Dal momento della diagnosi, sia il paziente sia la famiglia devono affrontare una serie di cambiamenti dal punto di vista individuale, emotivo e relazionale.

La diagnosi di demenza e la crisi della famiglia

Quando l’Alzheimer arriva in famiglia, l’intero sistema familiare va in crisi. C’è chi lascia il lavoro, c’è chi va in pensione anticipata, chi si trova a trascurare il marito, i figli, chi si allontana perché non vuole o non sa affrontare la situazione, c’è chi non riesce a chiedere aiuto.

Come comunicare la notizia

La comunicazione della diagnosi a una persona con demenza solleva dilemmi etici che coinvolgono il paziente, i medici, i curanti e i familiari. La parola demenza evoca profonde angosce, motivo per il quale molti individui, in presenza di sintomi sospetti, tendono a evitare o rinviare la visita presso un medico di base o con uno specialista. Le difficoltà che si incontrano nella comunicazione hanno varie cause: un primo elemento riguarda l’incertezza della diagnosi. Molto spesso, infatti, la diagnosi non è esaustiva e, quindi, il clinico deve procedere a tappe prendendo il tempo necessario per osservare le eventuali evoluzioni dei sintomi. Una diagnosi definitiva dovrebbe essere comunicata solo dopo un’approfondita attenta valutazione. Un terzo motivo è quando la famiglia chiede al medico di non comunicare la diagnosi al paziente, questo per timore dell’innesco di conseguenze psicologiche negative. Questo timore solitamente viene proiettato sul paziente; il medico si auto illude di voler preservare il paziente ma in realtà teme di non saper accogliere le reazioni del paziente, di non essere in grado di stargli accanto e di essergli utile.

L’alleanza tra medico, famiglia e paziente

Prima di comunicare la diagnosi, il medico deve instaurare un’alleanza terapeutica con la persona colpita dalla malattia e con l’intero sistema familiare.

Tale alleanza si costituisce e si declina in modo diverso secondo lo stadio della malattia ma si può stabilire in ogni fase della stessa. L’alleanza terapeutica è quello stile di rapporto che riduce l’inevitabile asimmetria relazionale operatore-paziente e che riconosce al paziente la piena dignità.

Dopo la diagnosi di Alzheimer, il familiare inizia a vedere la persona cara con gli occhiali viola dello stigma e cerca in ogni suo gesto la conferma della malattia.

Dal momento della diagnosi, vi è la difficoltà di familiari e conoscenti di rapportarsi con la persona con demenza.

“Chi si ammala di Alzheimer non è solo un malato, ma è una persona” afferma Tom Kitwood, uno dei pionieri nel campo della cura della demenza. Anche nella fase avanzata di malattia capita in qualche momento particolare di poter cogliere la presenza di un io, una parte sana che è consapevole della propria malattia e della propria storia, un io in cui possiamo riconoscere le identità molteplici che caratterizzano ogni uomo in quanto persona con una propria storia di vita.

https://www.rivistacura.it/alzheimer-conoscere-e-affrontare-lo-stigma-nella-demenza/

I cambiamenti di ruolo e lo stress dei familiari

La famiglia è una risorsa fondamentale per l’assistenza alla persona con demenza. Nella cura del paziente con demenza, il coinvolgimento delle famiglie è pressoché totale. Le famiglie dei malati assumono una grandissima parte del carico assistenziale perché rappresentano la risorsa più importante nella relazione di assistenza con il paziente con demenza.

L’attenzione nei riguardi del proprio genitore anziano e malato può entrare in conflitto con la cura della propria famiglia, specie se ci sono figli minori, così come per la cura di sé. Si pone cioè un difficile problema di scelta o di bilanciamento tra diverse attività di cura. Possono sorgere conflitti tra i figli: l’onere della cura tende ancor oggi a ricadere sulle donne in base allo stereotipo di una maggiore attitudine femminile alla cura e tutto il carico dell’assistenza può gravare su una sola persona, il caregiver principale, non sempre per scelta libera e consapevole, con notevole disagio.

