Affidare il proprio caro in struttura è sempre un dolore, anche quando si è preparati. Oggi, con le limitazioni della pandemia è ancora più difficile, per questo è necessario fidarsi del personale di cura.

C’è qualcosa di tremendamente faticoso nell’immaginare chi ami sereno in un posto che non puoi vedere con i tuoi occhi.
È la fatica che oggi fanno i caregiver che scelgono di affidare un loro familiare alle cure di una struttura. O si trovano costretti a farlo.
Non che prima fosse semplice, intendiamoci. Covid o non covid, portare un familiare in struttura, magari dopo un lungo tempo di accudimento a casa, è un passo che dire faticoso è dir poco.

Quando la chiamata arriva non è mai facile


È una tempesta di emozioni che ti invade dal momento in cui depositi la domanda e pensi che sì, dai, intanto è in graduatoria, non mi chiameranno subito. E cresce poi quando la chiamata arriva, sempre troppo tardi rispetto al bisogno di aiuto che hai, ma molto molto prima che tu sia veramente pronto.

E continua ancora, nel vortice di carte e domande e valigie da preparare e conversazioni difficili da sostenere, tra fratelli, con i figli, con gli amici, con i vicini, con chiunque. Perché tutti sembrano sapere cosa è più giusto fare in questi casi, il più delle volte meglio di te.
Ma è il primo giorno che diventa un vero tornado, quando il nodo allo stomaco è tale da lasciarti quasi senza fiato.


Fino a un anno e mezzo fa ad entrare in struttura era tutta la famiglia. Accompagnavano il loro caro fin su in camera, sistemavano le cose nel nuovo armadio, guardavano gli ambienti, i volti di chi lavorava all’interno, si segnavano dov’era l’infermeria per chiedere informazioni, se c’erano piante, se dalle finestre entrava luce come mamma era abituata, se la compagna di stanza era simpatica o meno lo scoprivano da soli.

Non dovevano chiederlo a noi. Una ritualità che aiutava ad entrare nel nuovo mondo, cercando subito punti di riferimento, in un avanti e indietro di fiducia che si costruisce e diffidenza che si attenua. Il nodo allo stomaco restava comunque lì, ma un po’ iniziava ad allentarsi, a mano a mano che familiarizzavano con l’ambiente.C’è una profonda differenza tra prima del covid e dopo il covid, o meglio, durante il covid.


Perché sebbene il vaccino ora permetta di guardare al futuro con più fiducia, la pandemia c’è ancora e la guardia nelle RSA non si è abbassata. Anche se non ci sono più le chiusure draconiane che hanno funestato le strutture nei drammatici mesi passati, anche se ora il green pass ha allentato le restrizioni, anche se finalmente ci si può vedere e uscire a fare due passi all’aria aperta assieme, nei reparti ancora non si entra.

L’accoglienza in struttura al tempo del Covid

Sono ormai due anni che i familiari accedono solo agli spazi dedicati alle visite. Una precauzione contro un virus che ha fatto vere ecatombi nelle case di cura, cristallerie dove è entrato con la potenza di un elefante, distruggendo decine di migliaia di vite.
Se da una parte quindi il mancato accesso ai reparti rappresenta una misura di tutela ancora necessaria, dall’altra ha spento la luce su tutto quello che accade oltre le porte delle RSA, costringendo le famiglie ad un atto di fiducia nei nostri confronti quasi totale. Un faticosissimo atto di fiducia.

Nell’articolo su rivistacuraBest practice in RSA: 4 esempi di “resistenza” e di buona gestione della crisi da 3 diverse regioniFabio Toso e Laura Ferro parlavano della fiducia verso gli operatori e del rinnovato rapporto fra anziani e professionisti e fra professionisti e famiglie.


La nostra mente inserisce ogni ricordo in uno spazio e in un tempo, così l’immagine della mamma, del marito, del fratello in casa di cura, per assumere un senso ha bisogno anche di uno spazio fisico dove essere collocata. Non basta più un’immagine plastificata, una brochure con la fotografia della stanza più bella della struttura, arredata al meglio delle sue potenzialità per il servizio fotografico.


Proprio perché asettica e uguale per tutti, non basta al familiare che desidera – ha bisogno – di dare dei contorni e colori precisi alla nuova casa del proprio caro. È fondamentale oggi più che un tempo restituire alle famiglie oltre a racconti dettagliati e aggiornamenti costanti sulla salute dei propri familiari ricoverati in struttura, anche immagini e colori che aiutino le famiglie a collocarli nel nuovo spazio di vita.

Immaginare gli ambienti di vita


Di che colore sono le pareti della stanza di mamma? È vicina o lontana dal salone? È luminosa? E il salone da pranzo com’è? E il bagno? Avrà il comodino abbastanza vicino?

Sembrano banalità, non lo sono. Per chi lavora tutti i giorni in struttura gli spazi e i ritmi di vita sono ormai familiari al punto da faticare a comprendere chi, estraneo a questa realtà e non avvezzo alle sue dinamiche, si trova a doverli immaginare senza avere punti di riferimento visivi.


“Quando l’ho salutato sulla porta mi è sembrato che quasi lo inghiottisse un buco nero. Quando vengo a trovarlo lo vedo sereno, sono tranquilla che è seguito bene. Ma se a casa ci penso non riesco a immaginarmelo qui dentro. Quando penso a lui lo vedo seduto nella sua cucina, sulla sua poltrona, ma non riesco a pensarlo qui da voi. È come se avessi un blocco nella mente. Non so dove si siede, dove mangia, con chi parla… non so come pensare al mio papà dentro questo posto”.

Fotografie degli spazi personali, panoramiche durante le videochiamate, brevi riprese nei singoli spazi di vita sono nuovi modi per contribuire a far varcare la soglia alle famiglie, pur virtualmente.


Uno strumento in più per aiutarle nel lungo e faticoso cammino di costruzione di un’alleanza di cura in un tempo in cui ancora chiediamo loro di rimanere fuori dalla nuova casa dei loro cari.

Per chi desiderasse leggere altri contenuti dell’autrice può seguire la pagina Facebook dell’autrice: I miei giorni con te – In viaggio con la demenza.
O leggere altri suoi articoli già usciti qui su CURA:

Come fare il bagno a una persona con demenza: 8 consigli di vita quotidiana

«Voglio andare a casa mia!». 4 consigli per aiutare l’anziano che non riconosce la propria casa

La ricerca della mamma nella persona malata di Alzheimer: che fare?

«Ma tu chi sei?». Cosa fare quando la persona con demenza non riconosce più i familiari

About the Author: Sara Sabbadin

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Ex caregiver e psicologa perfezionata in counseling psicologico; Fa parte del team dei narratorə di CURA.

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