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Gli autori illustrano gli ingredienti della complessità della relazione tra famiglia di un anziano e residenza sociosanitaria, che è ulteriormente aumentata a causa della pandemia. Sostenere la cooperazione tra famiglia e struttura è uno dei compiti più importanti che hanno oggi gli operatori e l’articolo fornisce alcuni spunti su come è bene muoversi in questa direzione.

Di Francesca Peruch, Psicologa Centro di Servizi Villa Bianca, Tarzo, e Stefano Drioli, Psicologo e Direttore Centro di Servizi Villa Bianca, Tarzo (TV).

Premessa

Per una residenza sociosanitaria, il centro della propria cura è rappresentato dall’anziano accolto. Ma accogliere un anziano nella propria “casa”, significa prendersi cura anche delle relazioni con la sua famiglia, che con molteplici vissuti lo affida a degli estranei (professionisti, certo, ma pur sempre estranei).

La cura della relazione tra strutture residenziali per auto e non autosufficienti, è particolarmente significativa perché su di essa si fonda poi quella alleanza tra operatori e famiglia che permette all’anziano stesso di vivere in un clima di serenità.

Questo aspetto ha acquisito ancor più rilevanza nel corso della pandemia, la cui forzata assenza del familiare che “gira per il nucleo”, ci ha resi ancor più consapevoli della sua importanza per i nostri anziani residenti.

Cerchiamo di esplorare, dunque, le complessità e gli ingredienti della relazione famiglia -struttura socio sanitaria, e loro caratteristiche nel corso della pandemia, fino ad oggi.

Il primo contatto: tante emozioni in gioco

Un telefono che squilla, una voce calda e accogliente: “Pronto, Buongiorno, Centro Servizi per la persona”.

Da una parte della linea c’è un figlio, una figlia, un marito, una sorella, un fratello… che chiede aiuto. Ecco il primo passo e contatto tra famiglia e struttura.

Quando un familiare chiama o viene chiamato, chiede aiuto per questa persona anziana. Ognuno ha la sua storia, il suo familiare con demenza o malato. Ognuno si trova in una situazione di bisogno, spesso di emergenza.

Da sola la famiglia non ce la fa: perché nessuno ci insegna nella vita a rapportarci con la demenza, ad essere ragionieri ma anche infermieri di nostra madre, magari per 24 ore su 24. E allora si chiede aiuto.

In casa vi è infatti una persona anziana, che può essere lucida ma con delle problematiche di salute, oppure con un deterioramento cognitivo iniziale o ancora con una demenza oramai avviata. In casa può esserci una persona anziana che mangia da sola o che viene imboccata.

I familiari chiedono allora aiuto a dei professionisti della salute, che possano occuparsi della mamma, del papà, della nonna, del marito…

È arrivato allora il momento, di conoscere la realtà di una RSA: di vederla, conoscere qualche operatore, sentire se c’è calore, empatia e umanità o freddezza.

Il momento della scelta della casa di riposo rappresenta per la famiglia un momento di forte stress psico-fisico al quale si aggiunge il senso di colpa che subentra per la decisione di lasciare il parente in una residenza per anziani. In questo frangente, dubbi, disorientamento e paura sono sentimenti che un familiare può provare. Nella mente del familiare avanzano domande come: Ne avranno cura? Mi informeranno se sta male? Lo lasceranno da solo? Farà qualche attività?

Queste domande e questi sentimenti rappresentano passaggi naturali ma anche dolorosi per un familiare.

Il professionista che lo accoglie, ne è consapevole. Sa che da quel momento in cui il telefono squilla, inizia una nuova relazione, una nuova “missione” come l’ha definita una volta un familiare. La missione di prendersi cura dell’anziano ma anche della sua famiglia.

La cooperazione tra famiglia e struttura

L’obiettivo principale di una struttura sociosanitaria dedicata all’anziano è creare un clima di cooperazione, dove la famiglia e i professionisti hanno come obiettivo principale e comune il benessere della persona.