Assistere una persona con l’Alzheimer non è un compito facile a causa di alterazioni comportamentali, cognitive e comunicative che richiedono continue modifiche della quotidianità del famigliare e nuovi adattamenti. Oltre al lato pratico, specialmente quello psicologico richiede buone capacità di coping, risorse interne e molta pazienza, in particolare di fronte a una malattia che comporta un decadimento progressivo delle funzioni cognitive. Essere un caregiver a tempo pieno richiede un gran dispendio di energie; significa impegnarsi totalmente e diventare parte attiva della terapia non farmacologica.

Spesso si parla del malato che non riconosce più i propri cari, ma anche il familiare/caregiver che non si sente più riconosciuto nel suo ruolo, sia emotivo sia familiare, soffre di una profonda privazione. Questa condizione, spesso percepita dal familiare come insostenibile, si prolunga per molto tempo a causa della natura degenerativa della malattia e può avere delle conseguenze molto negative sulla salute psicofisica del caregiver.

Aiutare il caregiver a prendersi cura di sé, significa insegnargli a prendersi cura anche del malato poiché, saper riconoscere quando il peso dell’assistenza è eccessivo, previene comportamenti inadeguati nei confronti di chi si assiste. Nel viaggio con chi è affetto da demenza, diventa significativo e trasformativo l’atteggiamento di compassione, dal latino cum patior – soffro con, non solo verso il proprio caro ma anche nella cura di sé perché a un certo punto del viaggio, il caregiver e l’intero sistema familiare, dovranno necessariamente fare i conti con questa nuova realtà.

Ruoli, responsabilità e aspettative all’interno della famiglia cambiano quando una persona si ammala. Se le responsabilità sono i compiti che ciascuno ha in famiglia, il ruolo riguarda invece l’identità personale e il modo in cui si è visti dagli altri. Le mogli e mariti diventano rispettivamente madri e padri dei propri coniugi e in maniera analoga, figli e figlie rivestono il ruolo di genitori dei propri genitori. Assumere un nuovo compito, come per esempio imparare a fare il bucato per un marito che in vita sua non l’ha mai fatto, comporta – oltre al carico di un’attività nuova  – il dolore per la consapevolezza che il proprio caro non è più autosufficiente.

Alla ricerca di senso

Emozioni e stati d’animo negativi non possono e non devono essere negati ma riconosciuti ed elaborati. Far finta che non ci siano, ignorarli, è un meccanismo di difesa che alcuni familiari utilizzano con effetti sicuramente dannosi per il loro equilibrio psichico. Se non si dà valore e dignità alla propria sofferenza, nascondendola agli occhi di sé stessi e degli altri, tutto ciò non eviterà il dolore che tenderà al contrario a esplodere all’improvviso in maniera violenta e incontrollabile con conseguenze molto negative per tutti i membri della famiglia. È necessario riconoscere il dolore. Permettere a sé stessi di comprendere la validità delle proprie emozioni è l’unico modo per iniziare a stare meglio. I sentimenti possono oscillare tra la speranza che le persone migliorino e la rabbia e la tristezza per una condizione irreversibile. Il confronto con altri familiari che vivono gli stessi problemi, aiuta a riconoscere come normali e naturali le proprie reazioni.

La cura è ciò che assicura il legame, cura è ciò che guarisce il male della separazione, come nell’Alzheimer, che colpisce così fortemente il legame e che separa e divide. In questa prospettiva, la famiglia è il luogo naturale della cura. Nella famiglia esiste il compito naturale di mantenere il legame, di svolgere questo compito di cura, come la capacità di tenere insieme le singole parti del sistema.

Bibliografia di riferimento

KITWOOD T., Riconsiderare la demenza, Erickson, 2015.

VIGORELLI P., Alzheimer. Come parlare e comunicare nella vita quotidiana nonostante la malattia, Franco Angeli, 2018.

Sitografia di riferimento

I 5 bisogni fondamentali della persona con demenza

About the Author: Alfredo Bellini

Psicologo clinico e della riabilitazione, ex caregiver, si occupa di sostegno alle famiglie di persone con demenza, di check-up cognitivo e supporto al lutto. Docente in corsi di formazione sull’Alzheimer e sull’elaborazione delle perdite, per professionisti e familiari. Sito web: www.alfredobellini.it FB: alfredobellinipsicologo IG: alfredobellini.psicologo

Dal momento della diagnosi, sia il paziente sia la famiglia devono affrontare una serie di cambiamenti dal punto di vista individuale, emotivo e relazionale.

