiamento fisiologico, il minor funzionamento dei neuroni, le carenze ed il rallentamento nella trasmissione degli stimoli nervosi, ecc.) e l’altro di natura funzionale.

In questo caso, infatti, nonostante gli esami specialistici eseguiti non evidenzino dal punto di vista anatomico un’importante perdita delle funzioni mentali, si riscontra nel soggetto un comportamento che assomiglia molto a quello di coloro che presentano un vero danno organico. L’asse organico e quello funzionale non sono così separati tra loro, anzi la funzione cognitiva e quella affettivo-emotiva agiscono in parallelo e si influenzano a vicenda.

Gli studi delle neuroscienze (Vallar e Papagno, 2007) affermano che la funzione cognitiva risiede in prevalenza nella zona alta del cervello, nella corteccia cerebrale, mentre quella emotiva si trova nelle zone più basse, cioè nelle zone sottocorticali e nel tronco dell’encefalo. Queste due aree cerebrali sono tra loro in stretto legame e questa reciproca influenza è importantissima per un corretto e regolare funzionamento del sistema psichico e neurologico.


Di fronte alle sue diminuite performances cognitive l’anziano potrebbe regredire a livelli di funzionamento ancora più bassi e ciò aggraverebbe ulteriormente la situazione con i caregiver e instaurare così un circolo vizioso di incomprensioni e comparsa di nuovi risentimenti. Al contrario, l’incoraggiamento e l’attivazione delle risorse emotive-affettive produrrebbe un senso di benessere nella persona anziana con riduzione dell’ansia e dell’angoscia e influirebbe positivamente anche sulle sue capacità intellettive.


Spesso osserviamo un recupero delle capacità cognitive in queste persone non appena si sentono capite e sostenute nell’affrontare le difficoltà che, ai loro occhi, risultano molto gravose. Se questo modo di comportarsi con l’anziano diventa costante, egli potrà raggiungere una maggior tranquillità interiore e, di conseguenza, avere migliori relazioni con gli altri. Questa sensazione di benessere produrrà un’ulteriore gratificazione rinforzando l’autostima dell’anziano e così potrà innescarsi un circolo virtuoso con ulteriori miglioramenti sotto il profilo affettivo-relazionale e sotto quello intellettivo-cognitivo.

Dunque, queste trasformazioni della sfera cognitiva e emotivo-affettiva si influenzano reciprocamente e si compensano. Persone deteriorate mentalmente in alcuni periodi appaiano ben orientate e lucide, mentre altre volte sembrano disorientate e confuse, impegnate in un continuo tentativo di ritrovare i frammenti del proprio Sè. Se si offre al soggetto frammentato la possibilità di relazionarsi con una persona che si propone come “oggetto ausiliario”, in un clima transferale favorevole e non violento, la ricerca estenuante di sé si attenua e l’economia psichica dell’individuo viene ad esserne notevolmente modificata (Le Goues, 1995).

Per “oggetto ausiliario” intendiamo una persona che si presti a farsi investire di significati affettivi come lo è stata la propria madre nei primissimi stadi della vita. La madre viene indicata, in questa teoria relazionale, con il sostantivo di primo oggetto. L’oggetto ausiliario funziona come sostitutivo del primo oggetto, date le condizioni di estrema dipendenza della persona deteriorata e si assiste spesso al ristabilirsi di una relazione oggettuale più duratura. Nel caso dell’anziano può essere il suo caregiver.

Stabilire un rapporto fiducia col caregiver

Vogliamo meglio spiegare attraverso quale processo psicodinamico la fiducia di base si trasferisce sulla figura del caregiver o operatore che sia. La perdita di persone significative (coniuge, amici, parenti) produce un’angoscia legata alla perdita dell’oggetto e quindi verrà messa in atto un meccanismo di difesa chiamato regressione, con cui l’anziano ritorna ad una condizione quasi infantile di dipendenza.

