La lettera alla squadra dei colleghi dell’équipe di cura, scritta dall’Assistente Sociale Gioia Martignago (ISRAA, Treviso): una testimonianza di come si è arrivati a una nuova normalità, se così si può dire.

Penso a questi mesi e alle cose che ci siamo dette ieri, e arrivano tanti pensieri. Vorrei raccontarvi come è cambiato il mio lavoro, con il Covid.

Perché senza che me ne accorgessi è cambiato tutto, un pezzettino al giorno, e solo guardandolo adesso, dopo un po’, mi rendo conto che è diventata la nuova normalità, è già un automatismo.

Non stringo più la mano. Non stringo più la mano da quasi sei mesi, a nessuno: a chi chiede informazioni, a chi viene a fare la domanda, ai familiari.

Non stringo più mani. Non mi presento più così. Per me è una cosa rivoluzionaria perché è sempre stato il primo contatto, la primissima presentazione con le centinaia di persone che ho incontrato in questi anni.

Seguo dei tempi tutti nuovi, tempi dei tamponi, degli esiti, della quarantena. Ne parlo ai familiari dei nuovi ingressi con naturalezza, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. E loro lo accettano. Dicono “certo, certo”. Dico loro che quando ci portano la mamma per 15 giorni non la vedranno. E loro capiscono, un po’ si preoccupano. Ma ti dicono “Certo, certo”. È tutto normale.

Le prime volte mi vergognavo un po’ a dirlo, lo facevo con imbarazzo. Ci ho messo tempo a capire che la mia reazione era normale: ma come, per 5 anni ho invitato i familiari a vedere la sede, a venire a trovarli in camera, ad essere presenti specie i primi giorni. E adesso dico invece loro l’esatto opposto. State lontani. Non venite. Fidatevi che facciamo noi.

Prima dicevo loro che appena entrati avrebbero conosciuto ognuno di voi dell’équipe di cura. Adesso racconto i vostri visi e le vostre professionalità attraverso una cornetta. Vedrete che ci conosceremo prima o poi, ci berremo un caffè assieme. Loro rispondono “Certo, certo”. Si fidano. Non obiettano. Mi chiedo quanta fiducia abbia potuto costruire in un colloquio fatto un anno fa quando hanno presentato la domanda. Se sia sufficiente a sostenere tutti i dubbi che avranno nel prossimo periodo.

Certo che no, non basta. Persino alla scenetta di visita alla stanza ho dovuto rinunciare, uno dei momenti che preferisco. Dove illustro i pregi e i pochissimi difetti della camera, dove garantisco che mamma o papà staranno bene con noi. E lo dico perché ci credo, non per vendere. Se fosse solo per quello sarebbe tutto molto diverso. Adesso la camera la vedono in videochiamata su whatsapp. 5 minuti puliti puliti, ci metto 1/5 del tempo. Ma mi diverto molto meno. Se sono diminuiti i contatti di persona però sono aumentate le telefonate. Continue. Per qualunque cosa. Con toni e ansie più o meno diversi.

E allora ditemi, cosa c’è di normale in tutto questo? Cosa rimanere, per me, del mio lavoro? Mi sono risposta che ne rimane l’essenza, il senso. Ma non la normalità. Quella scusatemi, ma non c’è.

E allora che liberazione quando settimana scorsa Laura ha detto che “far convivere covid e normalità è una cazzata”. Personalmente mi sono alleggerita della zavorra degli ultimi sei mesi. Perché non c’è proprio nulla dì normale. Diciamocelo, non abbiamo paura di dircelo. Perché può solo farci stare meglio ammetterlo. Siamo tutti preoccupati, spaventati, intimoriti, insicuri. Lo siamo nel lavoro e nella vita. È stolto pensare che non sia così, ancora più stolto non riconoscerlo. Io sono 6 mesi che sono preoccupata per i miei genitori, per la mia famiglia, per mia nipote, per i miei amici, per i vecchi (tantissimo), per voi. Lo sono io come lo siete voi.

Ognuno ha la sua storia, che non conosciamo, ma c’è e la rispettiamo. Non è normale essere preoccupati per così tanto tempo, essere in apprensione per tanto tempo. Ma è normale esserlo in questo momento, perché questa è la normalità. La normalità dell’ora, dell’adesso. Non lo sarà per sempre, ma per ora sì. Ieri l’abbiamo detto, siamo rimasti tutti annichiliti vedendo l’esercito portare via le bare di Bergamo.

