Indice degli argomenti

Non una concorrenza, ma forme di integrazione tra le due realtà. La necessità di una partnership tra pubblico e privato è la risposta che emerge dal tavolo di lavoro organizzato da Editrice Dapero rispetto al futuro dell’assistenza agli anziani. Perché i progetti sono fondamentali, ma non possono essere realizzati se non si trovano fondi a sufficienza

Chi dovrebbe sovvenzionare le RSA? Il sistema pubblico o un insieme di soggetti privati? O forse la soluzione migliore è proprio una partnership tra i due? Domande importanti, senza le quali non è possibile continuare a immaginare le residenze del futuro. Questioni a cui si è provato a trovare una risposta all’interno di un gruppo di studio organizzato da Editrice Dapero, moderato da Renato Dapero (direttore editoria di CURA), al quale hanno partecipato:

  • Roberto Franchini, responsabile dell’Area Strategia, Sviluppo e Formazione di Provincia religiosa Madre della Divina provvidenza, oltre che docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore;
  • Daniele Roccon, direttore di IPAB (Istituto pubblico di assistenza e beneficenza) Veneto;
  • Fabio Bonetta, Direttore  APS ITIS (Azienda pubblica di servizi alla persona) di Trieste in Friuli Venezia-Giulia;
  • Elisabetta Notarnicola, coordinatrice area Ricerca su Social Policy and Service Management e dell’Osservatorio Long Term Care per CERGAS Bocconi (Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria e Sociale).

La situazione di oggi

Prima di avviare qualsiasi ragionamento, è bene rendersi conto di quello che accade oggi e da quale situazione si parta. Come spiega un articolo pubblicato su Valori.it, da circa una quindicina di anni il settore dell’assistenza agli anziani è andato verso una progressiva privatizzazione, incoraggiata anche dai vari governi che si sono susseguiti, attraverso il meccanismo dell’accreditamento.

«L’offerta dei privati profit in particolare è in costante crescita – prosegue l’articolo – e ha colmato in parte l’uscita del privato non profit, i cui operatori sono generalmente di dimensioni modeste. Secondo una ricerca di Pio De Gregorio di Ubi Banca, in Italia il settore delle residenze sociosanitarie assistenziali (RSA) per anziani sta vivendo un vero boom trainato dalla domanda. Nel 2035 gli anziani non autosufficienti in Italia saranno circa 560mila e la domanda di posti letto nelle residenze sanitarie assistenziali crescerà tra le 206mila e le 341mila unità che richiederanno un investimento complessivo tra i 14,4 e i 23,8 miliardi».

Numeri che colpiscono e mostrano chiaramente come non si possa continuare a considerare il sociosanitario come «la figlia bistrattata del Sistema sanitario nazionale», per usare le stesse parole della professoressa Notarnicola.

HOMES

Il 23 ottobre del 2019 lo Spi, ovvero il Sindacato dei pensionati della Cgil, ha presentato una propria indagine alla Camera dei Deputati: l’Osservatorio nazionale sulle strutture residenziali per anziani. Da questa è emerso come, delle 4 mila strutture prese in esame, solo il 14% fosse pubblico. Il restante 86% era gestito da privati profit o non profit: enti religioni, onlus, fondazioni e cooperative. Non solo, ma in un Paese che invecchia, quello dell’assistenza agli anziani appare come un business in crescita e sul quale stanno già mettendo le mani anche grandi gruppi di investimento, che a prima vista non collegheremmo mai al sociosanitario. Si parla di Amazon, Apple o Google, tanto per citarne alcuni.

Si pongono quindi due questioni che dovranno essere affrontate nel breve termine: come sfruttare tutto questo interesse da parte di investitori privati a vantaggio proprio delle persone che le RSA dovrebbero accogliere e come evitare che l’intero mondo della cura all’anziano cada preda di «un privato che, se non entra in relazione con il pubblico, rischia di essere in balia di soggetti economici diversi, che non hanno una cultura e una tradizione del mondo dell’assistenza, e dunque per ora nemmeno le competenze necessarie», come si chiede di nuovo Elisabetta Notarnicola.