Cooperare in quest’ottica può non essere facile. Da un lato ci sono i sentimenti della famiglia di cui si è detto che, se non riconosciuti, compresi e accolti, possono portare a reagire con comportamenti controllanti, di sfida o minaccia nei confronti della struttura. Dall’altro può capitare che i servizi, assorti nel proprio compito di fornire assistenza, vivano la presenza o la richiesta della famiglia come un disturbo o come inadeguata alle problematiche.

I professionisti sono tenuti quindi a tessere le fila di un rapporto che possa basarsi sulla fiducia, sull’ascolto, sulla comprensione e nello stesso tempo sulla trasparenza. Il rapporto prende forma da incontri formali e informali. Da appuntamenti fissati e da parole scambiate durante le visite.

Come costruire un clima di cooperazione

Un costante confronto e colloquio riguardo le condizioni cliniche dell’anziano, una psico-educazione sulla demenza, una condivisione formale nell’ambito delle riunioni periodiche con l’équipe di professionisti (Unità Operativa Interna) degli obiettivi e degli interventi rivolti all’anziano, ma anche un feedback da parte dell’operatore sulla notte passata, sull’alimentazione, sulle attività svolte, su eventuali problematiche di salute intercorse, sono le modalità che permettono al familiare dell’anziano, di sentirsi parte di un progetto condiviso.

https://www.rivistacura.it/comunicare-con-i-familiari-dei-residenti/

Il coinvolgimento nella vita della “CASA” (chiamiamo così la RSA), attraverso la partecipazione ad eventi di animazione, feste, incontri anche di formazione/informazione consente poi di rafforzare il legame.

Un ruolo fondamentale nella creazione del legame è svolto dalle visite dei familiari al proprio congiunto: queste rappresentano opportunità di scambio sia per il residente che per i familiari e gli operatori, e consentono di migliorare la qualità di vita dell’anziano.

Il coinvolgimento dei familiari e la possibilità per loro di intrattenere relazioni con il proprio congiunto fa quindi vivere meglio l’anziano ma anche il familiare. E la pandemia da COVID 19 di questi due anni, ci ha reso sempre più consapevoli di questo.

Immagini e rapporti durante la fase acuta della pandemia

Nell’immaginario collettivo la pandemia da COVID 19 è rappresentata dai lockdown, dalle immagini dei camion militari che lasciano l’ospedale di Bergamo, di RSA chiuse e di familiari che trovano qualsiasi espediente per vedere dalle finestre i propri cari, ospiti delle strutture residenziali.

Queste immagini hanno contribuito a creare una cornice, non certo favorevole, in cui abbiamo svolto il nostro servizio di cura alle persone anziane fragili.

Ciò che abbiamo vissuto, e stiamo tutt’oggi vivendo, è anche un’infodemia, una pandemia di informazioni giunte da fonti non sempre affidabili che hanno formato immagini e credenze distorte che nei Centri di servizi per non autosufficienti – Case di Riposo – hanno alterato i rapporti esistenti nel sistema e creato tensioni tra istituzione e stakeholder (formali e informali).

Non neghiamo che l’immagine dell’abbandono e della morte ha sempre accompagnato l’assistenza in casa di riposo. Sebbene in questi anni le strutture sono cambiate ponendo sempre più attenzione agli aspetti sociali, l’affidare un proprio caro, magari un genitore, porta ancora con sé una serie di pesanti vissuti personali che si sono amplificati in questo periodo.

L’emergenza COVID-19 ha colpito direttamente gli anziani e gli operatori ma anche i familiari che sono stati costretti a vivere il distacco e la distanza fisica dovuta all’applicazione delle leggi e dei protocolli.  

Prendersi cura degli anziani era veramente difficile: gli operatori vivevano una confusione di sentimenti, impotenza, paura, rabbia, sospetto solo per citarne alcuni, e allo stesso tempo dovevano accogliere le paure, amplificate dai giornali, dei familiari degli anziani e la loro rabbia dovuta alla frustrazione di non poter essere vicini ai loro cari specie negli ultimi giorni di vita.

Nonostante il passare del tempo, con la graduale riapertura, le RSA continuavano a essere chiuse, con gli anziani costretti a vivere nelle proprie “case”, dove l’équipe psico-socio-educativo proponeva attività, sempre nella rigorosa applicazione del distanziamento sociale.

