Rsa e pandemia sono state due parole spesso associate dai media e, lo sappiamo, quasi mai in modo positivo. A seguire l’intervista alla dottoressa Angela Di Giaimo, che insieme ai suoi colleghi è stata in prima linea durante la prima ondata. Il suo racconto arriva al cuore e spinge a riflettere.

La dottoressa Angela Di Giaimo un’infermiera da ormai quarant’anni, che ama il suo lavoro. La sua scelta professionale si è orientata nel corso degli anni su un indirizzo non tanto clinico, quanto piuttosto di tipo organizzativo-gestionale e formativo. Attualmente è infatti consulente organizzativa in un Servizio Infermieristico presso la Fondazione Santa Chiara di Lodi.

La dottoressa Di Giaimo si definisce onorata di lavorare in una struttura di questo genere, per quanto la gestione sia evidentemente complessa. Si tratta infatti di una Fondazione di circa 270 posti letto, con un’impronta storica e importante sul territorio di Lodi.

Non solo alla luce di queste competenze di settore – sia tecniche sia trasversali – abbiamo scelto di intervistare Angela Di Giaimo; ma anche perché, insieme ai colleghi della Fondazione, ha vissuto in prima linea la prima ondata di Covid-19: la più terribile per il territorio di Codogno e dintorni. 

Le sue parole, che abbiamo raccolto in parte in questo breve video, in parte nell’articolo che segue, ricostruiscono un vissuto doloroso, un’esperienza difficile da affrontare e – ancor più, forse – da elaborare.

La sua voce arriva dritta alla nostra attenzione e si fa carico anche dei pensieri e dei sentimenti dei suoi colleghi, non solo della Fondazione ma anche, oseremmo dire, di quasi tutte le RSA più in generale.



Informazioni frammentate e famiglie disorientate

Impossibile dimenticare quel febbraio 2020, soprattutto per chi si trovava vicino a Codogno. Alla Fondazione Santa Chiara, il personale è stato colto da sgomento al momento della notizia. Ma oltre l’incredulità, subito si sono affacciati anche i problemi pratici.

Primo tra tutti: non c’era un’adeguata fluidità di informazioni, che stentavano ad arrivare dagli organi istituzionali. «Era difficile capire come comportarsi, ma c’era l’emergenza e le scelte andavano fatte», racconta Di Giaimo, menzionando tra le scelte difficili anche quella sul permettere o meno l’ingresso ai parenti.

In tal senso le informazioni non solo erano frammentate, ma anche divergenti. «In un primo momento sembrava che tutti potessero entrare, poi solo una persona in determinati orari, poi non si doveva più far entrare nessuno». Chiaramente questo non poteva che disorientare le famiglie.

Il rapporto tra operatori e anziani

A un certo punto, come tutti ricordiamo, le RSA hanno però dovuto chiudere tutto. «Devo dire che le famiglie, nonostante il dolore, hanno capito questa cosa. È stato un po’ più difficile farlo capire ai nostri ospiti», prosegue la dottoressa.

Certo, tutto il personale ha cercato di accudirli e di garantire loro dei punti di riferimento, verbali e affettivi, in particolare con le persone affette da demenza

È evidente che la famiglia rimane insostituibile ma, come ricorda Di Giaimo, molti anziani restano in RSA per mesi o addirittura per anni: «è inevitabile che si sviluppi un rapporto di tipo affettivo in molti casi».

Il personale si è sentito in quel momento investito di una responsabilità in più. E va detto che in quel frangente molti operatori si sono sentiti in qualche modo come la famiglia dei loro anziani ospiti. Va da sé che questo significa agire anche un ruolo che va al di là di quello strettamente istituzionale. 

Un lutto profondo da elaborare

Così, quando le persone anziane venivano a mancare a causa del Virus, inevitabilmente, il personale ha vissuto dei lutti; non in quanto ASA/OSS, infermiere, coordinatore o medico. Ma appunto un lutto più profondo e doloroso (per approfondire il tema del lutto in tempo di Covid-19 segnaliamo gli articoli della dottoressa Elisa Mencacci)

«i nostri operatori hanno pianto tantissimo, anche per il familiare che in quel momento non c’era».

E fino a che la norma lo ha consentito, in Fondazione Santa Chiara, hanno fatto entrare i familiari nelle Sale mortuarie, «che non erano spesso più sufficienti a contenere le salme e i feretri», come ricorda la dottoressa.

«Se non potevamo più fargli vedere il viso, non importava, gli facevamo comunque vedere la bara, però appunto cercavamo di dare questo momento di commiato».

Come sappiamo, purtroppo, c’è stato un momento in cui non si è più potuto fare neanche quello. E questo è stato evidentemente fonte di un dolore enorme per tutti i familiari, che non hanno avuto gli elementi per poter elaborare il lutto.

È stato fatto il possibile, anche per permettere qualche saluto tra famiglie e ospiti alla fine della vita. «In alcuni casi assolutamente selezionati e condivisi anche dall’équipe, abbiamo mantenuto delle videochiamate e comunque un contatto, se non visivo – perché magari non c’erano le condizioni per poterlo fare – almeno attraverso i medici e i coordinatori». 

