Il metodo Hobart è tutt’altro che un metodo: si basa sul movimento danzato come strumento di conoscenza di sé e dell’altro e come mezzo di comunicazione. Claudio Gasparotto* e Manuela Graziani** ci hanno spiegato perché è così importante conoscerlo e in che modo questo approccio è utile ai contesti di cura.

 Claudio, di che cosa si occupa il “Movimento Centrale”? In che modo è legato al metodo Hobart e alle sue attività?


 
Il Movimento Centrale si occupa di danza e nasce proprio per sostenere una cultura di danza come arte aperta a tutti, facendo leva sul potere educativo e vitale che questa ha.
 
Offriamo un insegnamento che pone al primo posto il valore, il rispetto del corpo, il suo ascolto, la consapevolezza della sua architettura, l’esplorazione della sua intelligenza. Gli anni passati ci hanno visti impegnati particolarmente nella formazione, nell’educazione, nello spettacolo, in iniziative sociali e di piazza legate alle problematiche legate ai migranti, al razzismo, alla violenza sulle donne, ai diritti umani.
 
In collaborazione con il Comune di Rimini, il metodo Hobart ha creato un ponte tra arte e sociale, tra abilità e disabilità e ha dato al nostro progetto un valore inclusivo, incondizionato. La disabilità è un mistero umanissimo e la danza e l’arte più empatica che esista, quindi se noi lasciamo che siano solo i professionisti – gli psicologi, i medici – ad occuparsi delle persone con disabilità, allora noi ci precludiamo una parte del mistero della vita e l’incanto dell’esperienza umana.
 

Quindi siete andati oltre gli approcci professionali alla disabilità per permettere alla danza di cogliere quegli aspetti che altrimenti andrebbero persi, è corretto?


 
Sì, i professionisti come medici, psicologi, assistenti sociali hanno un ruolo importantissimo e noi non ci sostituiamo a loro. Quello che facciamo è richiamare la nostra comune umanità, il nostro bisogno di essere creativi, il nostro bisogno di essere accettati così come siamo. Perché poi, chiunque di noi, disabile o non disabile è accomunato dallo stesso bisogno, che è quello di essere amato.
 
Allora questo amore lo cerchiamo nell’arte e nella creatività come antidoto alla nostra solitudine.
 
Il metodo Hobart in questo è straordinario, perché tocca proprio quelle zone sensibili del nostre essere e dà loro la possibilità di esprimersi. Le persone si sentono così riconosciute per quello che sono, per la loro unicità.
 
Noi non facciamo psicodramma o psicoterapia, il metodo Hobart è un approccio didattico e artistico che comunque riesce a muovere l’essere umano e a fargli capire qualcosa di più su se stesso.
 
Quando sentiamo che le persone recepiscono questo noi ne prendiamo atto, ma siamo al loro pari, non siamo maestri, non ci sentiamo con i superpoteri. Proponiamo qualcosa che riguarda anche noi, perché tutti abbiamo bisogno di creatività. Ecco noi proponiamo una via di espressione che passa dal movimento danzato, che non è una tecnica, o come la danza classica, contemporanea, o jazz.

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Parliamo di danza come un altro modo di fare poesia, come una scrittura creativa che riguarda l’essere umano, le donne e gli uomini, i giovani e gli anziani, tutti. Tutto questo si chiama metodo Hobart.

Si potrebbe dire anche dire che si tratta di un “metodo non metodo”, visto che si fonda su qualcosa di estremamente libero? Spiegaci con che idea nasce da Gillian Hobart, come viene utilizzato oggi, dove viene applicato e a chi è utile.


 
 Sì, esatto. Quando parliamo di metodo, di solito ci riferiamo a uno studio che ha delle applicazioni nel suo ambito professionale. Ma qui non parliamo di metodo, di una sovrastruttura da applicare, perché quando viene offerto alle persone questo dà origine a un’esperienza creativa e in qualche modo imprevedibile.

Ad ogni modo, il metodo Hobart nasce da una domanda retorica che Gillian ha posto a se stessa ed è: “che cosa posso fare di utile con la danza?”.
 
La risposta è stata semplice: fare in modo che sia utile agli altri. Ecco, così è iniziato il viaggio. Lei ha poi incontrato uno psicoterapeuta, Raffaele Cavaliere, ed è stata introdotta nei centri della disabilità del Lazio. Lì ha potuto verificare come la danza fosse un mezzo privilegiato per far emergere le capacità espressive. E ha subito visto che in questo contesto di disabilità fisica e mentale il metodo Hobart è stato utilissimo per superare la difficoltà del linguaggio verbale, del movimento, della relazione. È stato durante gli anni di lavoro a Rimini che è emerso quanto l’apertura pedagogica della metodologia investisse un campo applicativo più ampio.
 
Si è infatti poi rivelata utile per tutti, perché propone un’esperienza che unisce la mente e il corpo. Mente e corpo sono una cosa sola, anche se facciamo di tutto per dividerli. Il metodo Hobart va ad unire questa separazione problematica.
 
E lo fa proprio guidando la persona alla vastità di possibilità espressive che ha, facendo riferimento e valorizzando i codici comunicativi di ognuna. Gillian una volta ci ha detto noi non capiamo i ragazzi (si riferiva a persone con autismo) perché abbiamo perso contatto con questo linguaggio antico, ma invece dovremmo provare a capirli a partire dal corpo, perché c’è un significato che ci sfugge, e che loro possono insegnarci. Ecco, questo per dire quanto grande fosse il rispetto di Gillian per la persona.
 