E allora quale è il senso di questo momento? Cosa facciamo? Ieri non mi ricordo chi ha detto che non sappiamo dove andare, per questo facciamo fatica e che è difficile perché è impossibile progettare. Non son d’accordo: credo che dove andare e che progetti fare siano molto chiari. O almeno questa è la riflessione e la motivazione che ha mosso me da marzo ad oggi: i vecchi. Ma i vecchi nel senso più profondo.

Riprogettare e rendere straordinario quello che è la mission dell’ISRAA che è talmente radicata (per fortuna) che non ce la siamo neanche detti. Per citare la sig.ra Adriana una cosa dobbiamo fare: custodirli. Tenerli al riparo, proteggerli. Concentrare tutte le nostre energie su di loro, ognuno con la propria competenza. Questo dobbiamo fare. Tutto quello che arriva in più è grasso che cola, ma è un “in più”. Arriva solo se abbiamo un eccesso di energie, non può essere la norma.

E allora così anche 350 tamponi una volta al mese hanno un senso, hanno un senso le visite con il plexiglas, le limitazioni. Certo, tutto questo è banale. Ma ce lo siamo mai detto, ci siamo mai detti che tutte le nostre azioni quotidiane sono volte a questo? A custodirli? Credo di no.

Abbiamo cercato di inserire a forza il vecchio e il nuovo, di farlo coesistere. Ma adesso non possono farlo, non è ancora possibile che la vecchia vita e la nuova vita sopravvivano assieme: se c’è una, difficilmente può esserci l’altra. E attenzione: credo fermamente che tutto quello che abbiamo fatto finora fosse volto esclusivamente a custodire gli anziani. Ma forse, come ci è capitato spesso, ci siamo dimenticati di dirlo a voci alte. E, soprattutto, di riconoscerlo.

E di riconoscercelo a vicenda.

Sempre grata di lavorare con ognuno di voi.

In questo 2020, ancora di più.

Gioia


La redazione ringrazia Gioia Martignago per aver scelto di condividere pubblicamente questa lettera: una voce schietta ma positiva che ci regala una storia di resilienza possibile. Ogni storia in questo momento è preziosa: scrivi la tua a info@rivistacura.it o scoprine altre nella sezione libri e altre storie di CURA.

About the Author: Editrice Dapero

Casa Editrice Indipendente per una cultura condivisa nel settore dell’assistenza agli anziani.

La lettera alla squadra dei colleghi dell’équipe di cura, scritta dall’Assistente Sociale Gioia Martignago (ISRAA, Treviso): una testimonianza di come si è arrivati a una nuova normalità, se così si può dire.

Penso a questi mesi e alle cose che ci siamo dette ieri, e arrivano tanti pensieri. Vorrei raccontarvi come è cambiato il mio lavoro, con il Covid.

Perché senza che me ne accorgessi è cambiato tutto, un pezzettino al giorno, e solo guardandolo adesso, dopo un po’, mi rendo conto che è diventata la nuova normalità, è già un automatismo.

Non stringo più la mano. Non stringo più la mano da quasi sei mesi, a nessuno: a chi chiede informazioni, a chi viene a fare la domanda, ai familiari.

Non stringo più mani. Non mi presento più così. Per me è una cosa rivoluzionaria perché è sempre stato il primo contatto, la primissima presentazione con le centinaia di persone che ho incontrato in questi anni.

Seguo dei tempi tutti nuovi, tempi dei tamponi, degli esiti, della quarantena. Ne parlo ai familiari dei nuovi ingressi con naturalezza, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. E loro lo accettano. Dicono “certo, certo”. Dico loro che quando ci portano la mamma per 15 giorni non la vedranno. E loro capiscono, un po’ si preoccupano. Ma ti dicono “Certo, certo”. È tutto normale.

Le prime volte mi vergognavo un po’ a dirlo, lo facevo con imbarazzo. Ci ho messo tempo a capire che la mia reazione era normale: ma come, per 5 anni ho invitato i familiari a vedere la sede, a venire a trovarli in camera, ad essere presenti specie i primi giorni. E adesso dico invece loro l’esatto opposto. State lontani. Non venite. Fidatevi che facciamo noi.

Prima dicevo loro che appena entrati avrebbero conosciuto ognuno di voi dell’équipe di cura. Adesso racconto i vostri visi e le vostre professionalità attraverso una cornetta. Vedrete che ci conosceremo prima o poi, ci berremo un caffè assieme. Loro rispondono “Certo, certo”. Si fidano. Non obiettano. Mi chiedo quanta fiducia abbia potuto costruire in un colloquio fatto un anno fa quando hanno presentato la domanda. Se sia sufficiente a sostenere tutti i dubbi che avranno nel prossimo periodo.