Dove arriva il Sistema sanitario nazionale

Al momento il pubblico copre i costi della quota di prestazioni sanitarie erogate nelle RSA, che rappresenta più o meno tra il 30% e il 50% del totale della retta. Il resto, ovvero la quota alberghiera, viene sovvenzionata solo parzialmente e nella maggior parte dei casi è a carico della famiglia. «Quando si parla di “Sanità”, si fa riferimento ai LEA (Livelli essenziali di assistenza) – fa notare il professor Roberto Franchini. – Significa cioè venire considerati come “sanitari” perché si erogano determinate prestazioni. Ma se la Sanità è solo quello, allora non basta. Si lascia fuori quel piccolo dettaglio che è tutto il tema della prevenzione, dell’abitare protetto e della cura che va oltre la terapia».

«Anche le Regioni vengono valutate sull’applicazione dei LEA rispetto all’assistenza domiciliare integrata e all’assistenza agli anziani – fa notare la professoressa Notarnicola. – E questi sono aspetti che rientrano nel Sistema Sanitario Nazionale. Ma sembra che quando è comodo, anche il sociosanitario venga considerato, mentre per quanto riguarda tutte le altre componenti che vanno oltre la Sanità, allora sembra che questo settore venga vissuto solo come un problema che assorbe finanze».

Tanto che a volte non viene coperta nemmeno l’intera quota sanitaria, come ricorda Daniele Roccon: «Nelle strutture che gestisco, in Veneto, sto subendo una sentenza della Cassazione che dichiara che le persone affette da demenza sono a carico del Servizio sanitario nazionale. La Regione dunque si sente libera di rimandare la questione allo Stato e lo Stato invece la relega in fondo alla lista delle cose di cui occuparsi. Nel 2008 abbiamo avuto il famigerato blocco dei contratti e quindi la Regione non ha dovuto adeguare il contributo regionale, cioè l’impegnativa di residenzialità.

Nel 2019, poi, è entrato in vigore un contratto già scaduto, perché faceva riferimento al biennio 2016-2018, che prevedeva anche l’aumento di un euro all’ora per lo stipendio degli infermieri. Ma di nuovo la regione ha ritenuto che non le competesse aumentare di un solo centesimo la spesa sanitaria. I costi in carico a chi gestisce le strutture sono però evidentemente cresciuti e allora come si fa? Si chiede alla famiglia di farsi carico anche di una parte della spesa sanitaria?».

Il punto fondamentale dunque è sempre lo stesso: le RSA vengono concepite come una sorta di “ospedali minori”, dove le persone non entrano con la speranza di guarire e quindi non hanno bisogno che si investa in progetti a loro dedicati. Nemmeno quando lo scopo è proprio quello di migliorare il loro benessere e dunque la salute in senso più ampio.

Il peso sulla famiglia

«Il sistema di accreditamento è fallito – interviene senza mezzi termini Roberto Franchini, in riferimento soprattutto alla situazione del Friuli Venezia-Giulia, dove gestisce alcune strutture. – L’AGENAS (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) prevede un numero eccessivo di requisiti per accedere a questo meccanismo. Ma se i fondi sono troppo esigui, non si possono prevedere milioni di regole. Meglio poche e con un senso. Invece in questo momento sembra che non si capisca in quale direzione si voglia andare, come un criceto che continua a correre sulla sua ruota ed è sempre fermo nello stesso punto.

I nostri infermieri, riabilitatori, medici e tutti gli altri membri del personale devono rimanere ore a compilare documenti, mostrando tutte le evidenze per le quali è stato attivato uno specifico trattamento, seguendo la logica fredda del “problema-soluzione”. In questo modo l’operatore finisce per sentirsi un pezzo dello Stato e smette di ascoltare con attenzione i bisogni delle famiglie, di dialogare con loro e con il territorio. Chi gestisce le strutture perde tempo in lunghe trattative economiche dove si ragiona sullo “zero virgola” e così via».

Ma quando viene meno lo Stato e il pubblico, sappiamo bene su chi ricadono i costi: le famiglie. «Nel nostro Paese abbiamo sempre avuto un welfare insufficiente, iniquo e soprattutto familista», conferma Daniele Roccon. «Ma le famiglie sanno che scarichiamo su di loro tutti gli oneri che non vengono adempiuti dal Sistema sanitario nazionale? In altre parole, sono a conoscenza del fatto che finiscono per sostenere costi in modo improprio perché si riferiscono a servizi che rientrano nei LEA?».

La sostenibilità delle strutture

«Quello che serve davvero – sostiene Marcello Bozzi, segretario di ANDPROSAN (Associazione Nazionale Dirigenti Professioni Sanitarie) in una lettera al direttore pubblicata su Quotidianosanità.it – è capire la vera complessità delle strutture residenziali e, di conseguenza, pensare a un nuovo progetto maggiormente in linea con le esigenze degli ospiti, sostenibile da un punto di vista organizzativo e assistenziale».

