L’approccio alle cure palliative richiede un cambio di prospettiva, che coinvolge medici e personale di cura.  È necessario un ripensamento complessivo della cura residenziale in chiave palliativa: ce lo suggerisce l’ultimo libro del professor Sandro Spinsanti.

La cure palliative nascono – lo indica lo stesso nome – quando una patologia si impone e trascina il malato verso la morte. Ma l’approccio a questo tipo di cura è ad oggi in forte trasformazione. L’occasione arriva (paradossalmente) dalla pandemia da Covid, dagli errori commessi, che hanno imposto un ripensamento complessivo della cura residenziale in chiave palliativa.

di Ugo Albano

Un cambio di prospettiva per medici e personale di cura

Si tratta di un cambio di filosofia che, a partire dai medici, coinvolge tutto il personale di cura, e che richiede reale volontà di investire in questa direzione: il testo La cura in modalità palliativa di Sandro Spinsanti affronta questa tematica e la sviluppa – in termini storici ma anche di significato – rispetto a paradigmi più completi dell’accompagnamento al fine vita nei sistemi di accoglienza, di cui le RSA fanno parte.

Cure palliative: da neodisciplina a insegnamento accademico

Il testo ha il merito di ridefinire, nei dettagli e nella filosofia, le cure palliative stesse: da iniziale neo-disciplina (quasi di nicchia) della medicina a insegnamento strutturato nei corsi di laurea. Il ritardo (un po’ storico) dipende dalla natura stessa della medicina, le cui specializzazioni nascono e si sviluppano per curare e guarire le malattie, lasciando ai palliativisti, appunto, il compito di gestire iter senza guarigione e, per questo motivo, delegittimandoli un po’.

È con la Legge n.38 del 2010 che il nostro Stato inizia a comprendere la palliazione ed il trattamento del dolore come aspetti di cura, anche se non risolutivi, anzi sovente di accompagnamento al fine vita. Ciò comporta una chiara rivisitazione dei percorsi di cura, con una centralità del medico palliativista come esperto del dolore e gestore degli iter clinici.

La comunicazione con il paziente

Questa novellazione si accompagna a un forte ripensamento del ruolo di medico avvenuto negli ultimi decenni con la riforma del codice deontologico, con la messa al centro della comunicazione col paziente e conseguenti buone pratiche da attivare. In tal senso la cura non è solo quella risolutiva, ma pure quella palliativa è di pari dignità. L’autore però va oltre, sostenendo la necessità di passare dalla medicina palliativa come ennesima e ultima specialità (dolore e fine vita) ad un assorbimento di questi contenuti in tutta la medicina, aspetto necessario per la natura stessa della salute odierna, molto più che in passato orientata al mantenimento di certi stati di non-salute.

Il testo si rivolge ai medici, ma apre a tanti stimoli per le equipes di cura, come appresso meglio spiegherò. Il professor Spinsanti conosce bene la materia e i diversi nodi etici che riguardano i nostri medici e da ciò parte, focalizzando ben tre aree di rivisitazione: la comunicazione, le regole di comportamento e le pratiche opportune. Si tratta, come detto, del governo dell’essere medico e non solo del medico palliativista, anzi l’autore auspica un’omogeneizzazione di queste direttrici in tutti i settori, operazione a seguito della quale la palliazione stessa non avrebbe da esistere. 

Attenzione comunicativa e parole appropriate: buone pratiche per una medicina sana

L’autore invita i medici a rivedere lessico ed anche le modalità di comunicazione col paziente, facendosi guidare dallo spirito del codice deontologico e dall’obbligo di gestione del consenso informato di cui alla Legge 219 del 2017. Nella modalità sbagliata del comunicare esiste infatti non solo carenza formativa (ad oggi ancora presente, ahimè!), ma anche per un forte invischiamento dal passato, con disabitudini a parlare, brutte abitudini a parlare solo con la famiglia, tendenza ad edulcorare la comunicazione di diagnosi e prognosi per tradizionale (e falsa) pietà verso il paziente cronico. Più che cambiar parole l’autore invita ad usare parole appropriate (lui che chiama “giuste”) e condirle di grande attenzione comunicativa, considerato che proprio su queste si costruiranno poi gli iter di cura e gli stessi atteggiamenti del paziente verso se stesso ed il mondo.