L’investimento emotivo poggia sia sul piacere di percorrere un sentiero già conosciuto, quello dell’infanzia, e ritrovare narcisisticamente sé stessi, sia sul piacere di poter ritrovare ancora l’oggetto a condizione che questo sia familiare, rassicurante ed affettivamente presente. Il caregiver o operatore diventa quindi l’oggetto esterno di sostegno, un “Io ausiliario”, ovvero colui che fornisce un appoggio e una solidità psicologica all’anziano, essendo la sua stabilità psichica molto vacillante.

Il caregiver diventa il veicolo attraverso cui l’anziano consolida i suoi meccanismi di compenso e le sue risorse residue e, al tempo stesso, riduce la sensazione di ansia e di abbandono derivanti dalla percezione della riduzione delle sue capacità psicofisiche, dal calo di autostima e dalla perdita di figure significative e rassicuranti della sua realtà quotidiana. Tutto ciò comporta anche l’abbandono degli atteggiamenti regressivi e depressivi e la persona ricomincia ad investire affettivamente la realtà interna ed esterna riprendendo la formulazione del proprio pensare.


Siamo fortemente convinti, poiché l’anziano è un soggetto unico e irripetibile che esprime una realtà interiore specifica, che si debba uscire dai comuni atteggiamenti di nichilismo terapeutico, figli di una cultura che ha una visione stereotipata della senescenza fondata sulla tesi che il declino della persona sia legato a processi di tipo organico inesorabili ed immodificabili, verso i quali non esistono possibilità di trattamento.

Crediamo che la persona anziana, anche nel caso di decadimento dovuto a problematiche organiche, possa essere aiutata a recuperare aspetti cognitivi, affettivi, relazionali deficitari o si possa rallentare il processo di deterioramento attraverso una stimolazione specifica e personalizzata basata sulle conoscenze più attuali nel campo delle neuroscienze e della psicodinamica dell’invecchiamento. Il punto focale è la relazione fra caregiver e anziano con l’obiettivo di migliorare il relazionarsi reciproco di ciascuno e, di conseguenza, compensare i deficit della persona rendendo più efficaci gli interventi riabilitativi delle funzioni intellettive.

Anche nel caso di deterioramento organico in cui i neuroni, insieme alle loro connessioni sinaptiche, muoiono progressivamente, la stimolazione cognitivo-affettiva risulta utile perché può indurre i pochi neuroni rimasti a formare nuove connessioni in grado di far passare impulsi nervosi.


L’affettività è quindi la chiave di volta per poter influenzare in positivo la performance cognitiva di una persona disorientata e nello stesso tempo riequilibrare con dolcezza la sua economia psichica. La regolazione degli affetti è ruolo del sistema limbico: le componenti principalmente coinvolte sono l’ippocampo (o corno di Ammone) e l’amigdala (che conferisce una colorazione affettiva alle informazioni cognitivo-sensoriali), i nuclei del setto e determinate circonvoluzioni della corteccia.

Poiché alcune di queste aree sono strettamente collegate con le regioni della corteccia frontale, che sono al servizio delle attività integrativo-cognitive superiori, possono formarsi vaste zone di commutazione affettivo-cognitiva. In modo più specifico, l’elemento affettivo è dato dai neurotrasmettitori delle vie di associazione specificatamente interessati: questi vengono riattivati grazie a stimoli affettivi o cognitivi affini. Un tale imprinting affettivo potrebbe avere una parte nella formazione delle connessioni neuronali facilitando, forse, una più stretta e forte interazione.


Perché tutto questo possa avvenire c’è la necessità, sia in un operatore professionale o in un caregiver, di un “setting interno” cioè di uno spazio mentale rappresentato soprattutto dalla disponibilità e dalla motivazione a intraprendere questo percorso e a riflettere su quanto emerge di volta in volta. Disponibilità per il caregiver o operatore a fare da catalizzatore di frammenti di esperienze che non hanno trovato collocazione adattiva nella memoria semantica ma che si sono tramutate in schegge di un passato che non può essere inserito nella memoria episodica, che non può ricordato in una sequenza logica, ma solo riattivato nel presente in modo inatteso.