Gillian, parlando di corpo e mente come un’unica cosa, ci vuole un po’ portare a ripristinare un discorso sull’istinto? Vuole dirci che la persona è portatrice di un messaggio indipendentemente dalla capacità di esprimerlo con le parole e coi concetti?


 
Sì, assolutamente. Questi aspetti vengono fuori fortemente, perché lei ha un rispetto quasi religioso della persona, non in senso dottrinale, ma prettamente umano. E ha anche un amore per tutte le forme di vita, per la natura e per animali. Si potrebbe dire, più che a risvegliare un discorso sull’istinto, che ci guida alla ricerca della nostra interiorità.
 
 
La danza è infatti una pratica a sostegno del mondo interiore, per farne emergere la bellezza più che il concetto, perché dentro l’interiorità c’è veramente l’anima della persona, l’essenza.
 
Gillian usava la parola soul, parlava di ritmo e di soul. Per lei la personalità è un ritmo e nel metodo questo ha un ruolo essenziale.

Batte un cuore jazz in Gillian…


È proprio questo: dà un grande spazio a quell’improvvisazione che è tipica di chi ha grande sapere, di chi ha padronanza dell’arte. Nella conduzione del metodo ci sono delle linee, ma non sono strutture rigide, l’insegnante quindi conduce improvvisando, proprio perché ha la preparazione adeguata per spaziare. Non è un’improvvisazione superficiale perché non c’è davvero casualità. Si tratta di primitività che ha dietro saggezza e studio.
 
 

Quel tipo di primitività e quell’improvvisazione del jazz hanno dentro una saggezza e uno studio infinito. Isadora Duncan, che una grande danzatrice del Novecento e una femminista, ha detto “sei stato selvaggio un tempo, non lasciarti addomesticare”.

L’aspetto del corpo è molto importante anche per i contesti di cura all’anziano. Spesso e volentieri, infatti, viene fuori l’idea del corpo dell’anziano come un corpo malato che deve essere curato solo dal punto di vista medicale, come se fosse preso in considerazione unicamente come corpo non funzionante. Il metodo Hobart ci aiuta a farci un’idea di corpo più positiva, oltre il vigore della funzionalità?


 
 
Gillian nel libro “Il corpo pensante, la mente danzante” scrive che “la parola è divina e il corpo è il miracolo“. Il metodo Hobart rivela il corpo come mezzo espressivo, poetico, come strumento di dissenso, di conoscenza e di auto-conoscenza attraverso cui incontrare l’unicità della persona. Il corpo emerge come casa da abitare per ritrovare quella riconoscenza pacificata di sé.
 
Quindi naturalmente facilita un dialogo fra corpo e mente dove, attraverso il lavoro con la musica e con lo sguardo, viene richiamato il vissuto di ognuno di noi, andando in profondità a ritrovare il proprio mistero.
 
 


Allora in questo in questo senso, Gillian definisce “nuova estetica” il movimento del corpo ferito, interrotto, differente, e afferma la necessità della disarmonia. Il valore della fragilità non è retorica, è una verità, perché nella fragilità noi troviamo la parte più poetica dell’essere.


 
Non si tratta di fare come se non esistessero le difficoltà, non c’è finzione, ma c’è il trovarsi di fronte a se stessi per specchiarsi in un corpo che non può essere diverso da come è. Allora il movimento danzato diventa la possibilità di fare poesia, di sperimentare questa scrittura vivente e creativa che pulsa. E si trasmette nell’attimo in cui la pratichiamo.

Già da alcuni anni stiamo trasmettendo l’eredità che Gillian ci ha lasciato come un dono che condividiamo con giovani e anziani straordinari e “diversamente danzanti”.

Il movimento è qualcosa che continua a essere in produzione, non è un’ipostasi fissa come se fosse una fotografia, quindi veramente cambia le carte in tavola di quella che viene considerata oggi l’estetica.
 

Manuela, come facciamo a comunicare con il corpo e con la danza, facendo a meno del pensiero cognitivo e del linguaggio?


 
Rispetto a questo mi viene in mente la citazione che avevo riportato nel nostro libro “Riconoscersi ancora” dove Gillian diceva “la comunicazione arriva prima se passa attraverso il corpo; la mente segue” e quindi questo è un po’ il significato, perché in questa esperienza si parla, si comunica prioritariamente con il corpo, con la comunicazione non verbale, che rimane molto più impressa.
 
E però non è escluso il coinvolgimento della sfera cognitiva e del linguaggio verbale. Perché comunque nel corpo sono insieme, anche se la sfera cognitiva può essere compromessa come nei casi di demenza. Gli incontri sono gestiti secondo uno sviluppo riassunto nel nostro “ventaglio”, che è uno schema ritmico dell’incontro che ci dà un’idea più precisa del suo sviluppo.
 
Da una fase iniziale di ascolto di sé si entra in contatto col corpo e con la propria interiorità, per poi essere guidati progressivamente a movimenti, che sono legati a un ritmo che diventa sempre più sostenuto, per arrivare poi a uno sviluppo più dinamico. Questa fase ha una parte legata proprio alla creazione artistica, alla costruzione coreografica, per poi chiudersi in un’altra fase, quella di quiete prima di lasciarci e salutarci. Quindi, in questo sviluppo però, l’incontro non è gestito dall’insegnante come una struttura rigida, come una successione di esercizio.
 
Le persone non devono seguire e imparare, perché in quel caso chiaramente si farebbe leva su una sfera più legata all’aspettato linguistico. Invece si accompagna la persona, la si conduce, la si aiuta a fare questa esperienza, anche tenendo conto della sua risposta e di quella del gruppo, della loro interazione.
 
