Umanizzare le cure, proteggere gli anziani e valorizzare il lavoro degli OSS: ecco alcuni degli obiettivi di fondo di Lunafasia, il romanzo di Luca Lodi vincitore dell’VIII edizione del “Premio letterario Angelo Zanibelli – La parola che cura” organizzato da Sanofi Italia. Si è aggiudicato il primo posto della categoria “Prevenzione e cronicità”

Intervista al Monsignor Andrea Manto (medico specializzato in geriatria, docente presso la Pontificia Università Lateranense e presidente della Fondazione Ut VitamHabeant) a cura di Adriana Tidona (Ufficio Stampa, Editrice Dapero)


Monsignor Manto, durante la diretta della premiazione del premio Zanibelli ha definito il romanzo fantastico ambientato in RSA, “Lunafasia”,un “manifesto sull’umanizzazione delle cure nelle case di riposo”.
Cosa le ha fatto capire questo romanzo sul bisogno di umanizzare le cure in questi ambienti? Quali aspetti secondo lei non possono essere trascurati in una RSA al di là di quelli sanitari?

«Ho definito così Lunafasia per il suo valore rivelativo; è infatti è un libro che con lo strumento della narrazione fantastica e della magia fa emergere tutta una serie di atteggiamenti, situazioni e dinamiche che si sperimentano quotidianamente in RSA e di cui prendiamo consapevolezza mentre leggiamo.

Il discorso sull’umanizzare le cure è centrale per chi vive in contesti residenziali ma anche per chi vive ancora presso il proprio domicilio e fa i conti con la malattia, la cronicità e anche con la domanda di senso: perché tutto questo? Perché a me? Ecco che nella domanda di senso che riguarda quel tratto di vita – lungo o a volte breve –  l’empatia, l’approccio narrativo, dialogico e anche esistenziale con l’operatore diventa fondamentale per il discorso di cura.

Nei contesti di cura a causa del contingentamento dei tempi e di tutti i problemi che si affrontano, si vive un effetto afasico: non si parla della dimensione soggettiva della malattia e questa diventa un tabù nella relazione con l’operatore e anche per la persona fragile stessa che non riesce a esprimersi.

Nel romanzo è molto bello l’espediente narrativo: a un certo punto Clotilde prende voce e rompe il tabù del silenzio. Credo che questo sia un materiale importante per provocare una discussione che non si può più tacere su come rendere le RSA luoghi di ospitalità e di accoglienza e non più come luoghi di ghettizzazione o di scarto».

A più di un anno dallo scoppio della pandemia, che ha visto le RSA essere i luoghi più colpiti, secondo lei abbiamo imparato qualcosa sull’importanza di proteggere i nostri anziani e di non vedere le case di riposo come ambienti di cura di serie B?

Più volte papa Francesco ha denunciato la “cultura dello scarto” che riguarda certamente l’anziano ma più in generale tutte le persone con disabilità o tutti coloro che non reggono un’idea patinata del corpo.

Le RSA sono riserve di umanità non riserve da chiudere. Leggendo il decalogo che c’è alla fine del romanzo possiamo prendere spunto su come migliorare la qualità delle cure e su come investire sulle abilità ancora presenti nelle persone. La geriatria ci insegna che tutto quello che non viene valorizzato viene rapidamente perduto, per cui gli stimoli relazionali, quelli che derivano dall’interazione verbale, quelli che fanno sentire la persona accolta sono tutti un investimento sulla qualità del lavoro dell’operatore e sulla qualità delle cure.

Rappresentano anche la possibilità di una concatenazione felice fra i grandi anziani e le generazioni più giovani che può sperimentarsi in ambienti come le RSA. Noi viviamo una carenza di solidarietà intergenerazionale, un po’ perché tra i nativi digitali e le persone che hanno vissuto in epoca di guerra sembra ci sia un abisso insormontabile, ma anche perché nessuno raccoglie la narrazione profonda dell’esperienza delle persone che sono uscite dalla guerra con risorse minimali o che hanno lottato con grande dignità contro la malattia. Io penso che tutto questo non debba essere perduto perché ha un significato pedagogico e spirituale di enorme portata.

Noi oggi dobbiamo occuparci di tutti i bisogni della persona, anche delle più piccole risorse residuali aiutandola a esprimersi. Questo è un percorso che è in capo a tutti, alla struttura organizzativa, al personale sanitario ma anche a figure professionali come quella dell’OSS, che passa moltissimo tempo insieme all’anziano. Noi dovremmo prenderci cura di questa professione, dal percorso formativo a quello motivazionale, incentivandone il riconoscimento del ruolo e facendo in modo che questa figura faccia rete con il resto dell’équipe di cura.