La memoria mentale sulla quale si va formando il senso di sé nei primi mesi di vita è pertanto frammentaria e può dar luogo a un senso di sé altrettanto frammentario. Sarà compito della madre, il primo oggetto e primo caregiver, attraverso l’abituale corrispondere ai bisogni del bambino, tenere insieme questi frammenti nel periodo in cui il bambino non ha ancora la capacità mentali per farlo. Il piccolo vive semplicemente delle sensazioni che soddisfano delle tensioni, il corpo è la sola via di espressione perché la mente non né ancora pronta a rappresentarle.


Crediamo che questa sia la forma dell’angoscia che prova una persona fortemente deteriorata quando la memoria sta dissolvendo la propria storia individuale minando un elemento portante della propria identità che, frammentandosi, perde la sua coesione: l’angoscia di andare in pezzi, di disperdersi nello spazio oppure di scomparire, di annientarsi.


Però nelle sue tappe discendenti di regressione, l’anziano manterrà per sempre la capacità di relazionarsi in qualche modo con gli altri e con i caregiver anche se è ridotto a uno stato vegetativo. Questo avverrà per tutta la durata della vita di un individuo e di conseguenza la capacità di mettersi in relazione è un fattore fondamentale dalla nascita alla morte.


Aspetti emotivo-affettivi nel ruolo di caregiver

La funzione dell’operatore o caregiver è fondamentale in qualunque tipo di servizio, ma lo è in modo particolare nelle situazioni in cui gli utenti si trovano ad essere dipendenti e in posizione di debolezza. Le difficoltà nell’affrontare e nello svolgere con continuità, competenza e professionalità il lavoro con persone anziane, ci evidenziano l’importanza di due punti fondamentali:

  • una valida e qualificata preparazione tecnico-professionale per il caregiver o operatore;
  • una formazione atta all’acquisizione di una specifica capacità di interazione con l’anziano privilegiando l’aspetto affettivo-relazionale che il caregiver deve stimolare.


Fondamentale a qualsiasi modalità di relazione con l’anziano è la convinzione dell’unicità e della irripetibilità di ogni persona e del suo diritto a conservare la propria dignità.
Nella nostra attuale società si riscontra scarsa considerazione per la valenza umana, per i valori e i diritti degli anziani, in particolare di quelli che manifestano un certo deterioramento.


Infatti, da parte dei caregiver, si punta molto sull’espletamento di funzioni assistenziali (igiene, alimentazione, terapia farmacologica) ma non ci si interessa di stabilire un rapporto con la persona indementita. Anzi, le sue manifestazioni emotivo-affettive non vengono considerate come un tentativo di comunicare, ma come sintomi del suo “rimbecillimento”. Di conseguenza, ogni tentativo di espressione di bisogni, sentimenti, vissuti viene spesso represso attraverso risposte comportamentali aggressive e si fa ricorso a terapie sedanti.


Il ruolo del caregiver può, invece, assumere una importanza fondamentale, diventando così il veicolo inconscio attraverso il quale l’anziano consolida i suoi meccanismi di compenso e le sue risorse residue e cerca di ridurre nel contempo la sensazione di ansia e di abbandono derivanti dalla percezione della riduzione delle sue capacità psicofisiche, del calo di autostima, e dalla perdita di figure significative e rassicuranti nella sua realtà quotidiana.

Questa richiesta da parte dell’anziano viene però attuata in modo indiretto ed ulteriormente mascherata da meccanismi di difesa di tipo regressivo e depressivo. L’interpretazione per il caregiver di tali modalità comportamentali è già di per sé piuttosto difficoltosa. L’incomprensione relazionale che ne deriva si complica ulteriormente essendo l’operatore spesso impreparato ad accogliere questo tipo di coinvolgimento ed investimento di responsabilità, che facilmente scivola in un coinvolgimento emotivo eccessivo. Tutto ciò lo condiziona, inconsciamente, ad una risposta emotiva impropria.