Quindi è un aiuto e una guida verso un’esperienza creativa che tiene insieme le emozioni e i ricordi dentro il momento, dentro uno spazio che le persone condividono e che consente loro di esprimersi tirando fuori quello che hanno dentro con estremo senso di libertà.
 
Proprio questa creazione e questo clima permette alla persona di sentirsi a proprio agio per compiere questo percorso di conoscenza di sé e per sperimentare se stessa attraverso il movimento. Io faccio fare anche un lavoro allo specchio col gruppo: ci sono io che mi metto di fronte a ognuno di loro e che li guido con i movimenti come se loro si trovassero di fronte a uno specchio.


Ieri mi sono messa di fronte a Mario, una persona che ha lavorato in una casa discografica, che ha sempre respirato musica e che ha fatto di questa il perno della sua vita. Quando è partita la musica l’ho invitato e esprimere con tutto il corpo tutto quello che quella canzone gli stava suscitando.
 
La psicologa che lo riprendeva aveva la mano tremante da quanto era emozionante nel vedere come lui riusciva a restituire il suo sentire attraverso tutto il suo movimento. Gli altri hanno ovviamente seguito la sua ispirazione. Perché l’altra cosa bella è che un lavoro di gruppo: le persone si uniscono, condividono un percorso, si conoscono in un modo molto profondo. C’era una signora che era lì e che vedendo Mario ha detto: “ha dipinto questa canzone ”.
 


L’aspetto del gruppo non è secondario in tutto questo lavoro, perché non sono da soli di fronte allo stimolo, ma sono in interazione e in esplorazione reciproca. Il gruppo che sto seguendo adesso ha delle grandi capacità e quando chiedo alle persone di sedersi, ciascuno ritrova sempre il proprio posto nonostante le difficoltà di memoria o cognitive. Ognuno riesce ad avere ben chiaro quello che succede, perché si fa leva sulla memoria emozionale attraverso la quale, come ho scritto nel libro, le persone riescono a riconoscermi e a riconoscere il contesto e la relazione che si crea nel gruppo.

Il lavoro poi viene fatto anche con delle proposte, per esempio dalla lettura di brani di poesia, dalla visione di quadri, dal racconto di memorie segue un’interpretazione attraverso il movimento.
 
 

Voi siete delle guide particolari perché siete un po’ degli attivatori, degli stimolatori. Vi sentite pronti ad improvvisare e a recepire l’imprevedibile?


 
La struttura di quel succede è chiara. Quel ventaglio di cui parlavo è la nostra struttura dell’incontro ed è ben preparato. Viene sostenuto da una base musicale che sostiene la proposta di movimento anche se poi si deve seguire e accogliere quello che le persone portano.


Adesso siamo in un momento difficile perché le persone sentono le notizie della guerra e dunque mi è capitato che abbiano chiesto un momento di condivisione. Ho quindi chiesto loro un minuto di silenzio e per rivolgere una sorta di preghiera, però, esprimendola con il proprio gesto, con un proprio movimento. C’era chi aveva le mani giunte, chi faceva il gesto di un abbraccio. Ognuno ha espresso quello che sentiva e alla fine ho chiesto loro di esprimere una sola parola. È venuta fuori “accoglienza”, “serenità”, “aiuto”, “condivisione”.

 

E in che modo viene usato il metodo Hobart nei contesti assistenziali?


 
Noi abbiamo avviato dal 2005 a Rimini esperienze di laboratori a partire dal contesto della disabilità, all’interno di servizi residenziali, di centri diurni, di centri socio riabilitativi, ma ci sono state delle esperienze anche nei centri di aggregazione giovanili, quindi abbiamo portato il metodo in contesti diversi.
 
Dal 2010 abbiamo avuto esperienze del metodo insieme agli anziani nei centri d’incontro, nei caffè Alzheimer. La particolarità è quella di aver di aver fatto esperienza con gruppi che avevano caratteristiche completamente diverse fra loro.
 
La cosa interessante è che in questi ambiti si fa un lavoro integrato con l’équipe, quindi c’è dietro un lavoro di preparazione fatto di incontri e di laboratori. Poi gli operatori che seguono gli anziani possono essere educatori, OSS, psicologi ed entrano nell’incontro partecipando in modo attivo.

C’è quindi una grande opportunità di scambio, di confronto, di conoscenza, di scoperta nel vedere le persone che si esprimono con modalità diverse e quindi questa cosa ha un grande valore, perché al di là dell’incontro ha una ricaduta anche dopo, nel contesto del servizio.
 
Quella partecipazione coinvolge spesso anche i familiari oltre che gli educatori, psicologi e quindi anche questo si riflette positivamente sulla relazione.
 
È proprio la relazione di cura che viene sostenuta in questi momenti. Per esempio, l’esperienza con Mario di cui raccontavo è stata molto toccante perché la psicologa ha mandato il video alla moglie, che ha potuto ritrovare il marito così come lo ha sempre conosciuto, come lo ha sempre amato, cogliendo anche come la malattia non porti via del tutto la persona.
 
 
Da lì abbiamo riflettuto su come dare degli spunti per far cogliere meglio ciò che la persona riesce ad esprimere ai familiari e agli operatori. Quello che succede negli incontri, se condiviso con gli operatori con continuità, può essere motore di un ascolto diverso, di un contatto diverso, di un riconoscimento, e dà un beneficio incredibile.

In sintesi: che cosa impariamo come individui da questo approccio e anche come operatori?


 
Intanto direi la conoscenza di se stessi, che è un percorso che non ha fine. Poi, se pensi alla possibilità di esprimersi attraverso il movimento in un dialogo con la musica con gli altri, capisci che veramente è un arricchimento continuo, perché quello che tu riesci a vivere nel momento dell’incontro è qualcosa che poi si ti fa riflettere, è una crescita continua.
 