Certo che no, non basta. Persino alla scenetta di visita alla stanza ho dovuto rinunciare, uno dei momenti che preferisco. Dove illustro i pregi e i pochissimi difetti della camera, dove garantisco che mamma o papà staranno bene con noi. E lo dico perché ci credo, non per vendere. Se fosse solo per quello sarebbe tutto molto diverso. Adesso la camera la vedono in videochiamata su whatsapp. 5 minuti puliti puliti, ci metto 1/5 del tempo. Ma mi diverto molto meno. Se sono diminuiti i contatti di persona però sono aumentate le telefonate. Continue. Per qualunque cosa. Con toni e ansie più o meno diversi.

E allora ditemi, cosa c’è di normale in tutto questo? Cosa rimanere, per me, del mio lavoro? Mi sono risposta che ne rimane l’essenza, il senso. Ma non la normalità. Quella scusatemi, ma non c’è.

E allora che liberazione quando settimana scorsa Laura ha detto che “far convivere covid e normalità è una cazzata”. Personalmente mi sono alleggerita della zavorra degli ultimi sei mesi. Perché non c’è proprio nulla dì normale. Diciamocelo, non abbiamo paura di dircelo. Perché può solo farci stare meglio ammetterlo. Siamo tutti preoccupati, spaventati, intimoriti, insicuri. Lo siamo nel lavoro e nella vita. È stolto pensare che non sia così, ancora più stolto non riconoscerlo. Io sono 6 mesi che sono preoccupata per i miei genitori, per la mia famiglia, per mia nipote, per i miei amici, per i vecchi (tantissimo), per voi. Lo sono io come lo siete voi.

Ognuno ha la sua storia, che non conosciamo, ma c’è e la rispettiamo. Non è normale essere preoccupati per così tanto tempo, essere in apprensione per tanto tempo. Ma è normale esserlo in questo momento, perché questa è la normalità. La normalità dell’ora, dell’adesso. Non lo sarà per sempre, ma per ora sì. Ieri l’abbiamo detto, siamo rimasti tutti annichiliti vedendo l’esercito portare via le bare di Bergamo.

E allora quale è il senso di questo momento? Cosa facciamo? Ieri non mi ricordo chi ha detto che non sappiamo dove andare, per questo facciamo fatica e che è difficile perché è impossibile progettare. Non son d’accordo: credo che dove andare e che progetti fare siano molto chiari. O almeno questa è la riflessione e la motivazione che ha mosso me da marzo ad oggi: i vecchi. Ma i vecchi nel senso più profondo.

Riprogettare e rendere straordinario quello che è la mission dell’ISRAA che è talmente radicata (per fortuna) che non ce la siamo neanche detti. Per citare la sig.ra Adriana una cosa dobbiamo fare: custodirli. Tenerli al riparo, proteggerli. Concentrare tutte le nostre energie su di loro, ognuno con la propria competenza. Questo dobbiamo fare. Tutto quello che arriva in più è grasso che cola, ma è un “in più”. Arriva solo se abbiamo un eccesso di energie, non può essere la norma.

E allora così anche 350 tamponi una volta al mese hanno un senso, hanno un senso le visite con il plexiglas, le limitazioni. Certo, tutto questo è banale. Ma ce lo siamo mai detto, ci siamo mai detti che tutte le nostre azioni quotidiane sono volte a questo? A custodirli? Credo di no.

Abbiamo cercato di inserire a forza il vecchio e il nuovo, di farlo coesistere. Ma adesso non possono farlo, non è ancora possibile che la vecchia vita e la nuova vita sopravvivano assieme: se c’è una, difficilmente può esserci l’altra. E attenzione: credo fermamente che tutto quello che abbiamo fatto finora fosse volto esclusivamente a custodire gli anziani. Ma forse, come ci è capitato spesso, ci siamo dimenticati di dirlo a voci alte. E, soprattutto, di riconoscerlo.

E di riconoscercelo a vicenda.

Sempre grata di lavorare con ognuno di voi.

In questo 2020, ancora di più.

Gioia


La redazione ringrazia Gioia Martignago per aver scelto di condividere pubblicamente questa lettera: una voce schietta ma positiva che ci regala una storia di resilienza possibile. Ogni storia in questo momento è preziosa: scrivi la tua a info@rivistacura.it o scoprine altre nella sezione libri e altre storie di CURA.

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