Il riferimento è anche alla distribuzione territoriale: «Il vecchio principio del “piccolo è bello” in questo caso non funziona, perché viene meno la capacità della sostenibilità. È certamente nobile e meritorio l’impegno di tante piccole comunità per il mantenimento della propria struttura all’interno delle mura, ma questo cozza con i costi elevatissimi di gestione. Un “consorzio” tra comunità vicine consentirebbe sicuramente un maggiore equilibrio tra costi e servizi offerti».

È proprio l’esempio che illustra Fabio Bonetta, rispetto a quanto stanno portando avanti all’APS ITIS di Trieste. Una struttura che accoglie più di 400 persone, «una “caserma” – la chiama lui, – in polemica costruttiva con i basagliani che mi accusavano di essere un’Istituzione vecchio stampo, mentre io rispondevo che non era più così, che i tempi erano cambiati. Oggi dobbiamo rimodulare quello che esiste già e riqualificarlo. A partire da questo assunto abbiamo intrapreso la strada dell’apertura al territorio, del mantenimento del rispetto della persona nella sua globalità, dell’acquisizione di professionalità e competenze specifiche, in grado di dare risposte ai singoli bisogni, perché non tutti sono anziani allo stesso modo».

Lontano dunque da un’idea di RSA statica, verso una struttura che differenzia i servizi e le tipologie di assistenza con le quali può rispondere alle necessità, ogni volta diverse, degli ospiti che accoglie.

«In Italia la domiciliarità pubblica, nella pratica, non esiste – prosegue. – Il futuro è quello di creare dei centri servizi dove il cittadino possa avere un riferimento certo e dove vi siano le competenze adatte per farsi carico della persona e della sua famiglia. Oggi come oggi, la maggior parte degli anziani ha poco potere di scelta e spesso è condizionata dal discorso economico. Io vedo milioni di possibilità che potremmo offrire loro, ma la politica non sembra volerlo capire e mostra un totale disinteresse».

Il budget di salute

«Il tema del budget di salute viene citato anche come chiave di volta per il futuro del sistema sociosanitario» afferma con convinzione il professor Franchini. Ma cos’è il budget di salute?

Prima di tutto bisogna partire dal presupposto che i sistemi di welfare dei Paesi occidentali stanno mutando. La direzione è proprio quella auspicabile anche per quanto riguarda l’assistenza agli anziani: servizi di cura e inclusione modellati sulla persona e sui suoi bisogni. «Tale cambiamento – spiega la rivista EyesReg, – è collegato alla crisi delle risorse pubbliche e all’esigenza di una modernizzazione nell’ottica di una maggiore efficacia ed efficienza dei servizi, nel contesto dell’evoluzione sociale, economica, culturale e politica delle società attuali».

A subire una modifica è stato in particolare il rapporto tra Stato, mercato e società civile. Il primo si è assunto il compito di definire il quadro politico e normativo e di coordinare i processi di fornitura dei servizi, mentre questi ultimi, nella pratica, sono erogati da mercato (ovvero dagli attori privati) e dalla società civile.

In questo contesto si è inserito il budget salute, che in diversi Paesi viene chiamato personal health budget. In poche parole, i fondi per sostenere i fabbisogni della persona vengono attribuiti proprio a lei, per via diretta o indiretta. In quest’ultimo caso, i soldi vengono dati a una parte terza che li spende per conto dell’utente allo scopo di andare incontro alle sue necessità. Figure nelle quali rientrano proprio i servizi sociosanitari.

Da nazione a nazione varia il modello con il quale viene incluso il budget salute. In Italia, ad esempio, viene definito dall’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità come uno strumento di definizione quantitativa e qualitativa delle risorse economiche, professionali e umane necessarie per innescare un processo volto a restituire centralità alla persona, attraverso un progetto individuale globale. È infatti rivolto a utenti per i quali il percorso riabilitativo si compone sia di aspetti sanitari, che di aspetti sociali.

Nel 2019 erano cinque le regioni che lo avevano già adottato: Friuli Venezia-Giulia, Lazio, Campania, Emilia-Romagna, Sicilia. «Esso – specifica l’articolo – si sostanzia in progetti assistenziali individualizzati e personalizzati, nella logica dell’integrazione sociosanitaria». I beneficiari individuati però erano soprattutto ex tossicodipendenti, ex detenuti e persone con disabilità fisica o intellettiva. Manca, di nuovo, la presa di coscienza che gli anziani rappresentano una parte di società per nulla marginale. Anzi, destinata ad aumentare nei prossimi anni.