Medical Humanities: non sono una opzione

Se il medico non è un “freddo tecnico”, ma un professionista del bene, egli deve ispirare il proprio comportamento a regole etiche ben precise, che l’autore definisce (non traducendole per non snaturarne i significati) in medical humanities. Se carenti, succede come col covid, in cui l’emergenza ha fatto venir meno lo stesso rapporto con i pazienti, spesso abbandonandoli all’oblio dietro le esigenze di isolamento. Humanities che l’autore ripone a governo della relazione clinica che è emozionale, oltre che materiale, lasciando la costruzione di questa competenza alla formazione. Non si può nella cura, infatti, imparare l’operatività relegando le humanities alle opzioni: se così fosse si cadrebbe nel grande rischio – che l’autore più volte sottolinea – di confondere spiritualità ed etica. Infatti il professor Spinsanti raccomanda una formazione etica a sostegno della coscienza del curante per un più sano discernimento dei fattori di scelta di desistenza. Basti solo pensare alle spinte economiche che orientano la cura verso i limiti di spesa cui i medici sono sottoposti.

La salute del curante, per la salute del paziente

La vera professionalità del curante, se parte da competenze comunicative e si nutre di continua cura di se stessi in ambito etico, non può poi esimersi dall’agire pratiche non solo giuste, ma pure efficaci e sempre concertate con il paziente. Non si tratta di saltare dal bianco al nero, ma di riconoscere che, tra questi due estremi, si sviluppano tutti i colori dell’arcobaleno; non esiste una ricetta, ma la giusta composizione tra gli insegnamenti acquisiti e gli atteggiamenti etici, che affondano le loro radici nella persona che si è, differenziando sempre etica e spiritualità. Si tratta pur sempre di un viaggio in acque insidiose in cui da salvaguardare c’è proprio la salute del curante, a rischio demotivazione fino al burnout più completo, con comportamenti emozionalmente asettici e spiritualmente vuoti.

Dal medico all’equipe

Molti spunti nel testo di Sandro Spinsanti rimandano non solo al medico ma anche al sistema di cura. Lo stesso autore riprende in più occasioni la titolarità della cura all’equipe, in cui il sapere medico deve sapersi integrare con altri saperi. Le cure palliative sono, oggi come oggi, attuate negli Hospice o nelle RSA; è evidente che l’apporto relazionale del medico col paziente si concentri al massimo sulla mezz’ora al dì, che in certi casi è già tanto. E chi agisce alla cura nelle ventitré ore e mezzo?

Il sistema di cura, fatto da infermieri professionali e tanti, tanti operatori sociosanitari. Se così è, allora risulta quanto mai necessario far trasferire i contenuti della cure palliative a tutto il personale. In tal senso sia la Legge n.38/2010, sia la riforma del consenso informato, la Legge n. 219/2017, spostano il focus dal medico all’equipe. Restiamo quindi ad oggi sulla metafora della copertina, in cui San Martino si taglia il mantello per il povero. In verità dal taglio del mantello alla dazione non c’è un solo San Martino, ma ce ne sono tanti, diversi tra loro, ma tutti chiamati a rendere confortevole l’unica coperta al moribondo. Sarà questa la sfida del futuro?  


Per approfondire

La qualità della cura: definirla e misurarla nei servizi alla persona è possibile?, di Ugo Albano

Fine vita, accompagnare l’anziano con demenza in modo dignitoso, di Elisa Mencacci


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Cure palliative: è necessario un cambio di prospettiva, che coinvolge medici e personale di cura. Lo suggerisce l’ultimo libro del professor Sandro Spinsanti.

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