Riflessioni di una formatrice sulla pratica operativa in materia di salute e sicurezza sul lavoro nelle imprese rischio alto, area sanitaria, socio sanitaria, sociale ed educativa.

Rosalia Tribolo
Assistente sociale Specialista
Formatrice

La sicurezza e la salute dei lavoratori nell’ambito socio sanitario è un aspetto ancora troppo trascurato, sottovalutato. Come docente nei corsi di formazione e aggiornamento ( da ormai più di 10 anni, ai sensi del decreto 81/2008) troppe volte incontro operatori che descrivono condizioni di lavoro che dire fuorilegge è eufemistico. Li incontro perché vogliono cambiare lavoro, insoddisfatti del trattamento, stanchi della collocazione lavorativa e dell’organizzazione del lavoro, spesso in una situazione di pesante stress da lavoro correlato. Fanno domande di lavoro e solo al colloquio scoprono di essere privi di attestazioni regolari e valide ai sensi dell’accordo Stato Regioni in materia di salute e sicurezza, e devono fare per la prima volta o completare la formazione generale e specifica di settore.
Gli aspetti che emergono sono rappresentativi di realtà di lavoro, soprattutto nelle comunità e nelle RSA, ma non da meno nei servizi sociali ed educativi, che potrebbero risultare ottimo territorio di caccia per visite ispettive che purtroppo non avvengono. I lavoratori e le lavoratrici descrivono scenari dove partecipare attivamente e collaborare per migliorare la situazione è impedito dal timore di conseguenze negative sul piano occupazionale. Variegate risultano le sensibilità dei responsabili, alcuni certamente attenti altri lontani dal comprendere che la qualità di un servizio è anche correlata al come si fanno le cose e non soltanto da una idea di produttività che alla fine è ben lontana dal rispetto che le persone meritano.
Molte direzioni aziendali paiono più interessate ad economizzare sugli ausili, sui dispositivi di protezione individuale e a non investire sulla formazione e neppure sulla supervisione.
Personalmente ritengo imbarazzante indicare tecniche e metodi di lavoro adeguati ad una operatività consona non soltanto sul piano tecnico professionale ma anche preventiva all’errore e all’incidente e dell’infortunio, a operatori che se ne meravigliano dopo anni e anni di lavoro specificatamente in ambito socio sanitario.
Parlo di schede tecniche di sicurezza dei prodotti utilizzati per le pulizie e della necessità che siano a disposizione dei lavoratori e scopro che gli addetti travasano dalle taniche industriali in contenitori più piccoli e non regolamentari, privi di etichettatura specifica del prodotto.
Inoltre, nelle descrizioni di contesto, durante gli approfondimenti su temi come l’aggressività e la violenza sul posto di lavoro si aggiungono aspetti inquietanti: il nonnismo che si pensava pratica da caserma viene descritto come largamente diffuso: “te che sei ultima arrivata non pensare di cambiare le cose, qui si è sempre fatto così, se vuoi lavorare qui ti adegui” ecc.. E questo vale nell’ambito operativo degli Operatori socio sanitari, come per gli infermieri, come per altri lavoratori. La presenza dei rischi psicosociali in questi posti di lavoro appare significativa e furi controllo: omertà soprattutto, voltarsi dall’altra parte, lasciare solo il collega in difficoltà. Operatori che, pur di farsi rinnovare i contratti di lavoro accettano doppi turni e rientri dai riposi sistematici. Aspetti come assenteismo e presenzialismo che dovrebbero inquietare e far riflettere i responsabili, sono sottovalutati e rischiano di diventare preambolo per stress e Burn-Out. 
Vengono riferite situazioni in cui i professionisti, operatori e anche responsabili che hanno nella relazione la chiave della relazione di aiuto e della gestione del personale agiscono nei confronti dei nuovi colleghi con dinamiche marginalizzanti, con avversione all’innovazione, refrattari ai cambiamenti, sottovalutando le conseguenze che tali assetti possono avere anche sull’utenza.
Pensiamo per esempio all’attività di colloquio e ricevimento pubblico nei servizi sociali. Setting spesso pericolosi, operatori che ricevono cittadini che scaricano tensioni, malumori, speranze deluse. Cittadini che si rivolgono ad un sistema social, ad organizzazioni che non sempre risultano in grado di rispondere ai bisogni con tempestività e certezza. e rispetto al quale l’assistente sociale rappresenta un facile capro espiatorio. In tale contesto l’attività quotidiana degli assistenti sociali è caratterizzata da rischi evidenti : incolumità fisica e stres e in alcuni casi Burn-Out. Tanti sono gli episodi che vedono coinvolti gli assistenti sociali, anche alimentati da luoghi comuni e una comunicazione dei mas media che non sempre è una veritiera ed equilibrata rappresentazione della professione. Episodi che sono facilitati da narrazioni a dir poco inquietanti: assenza di di protezioni strutturate, come ad esempio compresenza di operatori presso il servizio, cicalini di allarme, ecc. Anche per questi operatori la necessità di sostegno, supporto, supervisione, formazione specifica è evidente, e non deve essere lasciata solo sulle spalle del singolo professionista.