«La novità importante del budget di salute è che non contiene solo la quota a carico del Servizio sanitario nazionale – sottolinea Roberto Franchini, – ma è una quota complessiva. Per questo motivo penso che potrebbe essere davvero lo strumento del futuro per la RSA, sia per snellire tutto l’apparato procedurale, sia per uscire dal sistema di accreditamento. Dovremmo piuttosto delineare meccanismi manageriali ed economici seri, che indichino chiaramente le responsabilità dei soggetti imprenditori nel rispondere a obiettivi che corrispondono ai bisogni delle famiglie. Naturalmente, è un processo molto complesso, perché significa cambiare i sistemi pubblici».

La partnership tra pubblico e privato

Non solo pubblico e non solo privato, dunque, ma un sistema in cui entrambe le realtà riescano ad integrarsi, per ottimizzare le risorse da elargire alla cura degli anziani. «Credo che ci debba essere separazione e al contempo integrazione di competenze tra il centro e la periferia – sostiene Daniele Roccon. – Non si può però lasciare alla discrezione del presidente della Regione di turno se procedere o no con gli investimenti e soprattutto quali scegliere. Allo stesso tempo privato e pubblico non devono essere messi su un piano di concorrenza sleale, ad esempio da un diverso regime di tassazione. Il punto fondamentale è decidere quale sia il miglior investimento da fare».

Per questo motivo Fabio Bonetta avanza l’idea di creare forme di partnership «in cui il pubblico sia chiamato a porre la garanzia di competenza e di equilibrio. Dovrebbe inoltre indirizzare le capacità economiche private e gestionali, perché le facilitazioni che oggi hanno gli attori privati rispetto a quelli pubblici sono eccessive». E aggiunge: «Penso che una partnership innovativa tra questi due mondi, in cui si mettano assieme le rispettive competenze, possa contribuire a cambiare le carte in tavola. Il privato ha una possibilità economica che noi oggi non abbiamo e ha anche tutta una serie di leve generali che aiutano a incrementare i suoi profitti. Mentre noi, come pubblico, di profitto non ne facciamo».

E qui rientra in gioco la famiglia, ma non come scaricabarile sul quale riversare tutto il peso di un welfare inadeguato. Diventa piuttosto il nodo di congiunzione tra i due mondi e soprattutto la prima beneficiaria di questa intesa: «Dobbiamo creare questo trait d’union tra famiglie e servizi alle persone e dobbiamo anche uscire dalla logica indennitaria che ancora utilizziamo.

Nel settore pubblico si tende più a erogare fondi, piuttosto che a costruire la qualità dei servizi, che invece è un aspetto decisivo. Per fare questo abbiamo bisogno di un rapporto chiaro con le famiglie, magari sfruttando anche sistemi nuovi come la telecomunicazione. Dobbiamo entrare in una relazione costruttiva con i parenti dell’anziano, superando le strumentalizzazioni che vengono fatte sia dal mondo politico, che da quello privato».

L’unione fa la forza. Non è solo un motto, ma la chiave per farsi ascoltare proprio da chi continua a girare la testa dall’altra parte. «Io opero anche nell’ambito dei disabili – conclude Roberto Franchini, – dove l’associazionismo famigliare ha una chiara consapevolezza dei diritti delle persone con disabilità ed è quindi in grado di fare pressioni. Perché quando sono le strutture a rivendicare certe attenzioni, le si attribuisce facilmente a un semplice bisogno di soldi. Ma se sono le famiglie a protestare, la musica cambia. Nel mondo della cura agli anziani, l’associazionismo famigliare quasi non esiste. Credo che dovremmo intensificare il dialogo anche per questa ragione: perché siano loro a farsi sentire. Tutte insieme».


SITOGRAFIA

  1. Per la Rsa servono standard uguali per tutti, pubblico e privato. Quotidianosanità.it. 2020
  2. Residenze anziani, il business parla sempre più privato (e il non profit soffre). Valori.it. 2020
  3. Il budget di salute come nuovo strumento di welfare. EyesReg. 2019
  4. Conoscere il mondo della disabilità. ISTAT. 2019
  5. Indispensabile una legge nazionale sulla non autosufficienza. Spi-Cgil. 2019

About the Author: Editrice Dapero

Casa Editrice Indipendente per una cultura condivisa nel settore dell’assistenza agli anziani.