Era difficile far comprendere a chi telefonava domandando: “Ma la mia mamma fa attività?” che sì, le attività venivano svolte, ma i protocolli imponevano una compartimentazione e quindi non erano più svolte come prima. L’uomo ha sempre paura dell’ignoto e quindi pensare a qualcosa di diverso, di cui non si ha esperienza diretta, portava i familiari ad amplificare le proprie paure rispetto all’abbandono e alla solitudine del proprio caro. 

Anche nella cosiddetta “fase 3 della pandemia”, quando bisognava vedersi all’aperto, distanziati di almeno 2 metri, con la mascherina, le visite avevano ben poco a che fare con l’immagine classica di una visita al proprio caro e tutto ciò creava frustrazione e la rabbia verso le strutture residenziali e non contro le istituzioni che stavano delineando il quadro normativo.

I rapporti alla fine dell’emergenza sanitaria: una nuova normalità

Tutt’oggi (novembre 2022) viviamo un vulnus legislativo che vede le strutture residenziali vivere in un regime molto stretto rispetto alla situazione generale che vede una riapertura totale. Le restrizioni sono comunque molto allentate e gradualmente stiamo tornando a vivere la normalità dei rapporti struttura-familiari.

Ma si tratta di una nuova normalità, in quanto, ciò che è stato vissuto nel biennio precedente porta i familiari a un operare cognitivamente attraverso l’euristica dell’ancoraggio, ossia attraverso quel pensiero fallace per cui si tende a fare affidamento alle informazioni immediatamente disponibili (ricordi o informazioni a portata di mano).

Così il familiare che decide di affidare il proprio caro ad una struttura residenziale deve gestire, oltre alle consuete ansie e paure, anche tutte quelle immagini che si sono fissate nelle menti negli ultimi due anni e che trovano conferma nelle limitazioni alle visite ancora vigenti.

Il ruolo della struttura e degli operatori oggi

La struttura deve essere pronta a gestire queste sensazioni emergenti e al contempo rendersi consapevole che anche negli operatori i due anni di chiusura pressoché totale hanno prodotto un allontanamento dal confronto diretto con i familiari.

Si deve dunque rifocalizzare l’attenzione sull’importanza dell’alleanza struttura-familiare per favorire il benessere della persona assistita. In questo momento è facile per l’operatore farsi trascinare da due tendenze contrapposte rispetto alle richieste o ai bisogni dei familiari: 1) il rifugiarsi nella “normatività” o 2) essere lassisti e piegarsi supinamente ad ogni richiesta.

Per esemplificare, accade nella presa in carico di una persona con disfagia grave, ad alto rischio di ab ingestis, che il familiare, che non comprende la gravità della situazione, richieda che il proprio caro venga comunque alimentato “forzatamente”. Gli operatori potrebbero opporsi irrigidendosi o continuare ad alimentare la persona prendendosi dei rischi che poco concernono il benessere della persona.

Risulta importante invece riavvicinare gli operatori alla presenza del familiare: solo in questo modo abbiamo la possibilità di accompagnare il familiare nel processo di assimilazione della situazione e farlo diventare un alleato invece che un nemico da cui proteggersi.

Se invece ci concentriamo nel voler “tenere fuori” i familiari e nel non renderli partecipi in prima persona del processo assistenziale continueremo ad alimentare i loro fantasmi e, come avviene per tutte le profezie che si auto-avverano, a farli diventare davvero dei nemici con tutte le conseguenze del caso. Abbiamo quindi il dovere, ma anche il piacere, di impegnarci come operatori nel creare e sostenere la cooperazione tra famiglia e RSA.

Bibliografia

Moro A., Pavan G. (1997) La Famiglia dell’anziano da vincolo a risorsa. Edizione Vega

https://www.villaggioamico.it/gestire-rapporto-la-famiglia-lanziano-entra-casa-riposo/

https://welforum.it/sul-coinvolgimento-dei-familiari-nelle-rsa-imparare-dallesperienza-covid-19/

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