A livello personale per me è stata veramente una cosa straordinaria e poi anche nel mio lavoro. Secondo me, pensando agli operatori, sarebbe una cosa indispensabile per la possibilità di affinare l’osservazione della comunicazione non verbale, o per la possibilità di muoversi in sintonia.
 


Le attività assistenziali sono fatte in gran parte da un contatto fisico e da un movimento. Ma questa è una cosa che viene sempre un po’ non riconosciuta fino in fondo per il valore che ha. Io credo che se si desse la possibilità di avere quel tipo di competenza nei contesti di cura, ciò permetterebbe alla persona di sentirsi meglio accolta, perché è attraverso i sensi che le arriverebbe il messaggio di cura.


 
[Manuela] Ci sono quattro parole che Gillian ci ha dato del metodo e sono “glance”, sguardo, intendendo quindi la possibilità di cogliere, di, di trovare un un contatto. “Suspansion” che è il tempo di attesa, la sospensione del giudizio che permettere alla persona di esprimersi e di mettersi in un’ottica di ascolto. “Pace” e “enchantement”, il passo, che è il ritmo, il tempo, ovvero l’elemento fondamentale della relazione di cura. (Quante volte un’azione intervento assistenziale non funziona perché magari l’operatore ha fretta o sbaglia i tempi?).

E poi “enchantement”, che è lo stupore, lo scoprire la meraviglia di ogni incontro possibile.
 
Quando esco dagli incontri del metodo sono sempre molto commossa per le cose meravigliose che emergono e mi fanno veramente vedere un mondo.
 
[Claudio] Direi che questa esperienza mi ha indicato un’altra strada: amare il tempo lento, l’essere in bilico, vedere quello che è poco evidente. Le persone con disabilità sono dei veri maestri e mi hanno insegnato a cercare oltre la forma, a danzare, a vivere stando nell’essere piuttosto che nell’apparire. Io sono coreografo e quindi alla fine ho beneficiato del metodo, puntando molto sul movimento.

In più mi ha insegnato che c’è una verità. La vita sarebbe un inganno se la sofferenza e il dolore fossero solo una iattura. Questo non vuol dire che dobbiamo soffrire, ma che dobbiamo imparare a trasformare il veleno in medicina e in questo il metodo Hobart ci dà una grossa mano.
 
Questo è un insegnamento interessante per una società che aborra il difetto e per la quale se qualcosa non è glamour o non corrisponde a uno status non ha senso e deve essere eliminata.

Per una società che aborra la vecchiaia e che ha occultato la morte, la malattia diventa veramente un grande insegnamento. Perché ci fa restare umani.


 
Non è retorica, per me è così. Mi sono dato questa risposta anche quando mi sono preso cura di mia madre mentre mi chiedevo “ma cosa serve?”, “che senso ha?”. Ecco, il senso di restare umano. Posso dire davvero che questa esperienza mi ha insegnato un’etica.
 
E quindi questa metodologia che Gillian ci ha lasciato è come una maieutica, perché è proprio un tirare fuori. È un insegnamento umanistico a tutto tondo.
 

Quali progetti per il futuro?


 
Abbiamo da un po’ l’obiettivo di ricambiare il debito di gratitudine con Gillian, perché quello che lei ci ha lasciato deve essere condiviso, perché è utile agli altri. Io ho parlato proprio alcuni giorni fa con la vice-sindaca della mia città, che è una un’esperta di arte. A lei ho proposto un progetto per realizzare un centro culturale che possa essere catalizzatore, promotore di esperienze, sia per la cittadinanza e quindi per le persone abili, sia per quelle diversamente abili. Un centro culturale che possa diventare come un luogo che accolga tutte le persone, artisti e non artisti, e anche le associazioni.
 
Questo luogo deve avere la funzione di essere un facilitatore sociale, un ponte fra le differenti culture. Uno scenario urbano che offre prospettive alla nuova estetica, questo è il punto.
 
 
Quando Gillian ha parlato di nuova estetica c’era un ricercatore dell’università che stava facendo questa ricerca sul metodo Hobart e che lo ha descritto come “inclusivo” perché sospende il giudizio mettendo il corpo come strumento in comune. 
 
Partiamo infatti dal corpo reale, non dal corpo icona. Questo corpo entra nell’istituzione senza cambiarla, fa cadere dunque l’habitus e depotenzia il doppio vincolo. Questo significa che non ha sempre ragione l’educatore perché c’è un linguaggio in essere, c’è un messaggio da cogliere.


Ecco, lui ha evidenziato queste cose. E quel giorno al seminario di Gillian lui era accanto a me e ha detto “questo concetto spacca!”. Ed è vero. Peraltro, Gillian è una danzatrice che viene da una formazione americana e la sua musa ispiratrice era Mary Anthony, una coreografa di seconda generazione che faceva parte del New Dance Group, un gruppo storico perseguitato dal maccartismo perché aveva messo in scena gli emarginati all’interno di un’America che voleva vedere solo gente sana –  “I am optimistic” – per cui Gillian in qualche modo crea un ponte tra questa esperienza straordinaria e questa piccola esperienza ancora embrionale favore dello splendore umano. Questo è un po’ il mio obiettivo, rendere omaggio a questa enorme eredità.


  • *Claudio Gasparotto è coreografo e fondatore del “Movimento Centrale”
  • ** Manuela Graziani è Responsabile dei Servizi per anziani dell’Asp Valloni Marecchia.