La diagnosi di demenza e la crisi della famiglia

Quando l’Alzheimer arriva in famiglia, l’intero sistema familiare va in crisi. C’è chi lascia il lavoro, c’è chi va in pensione anticipata, chi si trova a trascurare il marito, i figli, chi si allontana perché non vuole o non sa affrontare la situazione, c’è chi non riesce a chiedere aiuto.

Come comunicare la notizia

La comunicazione della diagnosi a una persona con demenza solleva dilemmi etici che coinvolgono il paziente, i medici, i curanti e i familiari. La parola demenza evoca profonde angosce, motivo per il quale molti individui, in presenza di sintomi sospetti, tendono a evitare o rinviare la visita presso un medico di base o con uno specialista. Le difficoltà che si incontrano nella comunicazione hanno varie cause: un primo elemento riguarda l’incertezza della diagnosi. Molto spesso, infatti, la diagnosi non è esaustiva e, quindi, il clinico deve procedere a tappe prendendo il tempo necessario per osservare le eventuali evoluzioni dei sintomi. Una diagnosi definitiva dovrebbe essere comunicata solo dopo un’approfondita attenta valutazione. Un terzo motivo è quando la famiglia chiede al medico di non comunicare la diagnosi al paziente, questo per timore dell’innesco di conseguenze psicologiche negative. Questo timore solitamente viene proiettato sul paziente; il medico si auto illude di voler preservare il paziente ma in realtà teme di non saper accogliere le reazioni del paziente, di non essere in grado di stargli accanto e di essergli utile.

L’alleanza tra medico, famiglia e paziente

Prima di comunicare la diagnosi, il medico deve instaurare un’alleanza terapeutica con la persona colpita dalla malattia e con l’intero sistema familiare.

Tale alleanza si costituisce e si declina in modo diverso secondo lo stadio della malattia ma si può stabilire in ogni fase della stessa. L’alleanza terapeutica è quello stile di rapporto che riduce l’inevitabile asimmetria relazionale operatore-paziente e che riconosce al paziente la piena dignità.

Dopo la diagnosi di Alzheimer, il familiare inizia a vedere la persona cara con gli occhiali viola dello stigma e cerca in ogni suo gesto la conferma della malattia.

Dal momento della diagnosi, vi è la difficoltà di familiari e conoscenti di rapportarsi con la persona con demenza.

“Chi si ammala di Alzheimer non è solo un malato, ma è una persona” afferma Tom Kitwood, uno dei pionieri nel campo della cura della demenza. Anche nella fase avanzata di malattia capita in qualche momento particolare di poter cogliere la presenza di un io, una parte sana che è consapevole della propria malattia e della propria storia, un io in cui possiamo riconoscere le identità molteplici che caratterizzano ogni uomo in quanto persona con una propria storia di vita.

https://www.rivistacura.it/alzheimer-conoscere-e-affrontare-lo-stigma-nella-demenza/

I cambiamenti di ruolo e lo stress dei familiari

La famiglia è una risorsa fondamentale per l’assistenza alla persona con demenza. Nella cura del paziente con demenza, il coinvolgimento delle famiglie è pressoché totale. Le famiglie dei malati assumono una grandissima parte del carico assistenziale perché rappresentano la risorsa più importante nella relazione di assistenza con il paziente con demenza.

L’attenzione nei riguardi del proprio genitore anziano e malato può entrare in conflitto con la cura della propria famiglia, specie se ci sono figli minori, così come per la cura di sé. Si pone cioè un difficile problema di scelta o di bilanciamento tra diverse attività di cura. Possono sorgere conflitti tra i figli: l’onere della cura tende ancor oggi a ricadere sulle donne in base allo stereotipo di una maggiore attitudine femminile alla cura e tutto il carico dell’assistenza può gravare su una sola persona, il caregiver principale, non sempre per scelta libera e consapevole, con notevole disagio.