La dinamica della relazione col caregiver

Ogni relazione è condizionata da due fattori fondamentali:

  • il bisogno dell’oggetto;
  • il transfert.


In ogni relazione umana esiste il transfert, un processo che viene proiettato su di noi, ma che anche noi proiettiamo su gli altri. Si tratta di un fenomeno noto a tutti: l’attrazione o la simpatia che possiamo provare spontaneamente e di primo acchito per una persona sconosciuta. Questo fenomeno è spiegabile proprio grazie al transfert per cui non si tratterà di un sentimento “originale”, ma di una riedizione di un sentimento già provato per una figura significativa del proprio passato che, inconsciamente, si attualizza con l’incontro con la persona sconosciuta per delle caratteristiche fisiche, posturali, gestuali, verbali o altro.


Se da parte dell’anziano il transfert è un vissuto spontaneo e non consapevole, per il caregiver, in una situazione professionale, sarà importante riflettere sul perché dei propri vissuti. Quando avremo capito perché proviamo certi sentimenti verso l’anziano, se riusciremo a decifrarli, ciò ci permetterà di non reagire in modo impulsivo, modo che potrebbe non essere adeguato.


Ci sembra che questi presupposti teorici siano fondamentali per capire la dinamica delle relazioni umane. Nel momento in cui il caregiver si avvicina alle persone che vivono questa situazione di difficoltà, con la volontà di migliorare questa situazione, è necessario, prima di tutto, che “si renda conto” dell’altro e che cerchi di comprenderlo.

L’attenzione del caregiver si focalizza principalmente non sui deficit, ma sulle capacità residue in modo da potenziarle e rafforzarle. È importante avere stima e fiducia nella persona anziana, ma non bisogna farsi illusioni e neanche crearne. L’obiettivo dell’operatore non consiste nei traguardi idealizzati e in una totale restitutio ad integrum ma nel porre la singola persona nelle condizioni migliori per raggiungere il massimo della sua autonomia rispetto al livello del suo disagio di partenza.


I risultati saranno positivi in rapporto al clima più o meno favorevole e gratificante in cui l’intervento riabilitativo e socializzante sarà realizzato. Se tutti gli operatori sono consapevoli di essere artefici diretti di un atmosfera serena, positiva e fiduciosa, di un ambiente idoneo a comprendere i bisogni dell’utente e capace di promuovere nuove mete, l’anziano si sentirà accolto in maniera incondizionata e avrà il desiderio di provare a migliorare.


Questo tipo di comportamento, fondato sull’affettività dell’operatore nell’interazione con l’utente, fa sì che questo ultimo tenda a ripetere il comportamento dell’operatore. Al contrario, una comunicazione caratterizzata da svalutazione e disistima genera nella persona in difficoltà sentimenti di ansia e di paura ponendola in una situazione di diffidenza e di rifiuto nei confronti dell’operatore stesso e delle attività proposte.


In definitiva, l’operatore dovrebbe avere un duplice atteggiamento: da una parte, sentire una partecipazione che gli consenta di condividere le esperienze dell’anziano, e dall’altra avere una distanza emotiva che gli permetta di oggettivare i problemi della persona in difficoltà.
In quest’ottica il campo d’azione comprende il sapere: il saper fare e il saper essere dove il sapere non è solo cognitivo, ma anche esplorazione dell’intrapsichico. Il saper fare, paradossalmente, parte da cosa “non fare” e si basa sull’acquisizione sia di strumenti direttivi ma anche di strumenti intuitivi ed interpretativi.


Tuttavia, è necessario ricordare che la comunicazione, la relazione, non sono istanze da apprendere ex novo, ma sono componenti proprie di ciascun individuo, determinate e modellate dal variare delle circostanze. L’operatore deve imparare ad osservare, ascoltare e, spesso, anche a tacere.


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