Libri citati:


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About the Author: Adriana Tidona

Ufficio Stampa di Editrice Dapero

Il metodo Hobart è tutt’altro che un metodo: si basa sul movimento danzato come strumento di conoscenza di sé e dell’altro e come mezzo di comunicazione. Claudio Gasparotto* e Manuela Graziani** ci hanno spiegato perché è così importante conoscerlo e in che modo questo approccio è utile ai contesti di cura.

 Claudio, di che cosa si occupa il “Movimento Centrale”? In che modo è legato al metodo Hobart e alle sue attività?


 
Il Movimento Centrale si occupa di danza e nasce proprio per sostenere una cultura di danza come arte aperta a tutti, facendo leva sul potere educativo e vitale che questa ha.
 
Offriamo un insegnamento che pone al primo posto il valore, il rispetto del corpo, il suo ascolto, la consapevolezza della sua architettura, l’esplorazione della sua intelligenza. Gli anni passati ci hanno visti impegnati particolarmente nella formazione, nell’educazione, nello spettacolo, in iniziative sociali e di piazza legate alle problematiche legate ai migranti, al razzismo, alla violenza sulle donne, ai diritti umani.
 
In collaborazione con il Comune di Rimini, il metodo Hobart ha creato un ponte tra arte e sociale, tra abilità e disabilità e ha dato al nostro progetto un valore inclusivo, incondizionato. La disabilità è un mistero umanissimo e la danza e l’arte più empatica che esista, quindi se noi lasciamo che siano solo i professionisti – gli psicologi, i medici – ad occuparsi delle persone con disabilità, allora noi ci precludiamo una parte del mistero della vita e l’incanto dell’esperienza umana.
 

Quindi siete andati oltre gli approcci professionali alla disabilità per permettere alla danza di cogliere quegli aspetti che altrimenti andrebbero persi, è corretto?


 
Sì, i professionisti come medici, psicologi, assistenti sociali hanno un ruolo importantissimo e noi non ci sostituiamo a loro. Quello che facciamo è richiamare la nostra comune umanità, il nostro bisogno di essere creativi, il nostro bisogno di essere accettati così come siamo. Perché poi, chiunque di noi, disabile o non disabile è accomunato dallo stesso bisogno, che è quello di essere amato.
 
Allora questo amore lo cerchiamo nell’arte e nella creatività come antidoto alla nostra solitudine.
 
Il metodo Hobart in questo è straordinario, perché tocca proprio quelle zone sensibili del nostre essere e dà loro la possibilità di esprimersi. Le persone si sentono così riconosciute per quello che sono, per la loro unicità.
 
Noi non facciamo psicodramma o psicoterapia, il metodo Hobart è un approccio didattico e artistico che comunque riesce a muovere l’essere umano e a fargli capire qualcosa di più su se stesso.
 
Quando sentiamo che le persone recepiscono questo noi ne prendiamo atto, ma siamo al loro pari, non siamo maestri, non ci sentiamo con i superpoteri. Proponiamo qualcosa che riguarda anche noi, perché tutti abbiamo bisogno di creatività. Ecco noi proponiamo una via di espressione che passa dal movimento danzato, che non è una tecnica, o come la danza classica, contemporanea, o jazz.

Parliamo di danza come un altro modo di fare poesia, come una scrittura creativa che riguarda l’essere umano, le donne e gli uomini, i giovani e gli anziani, tutti. Tutto questo si chiama metodo Hobart.

Si potrebbe dire anche dire che si tratta di un “metodo non metodo”, visto che si fonda su qualcosa di estremamente libero? Spiegaci con che idea nasce da Gillian Hobart, come viene utilizzato oggi, dove viene applicato e a chi è utile.


 
 Sì, esatto. Quando parliamo di metodo, di solito ci riferiamo a uno studio che ha delle applicazioni nel suo ambito professionale. Ma qui non parliamo di metodo, di una sovrastruttura da applicare, perché quando viene offerto alle persone questo dà origine a un’esperienza creativa e in qualche modo imprevedibile.

Ad ogni modo, il metodo Hobart nasce da una domanda retorica che Gillian ha posto a se stessa ed è: “che cosa posso fare di utile con la danza?”.
 
La risposta è stata semplice: fare in modo che sia utile agli altri. Ecco, così è iniziato il viaggio. Lei ha poi incontrato uno psicoterapeuta, Raffaele Cavaliere, ed è stata introdotta nei centri della disabilità del Lazio. Lì ha potuto verificare come la danza fosse un mezzo privilegiato per far emergere le capacità espressive. E ha subito visto che in questo contesto di disabilità fisica e mentale il metodo Hobart è stato utilissimo per superare la difficoltà del linguaggio verbale, del movimento, della relazione. È stato durante gli anni di lavoro a Rimini che è emerso quanto l’apertura pedagogica della metodologia investisse un campo applicativo più ampio.
 
Si è infatti poi rivelata utile per tutti, perché propone un’esperienza che unisce la mente e il corpo. Mente e corpo sono una cosa sola, anche se facciamo di tutto per dividerli. Il metodo Hobart va ad unire questa separazione problematica.
 
E lo fa proprio guidando la persona alla vastità di possibilità espressive che ha, facendo riferimento e valorizzando i codici comunicativi di ognuna. Gillian una volta ci ha detto noi non capiamo i ragazzi (si riferiva a persone con autismo) perché abbiamo perso contatto con questo linguaggio antico, ma invece dovremmo provare a capirli a partire dal corpo, perché c’è un significato che ci sfugge, e che loro possono insegnarci. Ecco, questo per dire quanto grande fosse il rispetto di Gillian per la persona.
 