Assistere una persona con l’Alzheimer non è un compito facile a causa di alterazioni comportamentali, cognitive e comunicative che richiedono continue modifiche della quotidianità del famigliare e nuovi adattamenti. Oltre al lato pratico, specialmente quello psicologico richiede buone capacità di coping, risorse interne e molta pazienza, in particolare di fronte a una malattia che comporta un decadimento progressivo delle funzioni cognitive. Essere un caregiver a tempo pieno richiede un gran dispendio di energie; significa impegnarsi totalmente e diventare parte attiva della terapia non farmacologica.

Spesso si parla del malato che non riconosce più i propri cari, ma anche il familiare/caregiver che non si sente più riconosciuto nel suo ruolo, sia emotivo sia familiare, soffre di una profonda privazione. Questa condizione, spesso percepita dal familiare come insostenibile, si prolunga per molto tempo a causa della natura degenerativa della malattia e può avere delle conseguenze molto negative sulla salute psicofisica del caregiver.

Aiutare il caregiver a prendersi cura di sé, significa insegnargli a prendersi cura anche del malato poiché, saper riconoscere quando il peso dell’assistenza è eccessivo, previene comportamenti inadeguati nei confronti di chi si assiste. Nel viaggio con chi è affetto da demenza, diventa significativo e trasformativo l’atteggiamento di compassione, dal latino cum patior – soffro con, non solo verso il proprio caro ma anche nella cura di sé perché a un certo punto del viaggio, il caregiver e l’intero sistema familiare, dovranno necessariamente fare i conti con questa nuova realtà.

Ruoli, responsabilità e aspettative all’interno della famiglia cambiano quando una persona si ammala. Se le responsabilità sono i compiti che ciascuno ha in famiglia, il ruolo riguarda invece l’identità personale e il modo in cui si è visti dagli altri. Le mogli e mariti diventano rispettivamente madri e padri dei propri coniugi e in maniera analoga, figli e figlie rivestono il ruolo di genitori dei propri genitori. Assumere un nuovo compito, come per esempio imparare a fare il bucato per un marito che in vita sua non l’ha mai fatto, comporta – oltre al carico di un’attività nuova  – il dolore per la consapevolezza che il proprio caro non è più autosufficiente.

Alla ricerca di senso

Emozioni e stati d’animo negativi non possono e non devono essere negati ma riconosciuti ed elaborati. Far finta che non ci siano, ignorarli, è un meccanismo di difesa che alcuni familiari utilizzano con effetti sicuramente dannosi per il loro equilibrio psichico. Se non si dà valore e dignità alla propria sofferenza, nascondendola agli occhi di sé stessi e degli altri, tutto ciò non eviterà il dolore che tenderà al contrario a esplodere all’improvviso in maniera violenta e incontrollabile con conseguenze molto negative per tutti i membri della famiglia. È necessario riconoscere il dolore. Permettere a sé stessi di comprendere la validità delle proprie emozioni è l’unico modo per iniziare a stare meglio. I sentimenti possono oscillare tra la speranza che le persone migliorino e la rabbia e la tristezza per una condizione irreversibile. Il confronto con altri familiari che vivono gli stessi problemi, aiuta a riconoscere come normali e naturali le proprie reazioni.

La cura è ciò che assicura il legame, cura è ciò che guarisce il male della separazione, come nell’Alzheimer, che colpisce così fortemente il legame e che separa e divide. In questa prospettiva, la famiglia è il luogo naturale della cura. Nella famiglia esiste il compito naturale di mantenere il legame, di svolgere questo compito di cura, come la capacità di tenere insieme le singole parti del sistema.

Bibliografia di riferimento

KITWOOD T., Riconsiderare la demenza, Erickson, 2015.

VIGORELLI P., Alzheimer. Come parlare e comunicare nella vita quotidiana nonostante la malattia, Franco Angeli, 2018.

Sitografia di riferimento

I 5 bisogni fondamentali della persona con demenza

About the Author: Alfredo Bellini

Psicologo clinico e della riabilitazione, ex caregiver, si occupa di sostegno alle famiglie di persone con demenza, di check-up cognitivo e supporto al lutto. Docente in corsi di formazione sull’Alzheimer e sull’elaborazione delle perdite, per professionisti e familiari. Sito web: www.alfredobellini.it FB: alfredobellinipsicologo IG: alfredobellini.psicologo

Leave A Comment