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Non una concorrenza, ma forme di integrazione tra le due realtà. La necessità di una partnership tra pubblico e privato è la risposta che emerge dal tavolo di lavoro organizzato da Editrice Dapero rispetto al futuro dell’assistenza agli anziani. Perché i progetti sono fondamentali, ma non possono essere realizzati se non si trovano fondi a sufficienza

Chi dovrebbe sovvenzionare le RSA? Il sistema pubblico o un insieme di soggetti privati? O forse la soluzione migliore è proprio una partnership tra i due? Domande importanti, senza le quali non è possibile continuare a immaginare le residenze del futuro. Questioni a cui si è provato a trovare una risposta all’interno di un gruppo di studio organizzato da Editrice Dapero, moderato da Renato Dapero (direttore editoria di CURA), al quale hanno partecipato:

  • Roberto Franchini, responsabile dell’Area Strategia, Sviluppo e Formazione di Provincia religiosa Madre della Divina provvidenza, oltre che docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore;
  • Daniele Roccon, direttore di IPAB (Istituto pubblico di assistenza e beneficenza) Veneto;
  • Fabio Bonetta, Direttore  APS ITIS (Azienda pubblica di servizi alla persona) di Trieste in Friuli Venezia-Giulia;
  • Elisabetta Notarnicola, coordinatrice area Ricerca su Social Policy and Service Management e dell’Osservatorio Long Term Care per CERGAS Bocconi (Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria e Sociale).

La situazione di oggi

Prima di avviare qualsiasi ragionamento, è bene rendersi conto di quello che accade oggi e da quale situazione si parta. Come spiega un articolo pubblicato su Valori.it, da circa una quindicina di anni il settore dell’assistenza agli anziani è andato verso una progressiva privatizzazione, incoraggiata anche dai vari governi che si sono susseguiti, attraverso il meccanismo dell’accreditamento.

«L’offerta dei privati profit in particolare è in costante crescita – prosegue l’articolo – e ha colmato in parte l’uscita del privato non profit, i cui operatori sono generalmente di dimensioni modeste. Secondo una ricerca di Pio De Gregorio di Ubi Banca, in Italia il settore delle residenze sociosanitarie assistenziali (RSA) per anziani sta vivendo un vero boom trainato dalla domanda. Nel 2035 gli anziani non autosufficienti in Italia saranno circa 560mila e la domanda di posti letto nelle residenze sanitarie assistenziali crescerà tra le 206mila e le 341mila unità che richiederanno un investimento complessivo tra i 14,4 e i 23,8 miliardi».

Numeri che colpiscono e mostrano chiaramente come non si possa continuare a considerare il sociosanitario come «la figlia bistrattata del Sistema sanitario nazionale», per usare le stesse parole della professoressa Notarnicola.

Il 23 ottobre del 2019 lo Spi, ovvero il Sindacato dei pensionati della Cgil, ha presentato una propria indagine alla Camera dei Deputati: l’Osservatorio nazionale sulle strutture residenziali per anziani. Da questa è emerso come, delle 4 mila strutture prese in esame, solo il 14% fosse pubblico. Il restante 86% era gestito da privati profit o non profit: enti religioni, onlus, fondazioni e cooperative. Non solo, ma in un Paese che invecchia, quello dell’assistenza agli anziani appare come un business in crescita e sul quale stanno già mettendo le mani anche grandi gruppi di investimento, che a prima vista non collegheremmo mai al sociosanitario. Si parla di Amazon, Apple o Google, tanto per citarne alcuni.

Si pongono quindi due questioni che dovranno essere affrontate nel breve termine: come sfruttare tutto questo interesse da parte di investitori privati a vantaggio proprio delle persone che le RSA dovrebbero accogliere e come evitare che l’intero mondo della cura all’anziano cada preda di «un privato che, se non entra in relazione con il pubblico, rischia di essere in balia di soggetti economici diversi, che non hanno una cultura e una tradizione del mondo dell’assistenza, e dunque per ora nemmeno le competenze necessarie», come si chiede di nuovo Elisabetta Notarnicola.