Gillian, parlando di corpo e mente come un’unica cosa, ci vuole un po’ portare a ripristinare un discorso sull’istinto? Vuole dirci che la persona è portatrice di un messaggio indipendentemente dalla capacità di esprimerlo con le parole e coi concetti?


 
Sì, assolutamente. Questi aspetti vengono fuori fortemente, perché lei ha un rispetto quasi religioso della persona, non in senso dottrinale, ma prettamente umano. E ha anche un amore per tutte le forme di vita, per la natura e per animali. Si potrebbe dire, più che a risvegliare un discorso sull’istinto, che ci guida alla ricerca della nostra interiorità.
 
 
La danza è infatti una pratica a sostegno del mondo interiore, per farne emergere la bellezza più che il concetto, perché dentro l’interiorità c’è veramente l’anima della persona, l’essenza.
 
Gillian usava la parola soul, parlava di ritmo e di soul. Per lei la personalità è un ritmo e nel metodo questo ha un ruolo essenziale.

Batte un cuore jazz in Gillian…


È proprio questo: dà un grande spazio a quell’improvvisazione che è tipica di chi ha grande sapere, di chi ha padronanza dell’arte. Nella conduzione del metodo ci sono delle linee, ma non sono strutture rigide, l’insegnante quindi conduce improvvisando, proprio perché ha la preparazione adeguata per spaziare. Non è un’improvvisazione superficiale perché non c’è davvero casualità. Si tratta di primitività che ha dietro saggezza e studio.
 
 

Quel tipo di primitività e quell’improvvisazione del jazz hanno dentro una saggezza e uno studio infinito. Isadora Duncan, che una grande danzatrice del Novecento e una femminista, ha detto “sei stato selvaggio un tempo, non lasciarti addomesticare”.

L’aspetto del corpo è molto importante anche per i contesti di cura all’anziano. Spesso e volentieri, infatti, viene fuori l’idea del corpo dell’anziano come un corpo malato che deve essere curato solo dal punto di vista medicale, come se fosse preso in considerazione unicamente come corpo non funzionante. Il metodo Hobart ci aiuta a farci un’idea di corpo più positiva, oltre il vigore della funzionalità?


 
 
Gillian nel libro “Il corpo pensante, la mente danzante” scrive che “la parola è divina e il corpo è il miracolo“. Il metodo Hobart rivela il corpo come mezzo espressivo, poetico, come strumento di dissenso, di conoscenza e di auto-conoscenza attraverso cui incontrare l’unicità della persona. Il corpo emerge come casa da abitare per ritrovare quella riconoscenza pacificata di sé.
 
Quindi naturalmente facilita un dialogo fra corpo e mente dove, attraverso il lavoro con la musica e con lo sguardo, viene richiamato il vissuto di ognuno di noi, andando in profondità a ritrovare il proprio mistero.
 
 


Allora in questo in questo senso, Gillian definisce “nuova estetica” il movimento del corpo ferito, interrotto, differente, e afferma la necessità della disarmonia. Il valore della fragilità non è retorica, è una verità, perché nella fragilità noi troviamo la parte più poetica dell’essere.


 
Non si tratta di fare come se non esistessero le difficoltà, non c’è finzione, ma c’è il trovarsi di fronte a se stessi per specchiarsi in un corpo che non può essere diverso da come è. Allora il movimento danzato diventa la possibilità di fare poesia, di sperimentare questa scrittura vivente e creativa che pulsa. E si trasmette nell’attimo in cui la pratichiamo.

Già da alcuni anni stiamo trasmettendo l’eredità che Gillian ci ha lasciato come un dono che condividiamo con giovani e anziani straordinari e “diversamente danzanti”.

Il movimento è qualcosa che continua a essere in produzione, non è un’ipostasi fissa come se fosse una fotografia, quindi veramente cambia le carte in tavola di quella che viene considerata oggi l’estetica.
 

Manuela, come facciamo a comunicare con il corpo e con la danza, facendo a meno del pensiero cognitivo e del linguaggio?


 
Rispetto a questo mi viene in mente la citazione che avevo riportato nel nostro libro “Riconoscersi ancora” dove Gillian diceva “la comunicazione arriva prima se passa attraverso il corpo; la mente segue” e quindi questo è un po’ il significato, perché in questa esperienza si parla, si comunica prioritariamente con il corpo, con la comunicazione non verbale, che rimane molto più impressa.
 
E però non è escluso il coinvolgimento della sfera cognitiva e del linguaggio verbale. Perché comunque nel corpo sono insieme, anche se la sfera cognitiva può essere compromessa come nei casi di demenza. Gli incontri sono gestiti secondo uno sviluppo riassunto nel nostro “ventaglio”, che è uno schema ritmico dell’incontro che ci dà un’idea più precisa del suo sviluppo.
 
Da una fase iniziale di ascolto di sé si entra in contatto col corpo e con la propria interiorità, per poi essere guidati progressivamente a movimenti, che sono legati a un ritmo che diventa sempre più sostenuto, per arrivare poi a uno sviluppo più dinamico. Questa fase ha una parte legata proprio alla creazione artistica, alla costruzione coreografica, per poi chiudersi in un’altra fase, quella di quiete prima di lasciarci e salutarci. Quindi, in questo sviluppo però, l’incontro non è gestito dall’insegnante come una struttura rigida, come una successione di esercizio.
 
Le persone non devono seguire e imparare, perché in quel caso chiaramente si farebbe leva su una sfera più legata all’aspettato linguistico. Invece si accompagna la persona, la si conduce, la si aiuta a fare questa esperienza, anche tenendo conto della sua risposta e di quella del gruppo, della loro interazione.
 