Un altro aspetto che il romanzo mette in luce, come lei stesso notava, è quello della motivazione degli OSS, gli operatori sociosanitari, che emerge dalle cure che il protagonista Camillo riserva a Clotilde, l’anziana afasica magicamente ringiovanita per una notte. Perché secondo lei gli operatori che svolgono il proprio lavoro con umanità, come Camillo, sono considerati “esseri speciali”? Perché è così difficile tenere insieme le competenze sanitarie e quelle umane?

Camillo è speciale perché è l’unico in grado di mostrare empatia. Mi piace pensare che Camillo non sia un nome scelto casualmente, ma che si ispiri a San Camillo de Lellis che è il patrono degli infermieri. È stato un precorritore dell’umanizzazione della sanità.

San Camillo finì per frequentare gli ospedali come paziente e lì, trovando un mondo spesso disumano, decise di mettersi al servizio dei più fragili e degli ammalati. Famosa è la sua espressione “più cuore in quelle mani”.

Il cuore parla al cuore: l’empatia è un modo dello sguardo che io ho per l’altra persona. Se io vedo l’altro come un relitto in forma meno che umana, allora chiaramente il mio cuore non potrà entrare in empatia con il suo. Se invece noi riusciamo a formare il cuore, il centro emotivo e affettivo della persona, allora poniamo le condizioni per imparare a tradurre i gesti e per educare la nostra coscienza a una maggiore sensibilità.

Se tutto questo accade nei contesti di cura allora preveniamo il burnout e svolgiamo il nostro lavoro con più efficacia. Il risultato di questo non giova solo alle persone di cui ci prendiamo cura ma ha un valore sociale enorme che dovremmo custodire.

Sul perché è difficile tenere insieme le competenze tecniche e relazionali posso dire intanto che i saperi sono sempre più andati parcellizzandosi e non dialogano più molto fra loro. Spesso si punta a fornire risposte al come – al come lavare la persona, al come curare la piaga da decubito, per esempio – ma il come non dice nulla sul perché, sulla domanda sottostante che è più ampia e più profonda.

Ci sono molti saperi che rispondono adeguatamente al come, (la medicina, l’ingegneria, la stessa giurisprudenza) ma il perché è lasciato ad ambiti come la filosofia, la teologia e a tutte le discipline che si occupano della domanda di senso. Noi vediamo una forte scissione dei saperi e a causa di questi si determina una compartimentazione della persona, una vera e propria scissione dell’umanità. È  per questo che non sappiamo mettere insieme il nostro fare tecnico con il nostro perché.

È una questione antropologica, quella che vede la conflagrazione dell’umano come un essere ridotto a consumatore, a cliente, a utente smettendo di significare come una persona, cioè in modo complesso. Jacques Maritain diceva: “bisogna costruire un ponte fra scienza e saggezza”. La saggezza della vita (il nostro perché, ndr) è a capo ad altre dimensioni e solo se si costruisce un ponte con la conoscenza allora è possibile guardare diversamente tutto il nostro fare e progettare anche l’assistenza e i servizi alle persone anziane in modo alternativo.

L’aspetto della motivazione è probabilmente connesso a quello del riconoscimento sociale della professione dell’OSS. Abbiamo spesso sentito chiamare “eroi” i medici e gli infermieri degli ospedali che si sono occupati dei pazienti Covid-19, senza particolari lodi ad altre figure della cura. Crede che questo sia il sintomo di una visione della cura un po’ ristretta e che non tiene conto della sua complessità?

La risposta nel video che segue:

Consiglierebbe di leggere “Lunafasia”? A chi in particolare?

Lunafasia è un bel romanzo e come tutti i romanzi scritti bene lo consiglierei a tutti. È un fantasy che fa riflettere su un aspetto inusuale, non ci dice infatti come saremo nel 2150 ma ci parla di una fase della nostra vita, l’anzianità, e di come viene attualmente e realmente vissuta. Poi lo consiglierei agli OSS, ma anche a chi programma l’assistenza sanitaria, a chi è chiamato a compiere scelte in ordine all’assistenza geriatrica e anche a chi eroga formazione. È un libro per tutti i professionisti della cura, che credo siano una grande platea. Auguro ogni successo a questa opera di Luca Lodi.


Lunafasia è stato presentato il 22 maggio a Besnate (VA), paese di Residenza dell’autore Luca Lodi. Alla giornata di presentazione hanno preso parte il Sindaco del paese e l’Assessore alla Cultura. Di seguito alcune foto della giornata

Segnaliamo la prossima occasione di presentazione del libro, online, il primo giugno, alle 17.30. Di seguito la locandina dell’evento:

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