Dove arriva il Sistema sanitario nazionale

Al momento il pubblico copre i costi della quota di prestazioni sanitarie erogate nelle RSA, che rappresenta più o meno tra il 30% e il 50% del totale della retta. Il resto, ovvero la quota alberghiera, viene sovvenzionata solo parzialmente e nella maggior parte dei casi è a carico della famiglia. «Quando si parla di “Sanità”, si fa riferimento ai LEA (Livelli essenziali di assistenza) – fa notare il professor Roberto Franchini. – Significa cioè venire considerati come “sanitari” perché si erogano determinate prestazioni. Ma se la Sanità è solo quello, allora non basta. Si lascia fuori quel piccolo dettaglio che è tutto il tema della prevenzione, dell’abitare protetto e della cura che va oltre la terapia».

«Anche le Regioni vengono valutate sull’applicazione dei LEA rispetto all’assistenza domiciliare integrata e all’assistenza agli anziani – fa notare la professoressa Notarnicola. – E questi sono aspetti che rientrano nel Sistema Sanitario Nazionale. Ma sembra che quando è comodo, anche il sociosanitario venga considerato, mentre per quanto riguarda tutte le altre componenti che vanno oltre la Sanità, allora sembra che questo settore venga vissuto solo come un problema che assorbe finanze».

Tanto che a volte non viene coperta nemmeno l’intera quota sanitaria, come ricorda Daniele Roccon: «Nelle strutture che gestisco, in Veneto, sto subendo una sentenza della Cassazione che dichiara che le persone affette da demenza sono a carico del Servizio sanitario nazionale. La Regione dunque si sente libera di rimandare la questione allo Stato e lo Stato invece la relega in fondo alla lista delle cose di cui occuparsi. Nel 2008 abbiamo avuto il famigerato blocco dei contratti e quindi la Regione non ha dovuto adeguare il contributo regionale, cioè l’impegnativa di residenzialità.

Nel 2019, poi, è entrato in vigore un contratto già scaduto, perché faceva riferimento al biennio 2016-2018, che prevedeva anche l’aumento di un euro all’ora per lo stipendio degli infermieri. Ma di nuovo la regione ha ritenuto che non le competesse aumentare di un solo centesimo la spesa sanitaria. I costi in carico a chi gestisce le strutture sono però evidentemente cresciuti e allora come si fa? Si chiede alla famiglia di farsi carico anche di una parte della spesa sanitaria?».

Il punto fondamentale dunque è sempre lo stesso: le RSA vengono concepite come una sorta di “ospedali minori”, dove le persone non entrano con la speranza di guarire e quindi non hanno bisogno che si investa in progetti a loro dedicati. Nemmeno quando lo scopo è proprio quello di migliorare il loro benessere e dunque la salute in senso più ampio.

Il peso sulla famiglia

«Il sistema di accreditamento è fallito – interviene senza mezzi termini Roberto Franchini, in riferimento soprattutto alla situazione del Friuli Venezia-Giulia, dove gestisce alcune strutture. – L’AGENAS (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) prevede un numero eccessivo di requisiti per accedere a questo meccanismo. Ma se i fondi sono troppo esigui, non si possono prevedere milioni di regole. Meglio poche e con un senso. Invece in questo momento sembra che non si capisca in quale direzione si voglia andare, come un criceto che continua a correre sulla sua ruota ed è sempre fermo nello stesso punto.

I nostri infermieri, riabilitatori, medici e tutti gli altri membri del personale devono rimanere ore a compilare documenti, mostrando tutte le evidenze per le quali è stato attivato uno specifico trattamento, seguendo la logica fredda del “problema-soluzione”. In questo modo l’operatore finisce per sentirsi un pezzo dello Stato e smette di ascoltare con attenzione i bisogni delle famiglie, di dialogare con loro e con il territorio. Chi gestisce le strutture perde tempo in lunghe trattative economiche dove si ragiona sullo “zero virgola” e così via».

Ma quando viene meno lo Stato e il pubblico, sappiamo bene su chi ricadono i costi: le famiglie. «Nel nostro Paese abbiamo sempre avuto un welfare insufficiente, iniquo e soprattutto familista», conferma Daniele Roccon. «Ma le famiglie sanno che scarichiamo su di loro tutti gli oneri che non vengono adempiuti dal Sistema sanitario nazionale? In altre parole, sono a conoscenza del fatto che finiscono per sostenere costi in modo improprio perché si riferiscono a servizi che rientrano nei LEA?».

La sostenibilità delle strutture

«Quello che serve davvero – sostiene Marcello Bozzi, segretario di ANDPROSAN (Associazione Nazionale Dirigenti Professioni Sanitarie) in una lettera al direttore pubblicata su Quotidianosanità.it – è capire la vera complessità delle strutture residenziali e, di conseguenza, pensare a un nuovo progetto maggiormente in linea con le esigenze degli ospiti, sostenibile da un punto di vista organizzativo e assistenziale».