Quindi è un aiuto e una guida verso un’esperienza creativa che tiene insieme le emozioni e i ricordi dentro il momento, dentro uno spazio che le persone condividono e che consente loro di esprimersi tirando fuori quello che hanno dentro con estremo senso di libertà.
 
Proprio questa creazione e questo clima permette alla persona di sentirsi a proprio agio per compiere questo percorso di conoscenza di sé e per sperimentare se stessa attraverso il movimento. Io faccio fare anche un lavoro allo specchio col gruppo: ci sono io che mi metto di fronte a ognuno di loro e che li guido con i movimenti come se loro si trovassero di fronte a uno specchio.


Ieri mi sono messa di fronte a Mario, una persona che ha lavorato in una casa discografica, che ha sempre respirato musica e che ha fatto di questa il perno della sua vita. Quando è partita la musica l’ho invitato e esprimere con tutto il corpo tutto quello che quella canzone gli stava suscitando.
 
La psicologa che lo riprendeva aveva la mano tremante da quanto era emozionante nel vedere come lui riusciva a restituire il suo sentire attraverso tutto il suo movimento. Gli altri hanno ovviamente seguito la sua ispirazione. Perché l’altra cosa bella è che un lavoro di gruppo: le persone si uniscono, condividono un percorso, si conoscono in un modo molto profondo. C’era una signora che era lì e che vedendo Mario ha detto: “ha dipinto questa canzone ”.
 


L’aspetto del gruppo non è secondario in tutto questo lavoro, perché non sono da soli di fronte allo stimolo, ma sono in interazione e in esplorazione reciproca. Il gruppo che sto seguendo adesso ha delle grandi capacità e quando chiedo alle persone di sedersi, ciascuno ritrova sempre il proprio posto nonostante le difficoltà di memoria o cognitive. Ognuno riesce ad avere ben chiaro quello che succede, perché si fa leva sulla memoria emozionale attraverso la quale, come ho scritto nel libro, le persone riescono a riconoscermi e a riconoscere il contesto e la relazione che si crea nel gruppo.

Il lavoro poi viene fatto anche con delle proposte, per esempio dalla lettura di brani di poesia, dalla visione di quadri, dal racconto di memorie segue un’interpretazione attraverso il movimento.
 
 

Voi siete delle guide particolari perché siete un po’ degli attivatori, degli stimolatori. Vi sentite pronti ad improvvisare e a recepire l’imprevedibile?


 
La struttura di quel succede è chiara. Quel ventaglio di cui parlavo è la nostra struttura dell’incontro ed è ben preparato. Viene sostenuto da una base musicale che sostiene la proposta di movimento anche se poi si deve seguire e accogliere quello che le persone portano.


Adesso siamo in un momento difficile perché le persone sentono le notizie della guerra e dunque mi è capitato che abbiano chiesto un momento di condivisione. Ho quindi chiesto loro un minuto di silenzio e per rivolgere una sorta di preghiera, però, esprimendola con il proprio gesto, con un proprio movimento. C’era chi aveva le mani giunte, chi faceva il gesto di un abbraccio. Ognuno ha espresso quello che sentiva e alla fine ho chiesto loro di esprimere una sola parola. È venuta fuori “accoglienza”, “serenità”, “aiuto”, “condivisione”.

 

E in che modo viene usato il metodo Hobart nei contesti assistenziali?


 
Noi abbiamo avviato dal 2005 a Rimini esperienze di laboratori a partire dal contesto della disabilità, all’interno di servizi residenziali, di centri diurni, di centri socio riabilitativi, ma ci sono state delle esperienze anche nei centri di aggregazione giovanili, quindi abbiamo portato il metodo in contesti diversi.
 
Dal 2010 abbiamo avuto esperienze del metodo insieme agli anziani nei centri d’incontro, nei caffè Alzheimer. La particolarità è quella di aver di aver fatto esperienza con gruppi che avevano caratteristiche completamente diverse fra loro.
 
La cosa interessante è che in questi ambiti si fa un lavoro integrato con l’équipe, quindi c’è dietro un lavoro di preparazione fatto di incontri e di laboratori. Poi gli operatori che seguono gli anziani possono essere educatori, OSS, psicologi ed entrano nell’incontro partecipando in modo attivo.

C’è quindi una grande opportunità di scambio, di confronto, di conoscenza, di scoperta nel vedere le persone che si esprimono con modalità diverse e quindi questa cosa ha un grande valore, perché al di là dell’incontro ha una ricaduta anche dopo, nel contesto del servizio.
 
Quella partecipazione coinvolge spesso anche i familiari oltre che gli educatori, psicologi e quindi anche questo si riflette positivamente sulla relazione.
 
È proprio la relazione di cura che viene sostenuta in questi momenti. Per esempio, l’esperienza con Mario di cui raccontavo è stata molto toccante perché la psicologa ha mandato il video alla moglie, che ha potuto ritrovare il marito così come lo ha sempre conosciuto, come lo ha sempre amato, cogliendo anche come la malattia non porti via del tutto la persona.
 
 
Da lì abbiamo riflettuto su come dare degli spunti per far cogliere meglio ciò che la persona riesce ad esprimere ai familiari e agli operatori. Quello che succede negli incontri, se condiviso con gli operatori con continuità, può essere motore di un ascolto diverso, di un contatto diverso, di un riconoscimento, e dà un beneficio incredibile.

In sintesi: che cosa impariamo come individui da questo approccio e anche come operatori?


 
Intanto direi la conoscenza di se stessi, che è un percorso che non ha fine. Poi, se pensi alla possibilità di esprimersi attraverso il movimento in un dialogo con la musica con gli altri, capisci che veramente è un arricchimento continuo, perché quello che tu riesci a vivere nel momento dell’incontro è qualcosa che poi si ti fa riflettere, è una crescita continua.
 