In questo senso, un punto di forza della Fondazione Santa Chiara è la presenza di alcuni protocolli non solo di Cure palliative – grazie anche all’importante contributo del Direttore Sanitario, il dottor Furiosi, che ha lavorato tanti anni come palliativista – ma anche di accompagnamento nel Fine vita. Quindi, fin dove è stato possibile, il personale ha sempre cercato di applicare questi protocolli (e non solo in periodo Covid).

L’aiuto di Medici Senza Frontiere

La sensazione di abbandono è stata alleviata da un aiuto concreto, che è arrivato da Medici senza frontiere. Persone competenti che si sono messe a disposizione della Fondazione, 7 giorni su 7, alle volte anche per 8/9 ore al giorno, dopo aver studiato attentamente la struttura. E tutto questo gratuitamente.

Essendo l’RSA molto grande, la scelta è stata quella di nominare dei Referenti Covid per ciascun reparto, con i quali i professionisti di Medici senza frontiere potevano mettersi in contatto direttamente. 

«C’erano da studiare percorsi puliti/percorsi sporchi, zone filtro, vestizione, svestizione, come utilizzare e soprattutto ottimizzare i DPI disponibili, come isolare le persone, come gestire e applicare le raccomandazioni, come applicare i protocolli, come smaltire i rifiuti, come gestire le stoviglie, la biancheria, e così via». 

Le cose a cui pensare erano tantissime e, con il loro aiuto, è stato fatto un percorso formativo che ha coinvolto tutto il personale – in primis i referenti covid – ma anche i medici per le terapie e le diagnosi: «ricordiamoci che non c’erano tamponi e sierologici in quel momento, né possibilità di ricovero, quindi avevamo bisogno di capire come trattare le persone con insufficienza respiratoria».

Il disturbo da stress post-traumatico

Medici Senza Frontiere hanno messo a disposizione anche uno psicologo, decisamente necessario per essere di supporto al personale che stava cominciando a sviluppare un disturbo da stress post-traumatico.

«Io personalmente ho raccolto le iscrizioni e le necessità del personale che voleva avere dei colloqui individuali; c’era chi voleva invece avere degli incontri con piccoli gruppi per condividere anche questo stress che stava gradualmente diventando un problema comune», racconta Di Giaimo. 

In tre giorni quasi trenta adesioni, a testimoniare quanto il disagio si stesse facendo largo nel cuore del personale.

E questo disagio è esploso secondo la dottoressa per due ordini di ragioni principali. In primis per i lutti e la morte incombente, ovvero per l’incertezza, il senso di abbandono, di solitudine e di isolamento, cioè di separazione tra il dentro e il fuori. In secondo luogo per la paura.

Le persone andavano a casa e avevano paura di contagiare figli, partner e genitori. E purtroppo, inevitabilmente, tanti operatori della Fondazione si sono ammalati. Al contempo, i “superstiti” facevano invece dei turni massacranti.

Sguardi sul futuro per le RSA

Alla domanda su come vede possibile “andare avanti” e progettare il futuro per le strutture, la dottoressa Di Giaimo ha risposto partendo da alcuni problemi assolutamente concreti.

Il primo, enorme, problema di cui ha parlato è noto a tutti: la carenza di personale (ne abbiamo parlato anche qui su CURA nell’articolo: Carenza di personale nelle RSA: le cause di un problema che non si vuole vedere). Evidentemente, quando non si hanno i numeri, non si può arrivare a un certo livello qualitativo.

L’organizzazione può tamponare alcune emergenze fino a un certo punto, ma esiste una soglia oltre la quale lo standard minimo non può più essere garantito. Per cui se c’è un elemento da affrontare con urgenza per muovere i passi nel futuro, è proprio quello di capire come reclutare personale.

Tra le professioni che mancano, spiega Di Giaimo, ci sono OSS, medici e soprattutto infermieri. «La carenza di infermieri è un problema enorme, che non sta venendo affrontato da nessun punto di vista: sindacale, professionale e politico».

«Dobbiamo pensare a qualcosa» – prosegue – «per esempio: vogliamo fare un percorso particolare per gli infermieri di RSA? Vogliamo riconoscere una professionalità dal punto di vista dell’immagine sociale, prima dell’infermiere, poi dell’infermiere geriatrico? Vogliamo dare dei benefit – che non siano per forza economici – agli infermieri che accedono alle RSA?».

Il punto è che tutto questo richiede pensiero e progettazione, nonché una visione chiara, che al momento sembrano mancare.

«Io sono sul mercato, anche gratuitamente, per entrare in tavoli tecnici. Il problema forse è che non c’è rete: abbiamo tutti gli stessi problemi e tutti li risolviamo nel nostro piccolo», spiega Di Giaimo e prosegue:

«Ma la cosa che più mi rammarica è che per i familiari siamo noi la controparte, è come se i familiari vedessero in noi quelli che non vogliono rispondere ai bisogni dei loro cari».

E così, forse, siamo arrivati al punto cruciale: che ne è di tutta la passione e della competenza che c’è nelle nostre RSA se non c’è un adeguato scambio comunicativo con il territorio?

Certo, sappiamo che le strutture devono riuscire in qualche modo a far tesoro di questa drammatica esperienza per “rilanciarsi”. Ma come ricorda giustamente la dottoressa, non lo possono fare da sole, ovvero singolarmente.

Se mai è necessario capire come ri-costruire questa rete, come interrompere una buona volta il silenzio istituzionale.

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Casa Editrice Indipendente per una cultura condivisa nel settore dell’assistenza agli anziani.

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