Il riferimento è anche alla distribuzione territoriale: «Il vecchio principio del “piccolo è bello” in questo caso non funziona, perché viene meno la capacità della sostenibilità. È certamente nobile e meritorio l’impegno di tante piccole comunità per il mantenimento della propria struttura all’interno delle mura, ma questo cozza con i costi elevatissimi di gestione. Un “consorzio” tra comunità vicine consentirebbe sicuramente un maggiore equilibrio tra costi e servizi offerti».

È proprio l’esempio che illustra Fabio Bonetta, rispetto a quanto stanno portando avanti all’APS ITIS di Trieste. Una struttura che accoglie più di 400 persone, «una “caserma” – la chiama lui, – in polemica costruttiva con i basagliani che mi accusavano di essere un’Istituzione vecchio stampo, mentre io rispondevo che non era più così, che i tempi erano cambiati. Oggi dobbiamo rimodulare quello che esiste già e riqualificarlo. A partire da questo assunto abbiamo intrapreso la strada dell’apertura al territorio, del mantenimento del rispetto della persona nella sua globalità, dell’acquisizione di professionalità e competenze specifiche, in grado di dare risposte ai singoli bisogni, perché non tutti sono anziani allo stesso modo».

Lontano dunque da un’idea di RSA statica, verso una struttura che differenzia i servizi e le tipologie di assistenza con le quali può rispondere alle necessità, ogni volta diverse, degli ospiti che accoglie.

«In Italia la domiciliarità pubblica, nella pratica, non esiste – prosegue. – Il futuro è quello di creare dei centri servizi dove il cittadino possa avere un riferimento certo e dove vi siano le competenze adatte per farsi carico della persona e della sua famiglia. Oggi come oggi, la maggior parte degli anziani ha poco potere di scelta e spesso è condizionata dal discorso economico. Io vedo milioni di possibilità che potremmo offrire loro, ma la politica non sembra volerlo capire e mostra un totale disinteresse».

Il budget di salute

«Il tema del budget di salute viene citato anche come chiave di volta per il futuro del sistema sociosanitario» afferma con convinzione il professor Franchini. Ma cos’è il budget di salute?

Prima di tutto bisogna partire dal presupposto che i sistemi di welfare dei Paesi occidentali stanno mutando. La direzione è proprio quella auspicabile anche per quanto riguarda l’assistenza agli anziani: servizi di cura e inclusione modellati sulla persona e sui suoi bisogni. «Tale cambiamento – spiega la rivista EyesReg, – è collegato alla crisi delle risorse pubbliche e all’esigenza di una modernizzazione nell’ottica di una maggiore efficacia ed efficienza dei servizi, nel contesto dell’evoluzione sociale, economica, culturale e politica delle società attuali».

A subire una modifica è stato in particolare il rapporto tra Stato, mercato e società civile. Il primo si è assunto il compito di definire il quadro politico e normativo e di coordinare i processi di fornitura dei servizi, mentre questi ultimi, nella pratica, sono erogati da mercato (ovvero dagli attori privati) e dalla società civile.

In questo contesto si è inserito il budget salute, che in diversi Paesi viene chiamato personal health budget. In poche parole, i fondi per sostenere i fabbisogni della persona vengono attribuiti proprio a lei, per via diretta o indiretta. In quest’ultimo caso, i soldi vengono dati a una parte terza che li spende per conto dell’utente allo scopo di andare incontro alle sue necessità. Figure nelle quali rientrano proprio i servizi sociosanitari.

Da nazione a nazione varia il modello con il quale viene incluso il budget salute. In Italia, ad esempio, viene definito dall’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità come uno strumento di definizione quantitativa e qualitativa delle risorse economiche, professionali e umane necessarie per innescare un processo volto a restituire centralità alla persona, attraverso un progetto individuale globale. È infatti rivolto a utenti per i quali il percorso riabilitativo si compone sia di aspetti sanitari, che di aspetti sociali.

Nel 2019 erano cinque le regioni che lo avevano già adottato: Friuli Venezia-Giulia, Lazio, Campania, Emilia-Romagna, Sicilia. «Esso – specifica l’articolo – si sostanzia in progetti assistenziali individualizzati e personalizzati, nella logica dell’integrazione sociosanitaria». I beneficiari individuati però erano soprattutto ex tossicodipendenti, ex detenuti e persone con disabilità fisica o intellettiva. Manca, di nuovo, la presa di coscienza che gli anziani rappresentano una parte di società per nulla marginale. Anzi, destinata ad aumentare nei prossimi anni.