Particolare attenzione andrebbe posta da chi di dovere sugli aspetti usuranti delle attività di movimentazione dei carichi, che spesso rischiano di ridurre la possibilità di svolgere nel settore socio sanitario l’intera carriera lavorativa, visto che ormai protraendosi il diritto al pensionamento verso età così avanzate da presagire, e lo dico con triste ironia, il passaggio automatico dell’operatore dal letto del paziente al letto a fianco, senza nemmeno uscire dalla camera.
Trattare la salute e la sicurezza con operatori che hanno una età compresa tra i 30 e i 40 anni, con punte oltre i 55 e diverse esperienze di lavoro, anche in ambito socio sanitario, non è solo descrivere i contenuti del decreto legislativo ma è entrare nel merito delle modalità di lavoro, dei comportamenti che i lavoratori assumono nei vari contesti operativi. Per riuscire a comunicare l’importanza del singolo lavoratore nel sistema sicurezza occorre promuovere anche in aula la loro partecipazione attiva. Ed è ascoltando, riflettendo sul significato di pericolo, rischio e di danno riferiti specificatamente al contesto operativo di ciascuna mansione e figura professionale, che si possono mettere le basi per un necessario “sentirsi parte attiva” del sistema a partire dall’azione operativa, verso l’organizzazione in cui si opera, in un servizio che metta davvero al centro la salute delle persone.
Non mi stanco di sostenere che lavorare in modo professionale non è scollegato dal lavorare in sicurezza: è professionale chi urla nei corridoi per richiamare un collega? È professionale scendere le scale scrivendo sul cellulare in WhatsApp? E’ professionale effettuare una igiene personale senza indossare i guanti monouso o indossandone 3 paia perché si rompono e si pensa così che durino più a lungo? È professionale non lavarsi quasi mai le mani adducendo che non c’è tempo? E’ professionale percorrere i corridoi con le siringhe in mano perché” si fa prima che spostare il carrello infermieristico”? È professionale non controllare la carica della batteria dei sollevatori prima di utilizzarli, con il rischio evidente di avere una interruzione di funzionamento durante la manovra? Sono solo alcuni degli aspetti descritti in aula dai partecipanti e che denotano quanto, nonostante la normativa ribadisca la responsabilità dei datori di lavoro, dei preposti e dei lavoratori stessi, la superficialità sia diffusa trasversalmente. Certo in questo nostro settore non si contano per fortuna i morti che hanno altri settori produttivi. Ma c’è bisogno di avere dei morti per accrescere il senso di responsabilità e per semplicemente agire in coerenza con gli aspetti tecnico operativi, le istruzioni e le procedure, le linee guida che ogni professione per altro già conosce, sa di dover avere per garantire un lavoro “in sicurezza” e adeguato a sostenere, aiutare, curare, la persona assistita?
Il concetto di sicurezza e salute delle persone che il Testo Unico giustamente indica come fondamentale approccio sociale ai fenomeni correlati alla produzione non soltanto sul posto di lavoro ma anche per le ricadute ambientali, sociali dell”intorno” a volte, sorprende i partecipanti. Come stupisce il concetto di rischio accettabile, come fosse naturale il fare ciò che viene richiesto da un superiore senza riflettere sulle modalità di lavoro necessarie, sull’utilizzo dei dispositivi di protezione.

Conclusioni
È per questo che l’esperienza di formazione in tale ambito è necessaria, al di là di un mero adempimento ad un obbligo legislativo. E ritengo lo sia ancor maggiormente per chi lavora nelle professioni della cura e della relazione: l’acquisire consapevolezze, avere il tempo per riflettere, ridare un senso al proprio modo di lavorare, acquisire competenze trasversali che possono essere utili nella vita quotidiana oltre che sul posto di lavoro, valorizzare il contributo dei colleghi e le esperienze proprie e altrui, condividere strategie operative. Per gli operatori addetti ai lavori considerati da loro stessi marginali, come le pulizie, è riscoprire quanto importante sia per la salute degli assistiti e dei colleghi una corretta igiene ambientale. So che corro il rischio di sembrare banale. Sono certa che non lo sono: me lo dimostrano ogni giorno i partecipanti ai corsi, che a fine percorso dichiarano quanto siano lieti di aver partecipato sentendosi rivalutati e confidando che possano trovare riscontro nella nuova collocazione lavorativa tra le mie parole e i fatti, perché tra il dire e il fare…

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