A livello personale per me è stata veramente una cosa straordinaria e poi anche nel mio lavoro. Secondo me, pensando agli operatori, sarebbe una cosa indispensabile per la possibilità di affinare l’osservazione della comunicazione non verbale, o per la possibilità di muoversi in sintonia.
 


Le attività assistenziali sono fatte in gran parte da un contatto fisico e da un movimento. Ma questa è una cosa che viene sempre un po’ non riconosciuta fino in fondo per il valore che ha. Io credo che se si desse la possibilità di avere quel tipo di competenza nei contesti di cura, ciò permetterebbe alla persona di sentirsi meglio accolta, perché è attraverso i sensi che le arriverebbe il messaggio di cura.


 
[Manuela] Ci sono quattro parole che Gillian ci ha dato del metodo e sono “glance”, sguardo, intendendo quindi la possibilità di cogliere, di, di trovare un un contatto. “Suspansion” che è il tempo di attesa, la sospensione del giudizio che permettere alla persona di esprimersi e di mettersi in un’ottica di ascolto. “Pace” e “enchantement”, il passo, che è il ritmo, il tempo, ovvero l’elemento fondamentale della relazione di cura. (Quante volte un’azione intervento assistenziale non funziona perché magari l’operatore ha fretta o sbaglia i tempi?).

E poi “enchantement”, che è lo stupore, lo scoprire la meraviglia di ogni incontro possibile.
 
Quando esco dagli incontri del metodo sono sempre molto commossa per le cose meravigliose che emergono e mi fanno veramente vedere un mondo.
 
[Claudio] Direi che questa esperienza mi ha indicato un’altra strada: amare il tempo lento, l’essere in bilico, vedere quello che è poco evidente. Le persone con disabilità sono dei veri maestri e mi hanno insegnato a cercare oltre la forma, a danzare, a vivere stando nell’essere piuttosto che nell’apparire. Io sono coreografo e quindi alla fine ho beneficiato del metodo, puntando molto sul movimento.

In più mi ha insegnato che c’è una verità. La vita sarebbe un inganno se la sofferenza e il dolore fossero solo una iattura. Questo non vuol dire che dobbiamo soffrire, ma che dobbiamo imparare a trasformare il veleno in medicina e in questo il metodo Hobart ci dà una grossa mano.
 
Questo è un insegnamento interessante per una società che aborra il difetto e per la quale se qualcosa non è glamour o non corrisponde a uno status non ha senso e deve essere eliminata.

Per una società che aborra la vecchiaia e che ha occultato la morte, la malattia diventa veramente un grande insegnamento. Perché ci fa restare umani.


 
Non è retorica, per me è così. Mi sono dato questa risposta anche quando mi sono preso cura di mia madre mentre mi chiedevo “ma cosa serve?”, “che senso ha?”. Ecco, il senso di restare umano. Posso dire davvero che questa esperienza mi ha insegnato un’etica.
 
E quindi questa metodologia che Gillian ci ha lasciato è come una maieutica, perché è proprio un tirare fuori. È un insegnamento umanistico a tutto tondo.
 

Quali progetti per il futuro?


 
Abbiamo da un po’ l’obiettivo di ricambiare il debito di gratitudine con Gillian, perché quello che lei ci ha lasciato deve essere condiviso, perché è utile agli altri. Io ho parlato proprio alcuni giorni fa con la vice-sindaca della mia città, che è una un’esperta di arte. A lei ho proposto un progetto per realizzare un centro culturale che possa essere catalizzatore, promotore di esperienze, sia per la cittadinanza e quindi per le persone abili, sia per quelle diversamente abili. Un centro culturale che possa diventare come un luogo che accolga tutte le persone, artisti e non artisti, e anche le associazioni.
 
Questo luogo deve avere la funzione di essere un facilitatore sociale, un ponte fra le differenti culture. Uno scenario urbano che offre prospettive alla nuova estetica, questo è il punto.
 
 
Quando Gillian ha parlato di nuova estetica c’era un ricercatore dell’università che stava facendo questa ricerca sul metodo Hobart e che lo ha descritto come “inclusivo” perché sospende il giudizio mettendo il corpo come strumento in comune. 
 
Partiamo infatti dal corpo reale, non dal corpo icona. Questo corpo entra nell’istituzione senza cambiarla, fa cadere dunque l’habitus e depotenzia il doppio vincolo. Questo significa che non ha sempre ragione l’educatore perché c’è un linguaggio in essere, c’è un messaggio da cogliere.


Ecco, lui ha evidenziato queste cose. E quel giorno al seminario di Gillian lui era accanto a me e ha detto “questo concetto spacca!”. Ed è vero. Peraltro, Gillian è una danzatrice che viene da una formazione americana e la sua musa ispiratrice era Mary Anthony, una coreografa di seconda generazione che faceva parte del New Dance Group, un gruppo storico perseguitato dal maccartismo perché aveva messo in scena gli emarginati all’interno di un’America che voleva vedere solo gente sana –  “I am optimistic” – per cui Gillian in qualche modo crea un ponte tra questa esperienza straordinaria e questa piccola esperienza ancora embrionale favore dello splendore umano. Questo è un po’ il mio obiettivo, rendere omaggio a questa enorme eredità.


  • *Claudio Gasparotto è coreografo e fondatore del “Movimento Centrale”
  • ** Manuela Graziani è Responsabile dei Servizi per anziani dell’Asp Valloni Marecchia.

Libri citati:


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About the Author: Adriana Tidona

Ufficio Stampa di Editrice Dapero

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