«La novità importante del budget di salute è che non contiene solo la quota a carico del Servizio sanitario nazionale – sottolinea Roberto Franchini, – ma è una quota complessiva. Per questo motivo penso che potrebbe essere davvero lo strumento del futuro per la RSA, sia per snellire tutto l’apparato procedurale, sia per uscire dal sistema di accreditamento. Dovremmo piuttosto delineare meccanismi manageriali ed economici seri, che indichino chiaramente le responsabilità dei soggetti imprenditori nel rispondere a obiettivi che corrispondono ai bisogni delle famiglie. Naturalmente, è un processo molto complesso, perché significa cambiare i sistemi pubblici».

La partnership tra pubblico e privato

Non solo pubblico e non solo privato, dunque, ma un sistema in cui entrambe le realtà riescano ad integrarsi, per ottimizzare le risorse da elargire alla cura degli anziani. «Credo che ci debba essere separazione e al contempo integrazione di competenze tra il centro e la periferia – sostiene Daniele Roccon. – Non si può però lasciare alla discrezione del presidente della Regione di turno se procedere o no con gli investimenti e soprattutto quali scegliere. Allo stesso tempo privato e pubblico non devono essere messi su un piano di concorrenza sleale, ad esempio da un diverso regime di tassazione. Il punto fondamentale è decidere quale sia il miglior investimento da fare».

Per questo motivo Fabio Bonetta avanza l’idea di creare forme di partnership «in cui il pubblico sia chiamato a porre la garanzia di competenza e di equilibrio. Dovrebbe inoltre indirizzare le capacità economiche private e gestionali, perché le facilitazioni che oggi hanno gli attori privati rispetto a quelli pubblici sono eccessive». E aggiunge: «Penso che una partnership innovativa tra questi due mondi, in cui si mettano assieme le rispettive competenze, possa contribuire a cambiare le carte in tavola. Il privato ha una possibilità economica che noi oggi non abbiamo e ha anche tutta una serie di leve generali che aiutano a incrementare i suoi profitti. Mentre noi, come pubblico, di profitto non ne facciamo».

E qui rientra in gioco la famiglia, ma non come scaricabarile sul quale riversare tutto il peso di un welfare inadeguato. Diventa piuttosto il nodo di congiunzione tra i due mondi e soprattutto la prima beneficiaria di questa intesa: «Dobbiamo creare questo trait d’union tra famiglie e servizi alle persone e dobbiamo anche uscire dalla logica indennitaria che ancora utilizziamo.

Nel settore pubblico si tende più a erogare fondi, piuttosto che a costruire la qualità dei servizi, che invece è un aspetto decisivo. Per fare questo abbiamo bisogno di un rapporto chiaro con le famiglie, magari sfruttando anche sistemi nuovi come la telecomunicazione. Dobbiamo entrare in una relazione costruttiva con i parenti dell’anziano, superando le strumentalizzazioni che vengono fatte sia dal mondo politico, che da quello privato».

L’unione fa la forza. Non è solo un motto, ma la chiave per farsi ascoltare proprio da chi continua a girare la testa dall’altra parte. «Io opero anche nell’ambito dei disabili – conclude Roberto Franchini, – dove l’associazionismo famigliare ha una chiara consapevolezza dei diritti delle persone con disabilità ed è quindi in grado di fare pressioni. Perché quando sono le strutture a rivendicare certe attenzioni, le si attribuisce facilmente a un semplice bisogno di soldi. Ma se sono le famiglie a protestare, la musica cambia. Nel mondo della cura agli anziani, l’associazionismo famigliare quasi non esiste. Credo che dovremmo intensificare il dialogo anche per questa ragione: perché siano loro a farsi sentire. Tutte insieme».


SITOGRAFIA

  1. Per la Rsa servono standard uguali per tutti, pubblico e privato. Quotidianosanità.it. 2020
  2. Residenze anziani, il business parla sempre più privato (e il non profit soffre). Valori.it. 2020
  3. Il budget di salute come nuovo strumento di welfare. EyesReg. 2019
  4. Conoscere il mondo della disabilità. ISTAT. 2019
  5. Indispensabile una legge nazionale sulla non autosufficienza. Spi-Cgil. 2019

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